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UNA DELEGAZIONE NORDCOREANA A TRIESTE

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Intervista al prof. Colleoni, console onorario della Corea del Nord

A cura di Marco Bagozzi

 

 

Professor Colleoni, sappiamo che ieri le ha fatto visita a Trieste una importante delegazione proveniente da Pyongyang. Ci può aggiornare sulla attuale situazione ?

La RPDK ha ancora una volta dimostrato al mondo la determinazione con la quale il popolo, l’esercito e il partito dei lavoratori hanno respinto la provocazione posta in atto dagli USA per cercare di aprire un nuovo fronte teso a distogliere l’opinione pubblica americana e mondiale dai fallimenti registrati con la guerra in Iraq e Afganistan. La determinazione dell’Armata Popolare guidata da Kim Jong Un ha bloccato le manovre militari contro la Repubblica Popolare di Corea, ha costretto le Nazioni Unite ancora una volta a dimostrare l’asservimento agli USA inasprendo le inique sanzioni e ha provocato l’immediato avvio di trattative indirette a Pechino, dove è volato dagli USA un rappresentante della Casa Bianca. Anche il Giappone ha capito che non può più nell’area asiatica svolgere il ruolo geopolitico che vorrebbe, senza accettare la riunificazione pacifica delle due Coree, che stanno collaborando con profitto in campo economico. Il lancio del satellite e il successo riscontrato attestano il buon livello di preparazione tecnico-militare della RPDK, pronta a respingere ogni sorta di provocazione che tenda a limitarne la sovranità.

Ci dica Professore la sua opinione sulla situazione interna recente della RPDK

Ho avuto anche ieri conferma dalla Delegazione ma non solo, che la risposta del popolo a tutti i suoi livelli è stata monolitica attorno al Partito dei Lavoratori e al Comandante supremo Kim Jong Un, che si è dimostrato degno nipote del grande Kim Il Sung. La mobilitazione della Armata dei Commissari Politici uomini e donne è stata esemplare e ha convinto gli USA ad un ripensamento e a ricordare le cocenti sconfitte subite durante la guerra di aggressione del 1953.
In campo economico la continuità nelle esportazioni dalla RPDK verso la Cina Popolare e altri Stati sta a dimostrare che l’apparato produttivo funziona a pieno regime, come pure le infrastrutture indispensabili per garantire il flusso delle merci e materie prime verso l’export, fonte indispensabile di valuta.

 
Scopo della missione a Trieste della delegazione?

La delegazione guidata dal responsabile del Partito per le relazioni con l’Europa, mio amico da trenta anni, ha fatto solo una tappa a Trieste per poterci incontrare e valutare alcune possibilità di sviluppo delle relazioni anche con questa Regione, ma non solo. Infatti i membri della Missione provenienti dalla Spagna continueranno nei prossimi giorni a visitare altri Stati della Unione Europea per incrementare scambi culturali, economici, di amicizia e comprensione tra gli Stati e la RPDK in un clima di reciproco rispetto, solidarietà e fratellanza, per rafforzare nel mondo il processo di consolidamento della pace nel rispetto reciproco.

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LA “GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO” RECENSISCE “EURASIA”

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Le analisi della rivista “Eurasia”. Imperialismo, impero e globalizzazione. La “Gazzetta del Mezzogiorno” di martedì 11 giugno 2013

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IL PROBLEMA UCRAINO

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I

Le riforme di Pietro il Grande costituiscono una frontiera netta tra due epoche della storia della cultura russa. A prima vista sembrerebbe che, sotto il regno di Pietro il Grande, abbia avuto luogo una rottura radicale della tradizione, che la cultura della Russia postpetrina non abbia nulla in comune con quella della Russia precedente e che nessun legame  esista tra le due culture. Ma le impressioni di questo tipo sono generalmente errate. Là dove si percepiscono di primo acchito rotture brusche della tradizione nella storia di un popolo, un attento esame permette di stabilire, per lo più, il carattere illusorio di tale rottura, e rivela la presenza di legami inizialmente impercettibili tra due epoche. Così è per la cultura russa prima e dopo l’epoca di Pietro il Grande. È noto che gli storici della cultura russa mettono sempre in evidenza tutta una serie di fenomeni che legano il periodo postpetrino a quello precedente, e che permettono di affermare che le riforme di quest’ultimo sono state preparate da certe correnti della cultura prepetrina. Se si dà uno sguardo complessivo a tutti questi collegamenti tra le due culture identificate dagli storici, si ottiene il seguente quadro: è possibile parlare di una rottura completa della tradizione solo se si restringe il significato del termine “cultura russa” alla sua variante “grande-russa”. Ma nessuna rottura brusca della tradizione ha avuto luogo nella cultura russo-occidentale (in particolare nella cultura ucraina) all’epoca di Pietro il Grande. E, nella misura in cui questa cultura ucraina aveva cominciato a penetrare nella Russia moscovita ben prima di Pietro il Grande, dando origine ad alcune correnti con essa simpatizzanti, si può considerare che le riforme culturali di Pietro il Grande hanno trovato un terreno propizio nella Grande Russia.

Dal XV secolo fino alla metà del XVII, la cultura della Russia occidentale e quella della Russia moscovita si sono evolute secondo percorsi talmente differenti, che lo scarto che le separava era diventato estremamente importante. Ma, nello stesso tempo, la viva coscienza dell’unità panrussa e dell’eredità culturale bizantina che esse avevano in comune non permetteva di considerarle completamente indipendenti l’una dall’altra, e faceva vedere in esse due “varianti”, due diverse modalità di una sola e medesima cultura panrussa. Dopo l’annessione dell’Ucraina (1) venne posta la questione della fusione di queste due varianti in una sola realtà. Tale questione, tuttavia, si poneva in modo offensivo, tanto per l’amor proprio nazionale grande-russo quanto per quello piccolo-russo (2) non si trattava tanto di fondere le due varianti  della cultura russa, quanto di eliminare una delle due come variante “pervertita”, e di conservare l’altra come l’unica variante “corretta” e autentica. Gli Ucraini ritenevano che la variante moscovita della cultura russa fosse stata corrotta dall’analfabetismo dei moscoviti, ai quali essi rimproveravano l’assenza delle scuole e davanti ai quali si vantavano delle loro realizzazioni in materia di istruzione. Quanto ai Moscoviti, questi giudicavano corrotta la variante ucraina (ed in generale quella russo-occidentale), a causa dell’influenza eretica del cattolicesimo polacco. Le persone ragionevoli comprendevano che entrambe le parti avevano al contempo ragione e torto, che i Grandi Russi avrebbero fatto bene ad aprire scuole e gli Ucraini a sbarazzarsi di molte caratteristiche prese in prestito dai Polacchi. Ma le persone ragionevoli erano poco numerose e le maggioranze dei due campi erano attestate su posizioni inconciliabili. Perciò, in pratica, il problema si riduceva a sapere quale delle due varianti della cultura russa dovesse essere o totalmente adottata o totalmente respinta. Spettava al governo, cioè in ultima istanza allo Zar, decidere. Il governo si schierò con il partito degli ucraini, il che era perfettamente corretto dal punto di vista politico: l’inevitabile scontento dei Grandi Russi poteva sfociare tutt’al più in rivolte a carattere locale, mentre quello degli Ucraini poteva rendere molto difficile, o addirittura impossibile, l’annessione dell’Ucraina, che era in corso di realizzazione. Ora, una volta schieratosi con gli Ucraini, il governo moscovita aveva fatto il primo passo per riconoscere il carattere “corretto” della variante ucraina della cultura russa. È vero che c’erano passi più importanti, che consistevano nel “correggere” i testi della liturgia (ossia nel rimpiazzarne la versione moscovita con quella ucraina); si trattava delle riforme del Patriarca Nikon (3). In tale ambito l’unificazione fu totale, nel senso che tutto quello che era grande-russo venne sostituito con ciò che era ucraino. Ma negli altri ambiti della cultura e della vita, l’unificazione non venne realizzata prima di Pietro il Grande. In Ucraina regnava una variante puramente occidentale della cultura russa, senza nessuna aggiunta grande–russa; nella Grande Russia c’era una mescolanza di cultura moscovita e russo-occidentale. Del resto, alcuni rappresentanti della classe superiore (gli “occidentalisti” dell’epoca) andavano alquanto lontano nell’adozione di elementi russo-occidentali da parte della cultura grande-russa, mentre altri (i nazionalisti moscoviti di allora) cercavano di mantenere la purezza della tradizione grande-russa.

Lo Zar Pietro si era proposto di europeizzare la cultura russa. È chiaro che soltanto la variante russo-occidentale, ucraina, della cultura russa poteva essere utilizzata a questo fine, dal momento che essa  aveva già assorbito alcuni elementi della cultura europea (nella sua variante polacca) e manifestava una tendenza ad evolvere in tale direzione. Al contrario, la variante grande-russa della cultura russa, a causa della sua eurofobia molto pronunciata e della sua tendenza all’autarchia, non soltanto era inadatta agli scopi fissati da Pietro il Grande, ma costituiva un ostacolo alla realizzazione degli stessi. Fu per tali motivi che Pietro il Grande cercò di sradicare ed annientare la variante grande-russa della cultura russa e fece della variante ucraina la sola variante di essa, fissandola come punto di partenza della sua evoluzione futura.

Fu in questo modo che morì la vecchia cultura grande-russa, moscovita, sotto il regno di Pietro il Grande. La cultura che a partire da quest’epoca vive e si sviluppa in Russia è il prolungamento organico e diretto non della cultura moscovita, ma della cultura kieviana, ucraina. Lo si può osservare in tutti i campi. Prendiamo, per esempio, quello della letteratura. La lingua normativa [litteraturnyj jazyk] utilizzata nelle belle lettere come nella letteratura religiosa e scientifica tanto nella Russia occidentale quanto in quella moscovita era lo slavone della Chiesa (4). Ma le varianti di questa lingua a Kiev e a Mosca prima del XVII secolo differivano un po’, tanto nel lessico quanto nella sintassi e nello stile. Dal patriarcato di Nikon, la variante kievana soppiantò la variante moscovita nei testi liturgici. Si può osservare più tardi lo stesso processo negli altri ambiti letterari, tanto che lo slavone ecclesiastico che serviva di base alla lingua normativa “slavo-russa” dell’epoca di Pietro il Grande era lo slavone ecclesiastico nella sua variante kievana. Nella Russia moscovita esisteva una ricca tradizione poetica (in versi), ma questa tradizione era essenzialmente orale. Di essa ci è pervenuto soltanto un piccolo numero di opere scritte; ma, a partire da quelle che ci sono note (per esempio Povest’ o Gore-Zločastii “Racconto del rimpianto e dell’infelicità” ), ci si può fare un’idea precisa delle particolarità di tale tradizione poetica. La lingua utilizzata era quella grande-russa quasi pura, con alcuni elementi dello slavone ecclesiastico, adorna di certe convenzioni poetiche tradizionali; la versificazione non era né sillabica né tonica, ma riposava su principi identici a quelli dei canti folkloristici grande-russi. Nella Russia occidentale, invece, la  tradizione poetica che si è imposta è un’altra, puramente libresca; quest’ultima, appoggiandosi sulla tradizione polacca, si è caratterizzata per la versificazione sillabica e l’uso della rima. Nella Russia occidentale questi “versi” (virši) erano scritti nello slavone ecclesiastico o in quel gergo russo-polacco (più esattamente bielorusso-polacco) che serviva, ai ceti superiori della società russa come lingua di conversazione e lingua pratica.  La poesia russa occidentale era penetrata nella Grande Russia prima di Pietro il Grande (scritta ovviamente in slavone ecclesiastico, cioè nella lingua normativa panrussa dell’epoca). Popolari, per esempio, erano i poemi di Simeon Polockij. Si videro anche apparire, a Mosca, imitatori locali di questo genere poetico; sarà sufficiente citare Silvestr Medvedev. A partire dall’epoca di Pietro il Grande, la poesia russa dell’antico tipo grande-russo si ritirò definitivamente “presso il popolo”: negli strati superiori (in senso culturale) della società non esisteva più se non una tradizione poetica che traeva origine nei virši sillabici scritti nello slavone ecclesiastico. La prosa narrativa esisteva sia nella Moscovia sia nella Russia occidentale, ma in quest’ultimo caso la schiacciante influenza polacca non consentiva lo sviluppo di una tradizione autonoma, sicché la prosa narrativa consisteva quasi esclusivamente di traduzioni. Nella Russia moscovita, in compenso, c’era una tradizione autonoma narrativa in prosa che nel secolo XVII era diventata particolarmente forte e lasciava sperare in un’evoluzione fiorente (si veda, ad esempio, Il racconto di Savva Grudcyn). Al contempo, in tutto questo XVII secolo, la Russia moscovita era inondata di racconti tradotti che provenivano dalla Russia occidentale. È a questa tradizione russa occidentale che aderisce la prosa narrativa russa dell’epoca postpetrina: la tradizione moscovita autoctona era morta prima di aver potuto raggiungere il pieno sviluppo. È altamente probabile che nella Russia moscovita esistesse l’arte oratoria. Lo stile delle opere dell’arciprete Avvakum (5) è nettamente oratorio e, malgrado l’apparente assenza di artifici, presuppone un’antica tradizione orale di predicazione. Ma questa tradizione non ha nulla in comune con quella della retorica scolastica impiantata nella Russia occidentale dalle confraternite (6) e dall’Accademia Mohiliana (7). Mosca era stata in contatto con questa tradizione ucraina di predicazione fin da prima di Pietro il Grande. Fu durante il regno di quest’ultimo che i celebri oratori ucraini Feofan Prokopovič e Stefan Javorskij assicurarono il trionfo definitivo di questa tradizione. Tutta la tradizione retorica (sia religiosa sia secolare) del periodo post-petrino risale per l’appunto a questa tradizione ucraina, e non alla tradizione moscovita; quest’ultima si era definitivamente estinta, lasciando dietro di sé, come sole testimonianze, le poche indicazioni che si possono ricavare dalle opere di Vecchi Credenti (8) come Avvakum. Infine, solo nella Russia occidentale esisteva una letteratura drammatica prima di Pietro il Grande. In rare occasioni venivano rappresentate a corte le opere drammatiche di autori ucraini (per esempio Simeon Polockij). La letteratura drammatica russa successiva a Pietro il Grande è geneticamente legata alla scuola drammatica ucraina. Vediamo così che la letteratura russa postpetrina è il prolungamento diretto della tradizione letteraria russa occidentale, ucraina.

Si può notare la medesima situazione nelle altre forme d’arte: nella musica vocale (soprattutto religiosa) e strumentale, nella pittura (dove la tradizione grande russa si è mantenuta solo tra i vecchi credenti, mentre nella Russia postpetrina tutta la pittura d’icone e il ritratto risalgono alla tradizione russa occidentale), nell’architettura religiosa (l’unico tipo di architettura per il quale si riconoscevano certi diritti allo “stile russo”) (9). Ma questa aderenza alle tradizioni russe occidentali e il rifiuto delle tradizioni moscovite non si notano soltanto nell’arte, bensì anche in tutti gli altri aspetti della cultura spirituale della Russia postpetrina. L’atteggiamento verso la religione e l’evoluzione del pensiero ecclesiastico e teologico dovevano naturalmente fondersi nella tradizione russa occidentale, una volta che la versione russa occidentale della liturgia venne riconosciuta come la sola corretta sotto il patriarcato di Nikon e l’Accademia Mohiliana di Kiev diventò il centro panrusso da cui si irradiarono le più elevate luci spirituali, al punto che la maggior parte dei dignitari della Chiesa russa per un lungo periodo uscirono da questa Accademia. Nei confronti della tradizione russa occidentale fu debitrice anche la pedagogia successiva a Pietro il Grande (nelle scuole, nello spirito e nel contenuto dell’insegnamento). Di origine tipicamente russa occidentale, infine, fu quell’atteggiamento verso l’antica cultura grande russa che dominò nel periodo postpetrino: era un fatto convenuto (e lo è ancora) che su questa cultura si dessero i medesimi giudizi che venivano emessi dagli Ucraini “istruiti” del XVII secolo…

 

II

 

Fu così che a cavallo dei secoli XVII e XVIII ebbe luogo una ucrainizzazione della cultura spirituale grande-russa. La differenza tra la variante russa occidentale e la variante moscovita della cultura russa fu eliminata con lo sradicamento di quest’ultima. Non vi fu se non una cultura russa unica.

Questa cultura russa unica dell’epoca postpetrina era di origine russo-occidentale, ucraina, ma il sistema statale russo era d’origine grande-russa, per cui il centro della cultura si dovette spostare dall’Ucraina alla Grande Russia. Il risultato fu che questa cultura diventò né specificamente grande russa né specificamente ucraina, ma panrussa. Tutta la sua evoluzione ulteriore fu determinata in larga misura da questa passaggio da una situazione limitata e locale ad un’altra, più ampia, nazionale ad un livello seriore. La variante russa occidentale della cultura russa si era formata in un’epoca in cui l’Ucraina era una provincia polacca e la Polonia, dal punto di vista culturale, era una provincia (una provincia remota) dell’Europa romano-germanica. Ma a partire dall’epoca di Pietro il Grande, questa variante russa occidentale della cultura russa, divenuta la sola cultura panrussa, fu per questo fatto stesso la cultura della capitale, nel momento in cui la Russia cominciava ad aspirare a svolgere un ruolo in “Europa”. La cultura ucraina, in qualche modo, si spostava da una insignificante cittadina provinciale verso la capitale, sicché dovette modificare sensibilmente il proprio aspetto provinciale. Si sforzò dunque di sbarazzarsi di tutto ciò che era specificamente polacco e di sostituirvi i corrispondenti elementi delle culture romano-germaniche originarie (tedesca, francese ecc.). Così l’ucrainizzazione divenne un ponte verso l’europeizzazione. Anche la base linguistica della cultura cambiò. Esisteva nella Russia occidentale, accanto allo slavone ecclesiastico normativo, un gergo russo-polacco, che serviva come lingua di conversazione e lingua pratica per le classi superiori della società. Ma, dopo che la variante ucraina diventò panrussa, questo gergo russo-polacco, emblematico del giogo polacco e dello spirito provinciale, non poteva ovviamente più continuare ad esistere. La lingua pratica grande-russa dominante nella Grande Russia, elaborata nell’ambito delle persone istruite moscovite, subì fortemente l’influsso del gergo russo-polacco, ma finì per soppiantarlo; essa divenne così la sola lingua pratica delle classi superiori, e ciò non solo nella Grande Russia, ma anche in Ucraina. Tra questa lingua e lo slavone ecclesiastico, che continuava a svolgere il suo ruolo di lingua normativa, si instauravano rapporti di osmosi, di infiltrazione reciproca: la lingua di conversazione delle classi superiori si “slavonizzava” fortemente, mentre lo slavone da parte sua si russificava. Infine, le due lingue si fusero per diventare il russo moderno, simultaneamente lingua normativa, lingua di conversazione corrente e lingua pratica di tutti i Russi istruiti, base linguistica della cultura russa.

L’ucrainizzazione culturale della Grande Russia e la trasformazione della cultura ucraina in cultura panrussa ebbero come conseguenza naturale il fatto che questa cultura perse il suo carattere provinciale specificamente ucraino. Essa non poteva acquisire un carattere specificamente grande russo per la semplice ragione che, come abbiamo detto più sopra, la continuità della tradizione culturale specificamente grande russa era stata definitivamente e irrevocabilmente interrotta, sicché si era conservata soltanto la lingua cancelleresca delle persone colte moscovite. Di qui proviene il carattere panrusso astratto di tutta la cultura “pietroburghese” postpetrina.

Ma il predominio di questo carattere panrusso astratto portava in pratica al rifiuto di ciò che era specificamente russo, vale a dire a un’autodenigrazione nazionale. E questa autodenigrazione doveva naturalmente provocare la reazione di coloro che possedevano un sentimento nazionale sano.

Questa situazione, nella quale in nome della grandezza della Russia veniva perseguitato e sradicato tutto ciò che era autenticamente russo, era troppo assurda per non provocare una protesta. Non c’è da stupirsi se nella società russa apparvero delle tendenze che affermavano l’unicità del carattere nazionale russo e mettevano in evidenza la fisionomia nazionale russa. Tuttavia, siccome queste correnti erano dirette contro il carattere astratto della cultura panrussa e si sforzavano di sostituirlo con qualcosa di concreto, esse avevano inevitabilmente uno spiccatissimo carattere regionalista: ogni tentativo per dare alla cultura russa un’identità nazionale più concreta portava inevitabilmente a scegliere una individuazione del popolo russo (grande russa, piccolo russa o bielorussa), in quanto esistevano concretamente solo i Grandi Russi, i Piccoli Russi e i Bielorussi, mentre i “Panrussi” sono semplicemente un’astrazione. Effettivamente, si vede che le correnti impegnate in favore di una cultura russa nazionale concreta seguono due linee parallele: grande russa e piccolo russa (10). È proprio lo stretto parallelismo di queste due linee ad essere considerevole; lo si può osservare in tutte le manifestazioni delle correnti suddette. Così, nel dominio letterario si trova, fin dalla fine del XVIII secolo, tutta una serie di opere scritte volontariamente nella lingua e nello stile popolari; queste opere si collocano su due linee evolutive strettamente parallele: una grande russa e l’altra piccolo russa. Inizialmente si nota in entrambe una tendenza parodistica e umoristica (si vedano Il prode Eliseo [Bogatyr’ Elisej] di V. Majkov nella linea grande russa e l’Eneide di Kotljarevskij in quella piccolo russa), successivamente sostituita da una tendenza romantico-sentimentale che mette l’accento sulla stilistica del canto popolare (nella tradizione grande russa il culmine è segnato da Kol’cov, in quella piccolo russa da Ševčenko). Verso la metà del XIX secolo, questa tendenza è sostituita a sua volta dalla letteratura di denuncia e del “male civico” (forma specificamente russa del mal du siècle europeo). L’idealizzazione romantica dei vecchi tempi, anteriori a Pietro il Grande, che si esprimeva nella letteratura, nella storiografia e nell’archeologia e discendeva anch’essa dalla ricerca della concretezza nazionale, si manifesta simultaneamente in queste due linee parallele, grande russa e ucraina. Si può dire la stessa cosa del populismo e delle differenti varietà di “marcia verso il popolo” (11). Ogni populista, in quanto si interessava a un popolo reale e concreto, diventava inevitabilmente un “regionalista” ad un certo grado, un infiammato difensore delle caratteristiche popolari e delle forme di vita specificamente grandi russe o ucraine.

Per quanto l’attrazione verso la concretezza nazionale nell’epoca pietroburghese rivestisse forme regionaliste o di insistenza su una determinata individuazione dell’etnia russa (grande russa, ucraina ecc.), questo fenomeno era panrusso per sua natura, poiché erano panrusse le sue cause stesse. La Russia postpetrina si caratterizzava per il netto distacco tra l’intellighenzia e le concrete fondamenta popolari, distacco che provocava l’allontanamento dell’intellighenzia dal popolo e, al contempo, l’ardente desiderio di un loro ricongiungimento. Il problema della riforma della cultura o della costruzione di un nuovo edificio culturale, in cui i livelli superiori si innalzassero in maniera organica a partire da fondamenta popolari, era panrusso per sua natura. Questo problema si pone ancor oggi a tutte le componenti dell’etnia russa: ai Grandi Russi come agli Ucraini e ai Bielorussi.

 

 

III

 

In relazione alla riforma della cultura, c’è una questione che si pone: la nuova cultura deve essere panrussa oppure una tale cultura non deve esistere affatto, ma devono essere create nuove culture, una per ogni sottogruppo dell’etnia russa?

Tale questione si pone in maniera speciale per gli Ucraini. Essa è particolarmente complicata da considerazioni politiche e in genere si accompagna a quella che consiste nel chiedersi se l’Ucraina debba essere uno Stato del tutto indipendente, o il membro di una federazione russa, o un’entità che faccia parte della Russia. Tuttavia, in questo caso specifico, non è assolutamente necessario stabilire un legame tra l’aspetto politico e quello culturale della questione. Si sa che esiste una cultura pangermanica, mentre tutte le parti dell’etnia tedesca non si trovano riunite in un solo Stato; è parimenti noto che gli Indù hanno una cultura del tutto indipendente, per quanto da parecchio tempo siano privi dell’indipendenza politica. Il problema della cultura ucraina e della cultura panrussa deve essere affrontato al di fuori della questione delle relazioni politiche e giuridiche esistenti tra l’Ucraina e la Grande Russia.

Abbiamo visto più in alto che la cultura panrussa dell’epoca postpetrina soffriva di molti gravi difetti, i quali avevano fatto nascere il desiderio di riformarla in una maniera concreta e nazionale. Certi fautori del separatismo culturale ucraino si sforzano di dimostrare che la cultura che è esistita in Russia fino ad oggi è una cultura grande-russa, e non panrussa. Ma ciò è scorretto nei fatti; abbiamo visto prima come la creazione di una cultura panrussa nel periodo postpetrino abbia avuto come base l’ucrainizzazione della Grande Russia e come questa cultura panrussa abbia legami di continuità solo con la cultura russa occidentale, ucraina, anteriore a Pietro il Grande, e non con l’antica cultura grande-russa, la cui tradizione si è interrotta al termine del secolo XVII. Non si può negare l’evidenza: gli Ucraini hanno attivamente partecipato non solo alla creazione, ma anche allo sviluppo di questa cultura panrussa, e lo hanno fatto in quanto Ucraini, senza rinnegare la loro appartenenza all’etnia ucraina. Anzi, essi hanno affermato la loro identità: non si può escludere Gogol’ dalla letteratura russa, Kostomarov (12) dalla storiografia russa, Potebnja (13) dalla filologia russa eccetera. È semplicemente impossibile negare che la cultura russa d’epoca postpetrina sia una cultura panrussa, o affermare che sia una cultura straniera per gli Ucraini. Se è vero che certi Ucraini hanno visto in essa una cultura che non appartiene loro in maniera integrale e se è vero che il fossato che separa l’élite culturale dalle masse è evidente allorché si considerano i modelli di pensiero e il modo di vita della gente comune in Ucraina, è altrettanto vero che il medesimo fenomeno può essere osservato anche nella Grande Russia. Quindi le cause di tale fenomeno non debbono essere ricercate nel fatto che la cultura era grande-russa.

Ogni cultura deve avere due componenti: una orientata verso il suo fondamento etnografico concreto e radicato nel popolo, l’altra verso le altezze della vita spirituale e intellettuale. Per assicurare la stabilità e la vitalità della cultura, ci vuole innanzitutto un legame organico tra queste due componenti e poi bisogna che ciascuna compia la funzione che ad essa è inerente; vale a dire, quella che ha a che fare con le radici popolari deve riflettere le caratteristiche particolari del suo fondamento etnografico concreto, mentre quella che è orientata verso le altezze spirituali deve corrispondere alle aspirazioni spirituali dei più eminenti rappresentanti della nazione.

Nella cultura panrussa dell’epoca successiva a Pietro il Grande, queste due componenti, o questi due “livelli” non erano sviluppati allo stesso modo. Il “livello inferiore” (14), rivolto verso le fondamenta culturali radicate nel popolo, corrispondeva molto male alle caratteristiche concrete del tipo etnologico russo e quindi compiva male la propria funzione. Una persona “del popolo” poteva associarsi a questa cultura solo a patto di perdere del tutto (o quasi del tutto) la propria identità, reprimendo e perdendo certi tratti essenziali – essenziali proprio per il “popolo”. Al contrario, il “livello superiore” della cultura panrussa, orientato verso le altezze della vita spirituale e intellettuale, quanto meno permetteva di soddisfare completamente le esigenze spirituali dell’intelligencija russa.

Cerchiamo adesso di immaginare che cosa accadrebbe se in Ucraina questa cultura panrussa venisse rimpiazzata con una cultura ucraina nuova, appositamente creata, che non avesse niente in comune con la cultura panrussa precedente. La popolazione ucraina dovrebbe “optare” per l’una o per l’altra. Se la nuova cultura ucraina riuscisse ad adeguare il proprio “livello inferiore” al fondamento etnografico concreto, sicuramente gli strati popolari opterebbero per questa cultura ucraina nuova, perché, come abbiamo visto, nell’antica cultura panrussa questo orientamento verso le radici popolari era sviluppato male e mal si adattava alle caratteristiche specifiche del popolo. Se però si vuole che questa nuova cultura ucraina sia scelta non solo per le masse popolari, ma anche per le élites colte (cioè per l’intelligencija più elevata), bisogna che il “livello superiore” di tale cultura risponda alle più alte esigenze intellettuali dell’intelligencija ucraina, in misura maggiore che nel caso dell’antica cultura panrussa. In caso contrario, l’intelligencija ucraina (e più esattamente l’intelligencija colta, quella che ha più peso dal punto di vista della creazione culturale) resterà fedele, nella sua schiacciante maggioranza, alla cultura panrussa. Una cultura ucraina autonoma che fosse priva della collaborazione di questa componente, la più preziosa del popolo ucraino, sarebbe condannata alla degenerazione e alla morte.

Qualora si consideri la questione in modo imparziale, si arriva questa conclusione: se è verosimile che una nuova cultura ucraina riesca in maniera soddisfacente ad adattare alle radici popolari il “livello inferiore” dell’edificio culturale, è invece poco verosimile che tale cultura possa soddisfare, se non parziale, l’altra condizione e che possa creare un nuovo “livello superiore” in grado di rispondere alle più alte esigenze dell’intelligencija meglio di quanto non lo facesse l’antica cultura panrussa. La nuova cultura ucraina non sarà mai capace di far concorrenza alla cultura panrussa per rispondere alle esigenze spirituali più elevate. Innanzitutto, essa non possiederà la ricca tradizione culturale della tradizione panrussa. Ora, l’inserimento in questa tradizione e il ricorso ad essa come punto di partenza facilita grandemente l’opera di coloro che creano i più alti valori spirituali, anche se si tratta di creare valori del tutto originali. Inoltre, allorché si tratta di creare valori culturali elevati, la selezione qualitativa dei loro creatori riveste un’importanza essenziale. Perciò è fondamentale che si sviluppi questo aspetto della cultura: che la totalità etnica in cui la cultura si sviluppa sia la più ampia possibile. Più i portatori di una cultura sono numerosi, più grande sarà il numero degli individui geniali che nasceranno tra i portatori della cultura stessa; e più numerosi saranno gl’individui di genio, più intenso sarà lo sviluppo del “livello superiore” della cultura, e più forte sarà la gara. La gara innalza la qualità dell’edificazione culturale. Così, mentre per il resto tutte le cose sono uguali, il “livello superiore” della cultura comune di una grande unità etnologica sarà, qualitativamente più perfetto e quantitativamente più ricco che non in altre culture le quali potrebbero elaborare parti isolate della medesima unità etnologica, operando ciascuna da sola, indipendentemente dalle altre. Ogni rappresentante imparziale di questa totalità etnologica lo deve riconoscere; qualora abbia la possibilità di scegliere, opterà naturalmente per la cultura della totalità etnologica (in questo caso particolare, la cultura panrussa) e non per la cultura di una parte di questa totalità (nel caso in questione, la cultura ucraina). Ne consegue che solo dei pregiudizi o l’assenza di scelta possono indurre ad optare per la cultura ucraina. Quanto abbiamo detto concerne sia i creatori degli alti valori spirituali sia i fruitori, vale a dire coloro che li apprezzano. La natura stessa della sua attività fa sì che ogni creatore di beni culturali di alto valore (se ha davvero del genio ed è cosciente delle proprie forze) tenta di rendere le sue creazioni accessibili al più alto numero possibile di persone in grado di apprezzarle. Ogni fruitore di questi beni culturali si sforza a sua volta di godere del prodotto dell’attività creatrice del più ampio numero possibile di creatori. Ciò spiega perché gli uni e gli altri sono interessati ad ampliare, e non a restringere, il campo della cultura in questione. La limitazione di questo campo può essere auspicata solo per dei creatori privi di genio o mediocri, i quali vogliano difendersi dalla concorrenza (un genio autentico non teme la concorrenza!) o per degli sciovinisti limitati e fanatici, che non si sono mai innalzati fino a poter valutare di per se stessa un’elevata cultura e possono apprezzare un prodotto dell’attività culturale solo nella misura in cui esso si trova entro i limiti della particolare variante regionale di una cultura. Sono persone di questo tipo quelle che, in genere, opteranno non per la cultura panrussa, ma per una cultura ucraina del tutto indipendente. Costoro diventeranno i principali adepti e i dirigenti di questa nuova cultura e vi imprimeranno il loro marchio: quello della meschina vanità provinciale, della mediocrità trionfante, della banalità, dell’oscurantismo, per non parlare dell’atmosfera di costante sospetto, di eterno timore della concorrenza. Sicuramente, queste persone faranno di tutto per limitare o abolire la possibilità di scegliere liberamente tra la cultura panrussa e una cultura ucraina indipendente. Cercheranno di impedire agli ucraini di conoscere il russo normativo, di leggere i libri russi, di interessarsi alla cultura russa. Ma nemmeno questo sarà sufficiente: bisognerà anche inculcare a tutta la popolazione dell’Ucraina un odio ardente e feroce per tutto ciò che è russo e mantenere vivo quest’odio per mezzo della scuola, della stampa, della letteratura, dell’arte, anche a prezzo di menzogne e di calunnie, del rifiuto del proprio passato storico, fino a calpestare i valori nazionali più sacri. In realtà, se gli Ucraini non sono animati dall’odio per tutto ciò che è russo, ci sarà sempre la possibilità di optare per la cultura panrussa. Ora, non è difficile capire che una cultura ucraina creata in tal modo sarà di pessima qualità. Essa non rappresenterà un fine di per sé, ma sarà solo lo strumento di una politica, di una politica malvagia, aggressivamente sciovinista, parolaia e provocatrice. I motori principali di questa cultura non saranno gli autentici creatori creatori di beni culturali, bensì dei maniaci fanatici, dei politicanti ipnotizzati dalle loro opinioni ossessive. Tutti gli elementi di questa cultura (scienza, letteratura, arte, filosofia ecc.) saranno dunque tendenziosi, anziché costituire un valore di per sé. La porta sarà aperta per gli incapaci, i quali raccoglieranno allori a buon mercato inchinandosi davanti alle piattezze partigiane, mentre i geni autentici, che non si rassegneranno a portare i paraocchi, verranno ridotti al silenzio.

Ma soprattutto si può dubitare che una simile cultura possa essere veramente nazionale. Soltanto dei veri geni, mossi da una forza interiore irrazionale e non da obiettivi politici secondari, sono capaci di esprimere completamente nei beni culturali lo spirito dell’identità nazionale. Ma per tali geni non ci sarà spazio in questo malevolo ambiente sciovinista. I politici avranno in testa una cosa sola: creare al più presto la loro cultura ucraina, non importa quale, purché non somigli alla cultura russa. Ciò comporterà immancabilmente una febbrile attività di imitazione: piuttosto che creare qualcosa di nuovo, sarà più semplice importare dall’estero beni culturali già esistenti (a condizione che non provengano dalla Russia!), dopo averli battezzati all’istante con dei nomi ucraini! Una “cultura ucraina” creata in tal modo non sarà l’espressione organica della natura tipica dell’identità nazionale ucraina e non si distinguerà molto dalle “culture” che vengono create in fretta da tutti quei “popoli giovani” che svolgono il ruolo di comparse alla Società delle Nazioni. Una siffatta cultura combinerà l’esibizione demagogica di alcuni elementi isolati del tripodi vita popolare, scelti a casaccio ed inessenziali, con la sostanziale negazione delle basi più profonde di questo tripodi vita. L’ultima moda della civiltà europea (adottata meccanicamente ed assunta in maniera maldestra) si mescolerà agli aspetti più clamorosi del vecchiume provinciale e dell’arretratezza culturale. Tutto ciò, in un vuoto spirituale mascherato da un’autoglorificazione arrogante, da una pubblicità martellante e da frasi grandiloquenti sulla cultura nazionale e sui particolarismi, sarà solo un miserabile surrogato; non una cultura, ma una caricatura.

Tali sono le prospettive poco attraenti che si aprono davanti alla cultura ucraina, se essa decide di rimpiazzare la cultura panrussa o di eliminarla, o di entrare in competizione con essa. Una situazione in cui ogni Ucraino colto debba scegliere tra l’essere russo e l’essere ucraino, avrà come conseguenza una selezione di operatori culturali estremamente svantaggiosa per lo sviluppo della cultura ucraina. Ponendo la questione dei rapporti tra cultura ucraina e cultura panrussa sotto forma di dilemma (“aut aut”), gli Ucraini condannano la loro cultura futura alla poco invidiabile situazione che abbiamo descritta. Formulare la questione in un modo del genere è totalmente sfavorevole per gli Ucraini. Per evitare questo avvenire miserevole, la cultura ucraina deve essere edificata in modo tale che essa vada a completare la cultura panrussa, anziché andarsi a mettere in concorrenza con essa; in altri termini, la cultura ucraina deve diventare una individuazione della cultura panrussa.

Abbiamo già mostrato che il livello “inferiore” (ossia vicino ai fondamenti popolari) dell’edificio culturale doveva essere completamente ricostruito e che in questo edificio la cultura ucraina poteva e doveva manifestare in modo naturale la propria identità; d’altra parte abbiamo mostrato come al “livello superiore” della cultura, che include i più elevati valori culturali, fosse impossibile alla cultura ucraina far concorrenza alla cultura panrussa. Osserviamo dunque una delimitazione naturale tra il dominio della cultura panrussa e quello della cultura ucraina. Questa delimitazione non si riassume certamente in quanto è stato appena detta, poiché, oltre al livello “superiore” e a quello “inferiore”, la cultura ha anche dei livelli “intermedi”. Comunque sia, il principio di differenziazione è stato spiegato.

 

 

IV

 

Le medesime considerazioni debbono servire come punto di partenza per differenziare il dominio della cultura panrussa e quelli appartenenti alle culture bielorussa, grande russa e di altre regioni. Come è stato detto, la disarmonia tra il “livello inferiore” dell’edificio culturale e le fondamenta popolari è stato un fenomeno generale nella cultura russa dopo Pietro il Grande. Toccherà all’avvenire il compito di rimediare a questo difetto, di armonizzare la parte della cultura russa rivolta verso le radici popolari con la concreta peculiarità nazionale del popolo russo. Una migliore corrispondenza tra la cultura e il popolo garantirà la partecipazione ininterrotta dei “rappresentanti del popolo” all’edificazione culturale. E siccome questa parte della cultura deve essere adattata ai caratteri peculiari specifici del popolo russo, è naturale che questa iniziativa sia fortemente differenziata a seconda dei domini regionali ed etnici. Infatti il “popolo russo in generale” è un’astrazione, in quanto esistono concretamente solo i Grandi Russi (con le loro suddivisioni: Grandi Russi settentrionali, meridionali, Pomori, Russi del Bacino della Volga, Siberiani, Cosacchi ecc.), i Bielorussi, i Piccoli Russi o Ucraini (anch’essi con le loro suddivisioni). Il livello inferiore dell’edificio culturale si deve adattare in ogni regione alla determinata variante specifica del popolo russo (ossia alla particolarità regionale dell’identità nazionale russa). È su questa base che la cultura russa dovrà differenziarsi fortemente in futuro in funzione delle regioni e delle province; al posto dell’omogeneità astratta, impersonale e burocratica del passato, dovrà apparire un arcobaleno dalle tinte locali nettamente differenziate.

Sarebbe tuttavia un grave errore considerare lo sviluppo di queste varianti locali come l’unico o il principale obiettivo del lavoro culturale. Non bisogna dimenticare che, oltre all’aspetto rivolto verso le proprie radici popolari, ogni cultura deve anche avere un altro aspetto, orientato verso le altezze spirituali. Guai alla cultura in cui questo aspetto non è sviluppato abbastanza, al punto che l’élite culturale della nazione è obbligata a sovvenire alle esigenze spirituali più alte non coi propri beni culturali, ma con quelli d’una cultura estranea! È per questo che l’elaborazione e lo sviluppo degli aspetti della cultura orientata verso le radici popolari devono accompagnarsi ad un lavoro intenso nel dominio dei valori spirituali “superiori”. E se la natura stessa dell’attività effettuata al livello inferiore della cultura russa esige una differenziazione in funzione delle regioni e dei gruppi etnici russi, l’attività svolta al livello superiore richiede, per la sua stessa natura, la collaborazione di tutti i gruppi etnici russi. Nella misura in cui le frontiere regionali sono naturali ed essenziali al livello inferiore perché vi sia un adattamento della cultura alle specificità del suo fondamento etnografico, nella stessa misura queste frontiere sono, al livello superiore, artificiali, superflue e nefaste. L’essenza stessa di questa parte della cultura esige un diapason di attività che sia il più ampio possibile; ogni limitazione che le barriere regionali possano recare a questo diapason sarà percepita come un fastidio inutile dai creatori dei beni culturali e dai loro fruitori. Solo degli sciovinisti regionali maniaci e fanatici, solo dei creatori mediocri e timorosi di concorrenza possono desiderare che vengano elevate delle barriere regionali in questo dominio della cultura. Nel caso in cui, per compiacere i creatori mediocri di beni culturali ed i fruitori non dirozzati, sia necessario erigere delle barriere culturali non solo al livello inferiore dell’edificio culturale, ma anche al livello superiore, allora in certe regioni del paese regnerà un clima così soffocante di stagnazione provinciale e di meschinità trionfante, che quanti posseggono un vero talento e sono intellettualmente maturi fuggiranno dalla provincia per dirigersi verso la capitale. Alla fine, nelle province non resteranno più quegli operatori culturali, la cui attività è indispensabile al lavoro nei livelli inferiori dell’edificio culturale.

Così, la differenziazione etnica e regionale della cultura russa non deve riguardare il culmine dell’edificio culturale, non deve attentare ai valori d’ordine superiore. Non devono esistere frontiere etniche e regionali al “livello superiore” della futura cultura russa. Diversamente, al “livello inferiore” le barriere etniche e regionali devono essere fortemente sviluppate e chiaramente delimitate. Certo, una frontiera netta tra questi due livelli non può esistere; essi devono fondersi l’uno nell’altro in maniera graduale e impercettibile. Altrimenti la cultura non sarebbe un sistema unico, non sarebbe una cultura nel vero senso del termine. Le frontiere regionali, nettamente disegnate nella parte inferiore dell’edificio culturale, sfumeranno gradualmente a mano a mano che ci si innalza e ci si allontana dalle fondamenta popolari; al sommo dell’edificio, questi limiti non saranno più evidenti. È importante che vi sia un’interazione costante tra l’alto e il basso dell’edificio culturale. I beni culturali nuovamente creati al livello superiore devono indicare la direzione che prenderanno i beni culturali creati al livello inferiore e differenziati regione per regione. Inversamente, le creazioni culturali delle individuazioni regionali della Russia, una volta messe insieme, devono neutralizzare le caratteristiche locali e particolari e dare risalto a quelle comuni, definendo in tal modo lo spirito del lavoro culturale del livello superiore. La funzione, la forma e le dimensioni delle barriere regionali devono essere determinate dalla necessità di assicurare una costante interazione tra l’alto e il basso dell’edificio culturale: queste barriere devono garantire una corretta individuazione regionale della cultura, ma non devono in alcun caso ostacolare l’interazione tra l’alto e il basso. Evidentemente è impossibile regolamentare tutto ciò in maniera precisa. Le barriere regionali possono essere importanti per una data questione, meno importanti per un’altra. L’importante è solo capire correttamente il senso di queste barriere e non farne dei fini in sé.

Perché la cultura russa sia un sistema unico, malgrado la differenziazione regionale ed etnica della sua parte inferiore, deve essere soddisfatta una condizione: un solo e medesimo principio organizzatore deve sostenere sia la parte più alta dell’edificio culturale russo sia le varianti regionali del livello inferiore. Questo principio è la fede ortodossa. Essa appartiene in proprio ad ogni individuazione etnica del popolo russo, è profondamente radicata nell’anima del popolo ed allo stesso tempo è capace di diventare il fondamento dei valori culturali superiori destinati ai rappresentanti qualificati della più alta cultura russa. Una volta era questo principio a costituire il nerbo vitale di tutta la cultura russa ed è stato grazie ad esso che l’individuazione russa occidentale e l’individuazione moscovita della cultura russa sono state capaci di riunirsi. In seguito, quella cieca infatuazione per la cultura europea, secolarizzata, atea e anticristiana (15), che caratterizzò l’epoca post-petrina, ha corroso e distrutto nell’élite culturale della nazione questo antico pilastro della vita russa, che era un retaggio avito, senza sostituirlo con nient’altro. Nella misura in cui l’atteggiamento di questa élite culturale è penetrato nelle masse popolari col suo rifiuto dei principi ortodossi, esso vi ha prodotto una vera e propria devastazione culturale. Ma i migliori rappresentanti della gente semplice, così come quelli dell’intelligencija, risentivano dolorosamente di questo vuoto spirituale; è una delle ragioni per cui la ricerca religiosa, assumendo talvolta le forme più paradossali, è una caratteristica della vita del popolo russo e dell’intelligencija di tutta l’epoca postpetrina. Questa ricerca non poteva essere soddisfatta finché la cultura russa rimaneva al di fuori della religione e finché la Chiesa, messa dal governo in una posizione subordinata (16), si trovava al di fuori della cultura (o, in ogni caso, al di fuori della corrente principale della cultura panrussa). Così, coloro che erano impegnati in una ricerca religiosa procedevano in disordine, e solo alcuni di loro “scoprivano” accidentalmente l’Ortodossia nel corso di tale ricerca. Adesso, dopo il periodo del dominio comunista, il vuoto spirituale della cultura secolare (dunque antireligiosa) è apparso nella luce più cruda ed ha raggiunto il culmine; è quindi necessario che abbia luogo una reazione decisiva, con l’aiuto di Dio. La futura cultura russa deve diventare religiosa, in maniera totale. L’Ortodossia deve penetrare non solo la vita del popolo, ma anche tutte le parti dell’edificio della cultura russa, fino ai fastigi più alti. Solo a quel punto ogni Russo troverà nella cultura russa una perfetta serenità e il soddisfacimento delle sue più profonde esigenze spirituali; solo a quel punto la cultura russa costituirà dall’alto al basso un sistema unico, nonostante la sua diversificazione esterna in etnie e regioni.

 

 

V

 

Attualmente noi assistiamo a una notevole diversificazione regionale della cultura russa. In Ucraina, in particolare, domina l’aspirazione a un totale separatismo culturale. Ciò può essere spiegato, in ampia misura, con la politica sovietica, la quale dà prova d’indulgenza verso il separatismo culturale, al fine di meglio disarmare il separatismo politico. Bisogna anche tener conto del fatto che alla maggior parte degli intellettuali ucraini più qualificati è stato impedito di svolgere un ruolo decisivo nel lavoro culturale; bisogna poi tener conto dell’afflusso di elementi dell’intelligencija provenienti dalla Galizia, la coscienza nazionale dei quali è stata completamente pervertita da secoli di contatto col cattolicesimo e dall’asservimento ai Polacchi e, infine, dell’atmosfera di lotta nazionale (o più esattamente linguistica) separatista e provinciale che ha sempre caratterizzato il vecchio Impero austro-ungarico (17). Per quanto concerne la popolazione ucraina, certi gruppi simpatizzano meno con le forme concrete dell’ucrainizzazione che non con la sua propensione a separarsi da Mosca, la Mosca comunista. Il separatismo culturale si nutre anche dei sentimenti anticomunisti (“piccolo borghesi” secondo la terminologia sovietica) di cerrti ambienti ucraini. Questi sentimenti non hanno legami intrinseci e logici col separatismo culturale; al contrario: sotto il vecchio regime essi avevano costituito un sostegno per il centralismo. Inoltre, l’attività creativa al livello superiore della cultura, dove l’unità russa può e deve manifestarsi nella maniera più netta, è ostacolata e artificiosamente compressa dall’egemonia politica del comunismo, il quale proibisce a chiunque non sia comunista di creare dei beni culturali, ma è esso stesso incapace di creare dei valori superiori che possano rispondere ad esigenze spirituali anche poco sviluppate.

Ma la spiegazione principale di questa infatuazione per l’ucrainizzazione è naturalmente costituita dal fascino della novità e dal fatto che gli ucrainomani, a lungo oppressi e costretti a vivere in clandestinità, hanno adesso piena libertà d’azione. Comunque sia, in questo dominio si notano attualmente delle cose mostruose. L’ucrainizzazione sta diventando un fine di per sé e dà luogo a un dispendio inutile di forze vive della nazione. È chiaro che in avvenire la vita farà le sue correzioni, purificando il movimento ucraino di quell’elemento caricaturale che è stato apportato dai maniaci fanatici del separatismo culturale. Molte cose, che sono state e sono ancora create da questi nazionalisti zelanti, sono destinate alla morte e all’oblio. Ma l’opportunità di creare una cultura ucraina particolare, distinta dalla cultura grande russa, non può più essere negata. Una coscienza nazionale correttamente sviluppata mostrerà ai futuri creatori di questa cultura i suoi limiti naturali, nonché la sua vera essenza e il suo vero compito: diventare un’individuazione particolare – ucraina – della cultura panrussa. Solo in quel momento il lavoro culturale in Ucraina acquisirà un carattere che consentirà ai migliori elementi del popolo russo di parteciparvi con una totale conoscenza di causa.

Ciò avverrà quando alla base della vita nazionale in Ucraina (come nelle altre regioni della Russia-Eurasia) la compiacenza verso gli istinti egoistici e l’affermazione nuda e cruda della natura biologica dell’uomo saranno state soppresse e rimpiazzate dal primato della cultura, nonché dalla conoscenza di sé, sia sul piano personale sia su quello nazionale. L’eurasiatismo chiama tutti i Russi (non solo i Grandi Russi, ma anche i Bielorussi e gli Ucraini) a lottare per questi ideali.

 

 

 

  1. Nel 1654, in seguito a una rivolta contro il potere polacco, lo Zar estese la sua sovranità alla riva destra del Dnepr e alla zona di Kiev (N. d. T.).
  2. Utilizziamo il termini “piccolo russo” e “ucraino”, mentre sarebbe più corretto dire “russo occidentale”. Negli strati superiori (in senso culturale) della società della Russia occidentale, nel periodo in questione non si faceva differenza tra Piccoli Russi e Russi Bianchi.
  3. Nikon (1605-1681), patriarca della Chiesa ortodossa russa dal 1652 al 1658, fu l’autore di quelle riforme liturgiche che indussero una parte dei fedeli al Grande Scisma  (N. d. T.).
  4. Viene chiamata “slavone ecclesiastico” quella lingua che, utilizzata sia nei testi teologici sia in quelli secolari, ha le proprie origini nel dialetto bulgaro-macedone elaborato da Cirillo e Metodio per evangelizzare gli Slavi dell’Europa centrale (N. d. T.).
  5. L’arciprete Avvakum (1620-1682) fu un fiero avversario delle riforme del patriarca Nikon (N. d. T.).
  6. Associazioni di laici, fondate a partire dal XVI secolo nelle città lituane con popolazione rutena, lo scopo delle quali era l’apertura di scuole e tipografie che combattessero l’influenza occidentale in Ucraina (N. d. T.).
  7. Dal nome del fondatore Pietro Mohyla si chiamò Accademia Mohiliana la scuola superiore sorta a Kiev nel 1630 (N. d. T.).
  8. Furono chiamati Vecchi Credenti quei fedeli della Chiesa ortodossa russa che non accettarono le riforme del patriarca Nikon   (N. d. T.).
  9. Sulla tradizione russo-occidentale nell’architettura, nella pittura e nella scultura russa dopo Pietro il Grande, cfr. P. N. Savickij, Velikorossija i Ucraina v russkoj kul’ture [La Grande Russia e l’Ucraina nella cultura russa], “Rodnoe Slovo”, Varsavia, 1926, n. 8.
  10. Una tendenza bielorussa è sempre esistita, ma si è sempre sviluppata più debolmente.
  11. Si chiamò “marcia verso il popolo” (khoždenie v narod) un movimento populista di giovani intellettuali che nel 1873 e nel 1874 andarono nelle campagne per sollevare le masse contadine contro il potere politico (N. d. T.).
  12. N. I. Kostomarov  (1817-1885), storico, etnografo e letterato russo-ucraino, fu fautore dell’autonomia culturale e nazionale dell’Ucraina (N. d. T.).
  13. A. A. Potebnja (1835-1891), slavista russo-ucraino, si occupò di questioni linguistiche, letterarie ed etnografiche (N. d. T.).
  14. Per evitare ogni malinteso, dobbiamo precisare che non attribuiamo alcun giudizio di valore ai termini „superiore“ e „inferiore“. Se ci si chiede quale di questi due livelli abbia più “valore”, ci rifiutiamo di rispondere; non solo, ma riteniamo che tale questione sia mal posta. L’immagine dei livelli “superiore” e “inferiore” non rimanda a gradi diversi di perfezione o di valore culturale, ma solo a due funzioni differenti della cultura. I gradi di valore e di perfezione non dipendono da queste funzioni, ma dall’attività dei singoli creatori, sia che questi operino al livello “superiore” o a quello “inferiore”. La poesia di Kol’cov ha un valore estetico maggiore di quella di Benediktov, anche se Kol’cov si trovava al livello “inferiore” e Benediktov a quello “superiore”.
  15. Non è che nel Medioevo la cultura europea sia stata cristiana (o abbia voluto esserlo): a partire dal periodo chiamato “Rinascimento”, essa ha assunto una posizione ostile rispetto al cristianesimo. È stata questa forma di cultura, avversaria della Chiesa e in fin dei conti di ogni religione, ad essere assimilata, dopo Pietro il Grande, dalla Russia europeizzata (N. d. T.).
  16. Nel 1721 Pietro il Grande mise la Chiesa sotto la tutela del potere politico, sostituendo il patriarcato di Mosca con un Santo Sinodo controllato dallo Zar.
  17. Al termine del sec. XVIII, in seguito alla spartizione della Polonia, la Galizia era andata a far parte (con la Rutenia subcarpatica e la Bucovina) dell’Impero d’Austria (N. d. T.).

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LE SCUSANTI IRANIANE

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I retroscena

Il 14 agosto 2002 il gruppo di opposizione iraniano autodenominatosi Consiglio Nazionale di Resistenza Iraniano (CNRI) denunciò l’esistenza di un impianto nucleare segreto nella città di Natanz.

Nel febbraio 2003, mentre la coalizione USA si stava mobilitando per invadere l’Iraq alla ricerca di presunti armamenti chimici, l’Iran cercò di rassicurare la “comunità internazionale” ammettendo ufficialmente l’esistenza del sito di Natanz e permettendo all’AIEA di fare delle rilevazioni per verificare l’eventuale presenza di uranio sul posto. Come prima cosa gli ispettori notarono che le centrifughe di Natanz non erano configurate in maniera tale da poter arricchire uranio per scopi militari. Infatti, la disposizione delle centrifughe in serie è importante per capire il livello di arricchimento che possono portare; ad esempio, un reattore viene solitamente alimentato con uranio arricchito al 5%, mentre una testata nucleare è costruita utilizzando uranio arricchito attorno al 95%. Il modo in cui sono disposte le centrifughe, in unità e in cascate, può fornire molte informazioni sul livello di arricchimento che possono raggiungere.

Dopo il sopraluogo, ma prima dei risultati delle rilevazioni, nel giugno 2003, la AIEA dichiarò che l’Iran non aveva rispettato gli accordi assunti con la firma del TNP. Le inadempienze iraniane, però, a differenza di quel che si pensa, non riguardavano il mancato annuncio dell’impianto di Natanz, bensì l’acquisizione di circa 2 tonnellate di uranio naturale importato dalla Cina nel 1991.  Anche se gli ispettori dell’AIEA rimasero sbigottiti nel ritrovarsi davanti un impianto per l’arricchimento di uranio in grado di contenere decine di migliaia di centrifughe, la costruzione del sito era del tutto legale. Secondo l’accordo firmato nel 1974, l’Iran avrebbe dovuto dichiarare l’esistenza di una qualsiasi struttura collegata con il suo programma almeno 180 giorni prima l’introduzione di materiale nucleare al suo interno. Anche se terminato, il sito di Natanz non era ancora in funzione. Consapevole di ciò, l’Agenzia si limitò a denunciare una violazione degli accordi avvenuta nel 1991 e spontaneamente ammessa dall’Iran dopo le rivelazioni del 2002.

Oltre ad essere alquanto datata, la trasgressione non risultava neppure così scandalosa; le due tonnellate di uranio naturale importate equivalevano a 0,13Kg di uranio potenzialmente arricchibile. Infatti, circa il 99% di uranio naturale non può essere arricchito. Solo una minima quantità del minerale (lo 0,7%), costituita dall’isotopo U-235, può essere sottoposta a fissione nucleare. Come dichiarato dall’Agenzia, una simile quantità può essere utilizzata solo nel campo della ricerca e non può portare quindi alcun beneficio nella costruzione fisica di un ordigno nucleare. Con ogni probabilità l’Iran adoperò questa quantità di uranio per proseguire le sue ricerche sul programma di arricchimento a laser. Tuttavia, per costruire una testata nucleare “media” (25Kg di uranio arricchito al 96%) sono necessarie circa 12 tonnellate di uranio a basso arricchimento (inferiore al 20%); l’Iran, dall’inizio del suo programma ad oggi, ha arricchito più o meno 8.271Kg di uranio al 5% e 280Kg al 20%, una quantità insufficiente a costruire un singolo ordigno nucleare.

Quando i risultati delle rilevazioni effettivamente confermarono la presenza di particelle di uranio nell’impianto di Natanz, l’Iran si giustificò sostenendo che la contaminazione derivava da alcuni componenti di centrifughe importate dal Pakistan. Dopo anni d’indagini e verifiche, l’Agenzia concluse nell’agosto 2005, che la versione dei fatti raccontata dall’Iran era credibile. Successivamente a questo episodio, fino ad oggi, non ci sono state altre occasioni in cui l’AIEA ha potuto verificare il mancato rispetto degli accordi presi dall’Iran sotto il TNP.

 

 

La dimensione militare

Fra le congetture a sfavore dell’Iran, ne esiste una che, qualora risultasse veritiera, dimostrerebbe una reale connessione tra il programma nucleare e l’intenzione di sviluppare armamenti atomici. Sono i cosiddetti “alleged studies”, un vasto volume di documentazioni e progetti consegnati all’AIEA da fonti indipendenti ma non ufficialmente rese note dall’Agenzia nel rapporto pubblicato nel 2011. Secondo quanto dichiarato, grazie ad informazioni fornite da alcuni stati membri, indagini indipendenti dell’Agenzia e dichiarazioni fatte dalle stesse istituzioni iraniane, l’AIEA sarebbe stata in grado di mettere insieme un fascicolo che delineerebbe in dettaglio alcune attività non dichiarate dall’Iran fino al 2003.

Secondo l’AIEA, il Centro di Ricerca di Fisica iraniano avrebbe condotto fra il 2002 e il 2003 alcune attività segrete sotto il nome di AMAD Plan. Questo sarebbe una sorta di macroprogetto comprendente altri tre sottoprogetti: il Green Salt Project, il test di potenti esplosivi, e alcuni studi ingegneristici riguardanti la ricostruzione del carico utile del veicolo di rientro del missile Shahab-3 (Project 111). Il Green Salt Project faceva parte di un più ampio programma chiamato Project 5 avente lo scopo di procurare una fonte di uranio da utilizzare in un programma di arricchimento dislocato. Una volta arricchita, questa quantità di uranio sarebbe stata convertita in uranio metallico, un composto indispensabile per la costruzione di un ordigno atomico, da integrare non per caso in una testata nucleare del missile Sahahab-3, oggetto di studio del Project 111. In particolare, lo scopo del Project 111 era quello studiare il modo di adattare un nuovo carico utile, di forma sferica, all’interno dell’esistente camera del veicolo di rientro del Shahab-3. Ad ogni modo, già nel 2004, diversi anni prima la pubblicazione degli “alleged studies”, l’Iran aveva dichiarato all’Agenzia di aver convertito tra il 1995 e il 2002 una quantità di tetrafluoruro di uranio (un composto comunemente conosciuto come Green Salt) in 126,4Kg di uranio metallico al Centro di Ricerca di Teheran; un’operazione che rientrava nelle facoltà iraniane secondo gli accordi presi sotto il TNP.

Per quanto riguarda i test di esplosivi, tra il materiale raccolto dall’Agenzia sarebbe testimoniata anche la sperimentazione di un sistema di iniziazione multi punto, un apparecchio utile a rimodellare l’onda di detonazione in modo da assicurare un’implosione uniforme del nucleo del materiale fissile a densità supercritica. Il test dell’apparecchiatura sarebbe stato condotto nel 2003 facendo brillare una potente carica di esplosivo di forma semisferica delle stesse dimensioni del nuovo carico utile per il missile Shahab-3. Altre indiscrezioni pervenute all’Agenzia raccontano della costruzione di un enorme recipiente utile a contenere esperimenti idrodinamici con potentissimi esplosivi nel complesso militare di Parchin. Tuttavia, anche se non necessario, essendo Parchin un sito militare e non un complesso collegato al programma nucleare, l’Agenzia ebbe la possibilità d’ispezionarlo due volte nel 2005 senza trovare nulla di compromettente. Neppure le immagini satellitari dal 2005 ad oggi mostrano attività sospette nel complesso militare.

Gli “alleged studies” fanno esclusivamente riferimento ad un solo tipo di missile, il Shahab-3, in dotazione al Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica dal 2003. Il Shahab-3 è un missile balistico a medio raggio in grado di portare un carico utile di 1.000 Kg. Anche se recenti sviluppi hanno aumentato notevolmente la sua gittata, fino al 2008 il Shahab-3 poteva raggiungere una distanza massima di 800-1.000Km e avrebbe quindi potuto raggiungere Israele solo parzialmente. Considerando che la deterrenza contro Israele e i suoi alleati sarebbe l’unica ragione razionale che potrebbe spingere l’Iran a sviluppare armamenti nucleari, risulta difficile credere che l’Iran avrebbe potuto mettere a rischio la sua reputazione internazionale rischiando oltretutto di incappare in una guerra preventiva da parte dell’Occidente, solo per costruire un ordigno nucleare strategicamente inutile per il suo scopo. Montare una testata nucleare in un Shahab-3 non avrebbe intimorito Israele né tantomeno gli USA e sarebbe stato quindi del tutto controproducente.

Se l’Iran sia stato intenzionato oppure no a sviluppare armamenti nucleari in passato resta un mistero. Quel che è certo è che non ci sono finora prove o fatti concreti che dimostrino una dimensione militare del programma, oltre al fatto che l’AIEA ha notevolmente intensificato i controlli, rendendo improbabile lo sviluppo di un ordigno nucleare oggi.

 

*Giacomo Barolo è dottore in Scienze Internazionali e Diplomatiche all’Università di Bologna

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SIRIA: FINALE DI PARTITA

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«Time for reform». Così dichiara il Presidente siriano Bashar al-Assad al Wall Street Journal (1). E’ il 31 gennaio 2011. La “rivolta” in Libia contro il regime di Gheddafi scoppia qualche settimana dopo (il 17 febbraio). A marzo, la Giamahiria dà inizio ad una controffensiva che induce le potenze occidentali, forti della Risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ad intervenire direttamente nel conflitto. Ancora una volta, infischiandosene del diritto internazionale, gli Stati Uniti, insieme con il Qatar, la Gran Bretagna e la Francia, hanno appoggiato, se non organizzato, una insurrezione armata contro un regime considerato un ostacolo per quella ridefinizione in chiave filo-atlantista della carta geopolitica dell’area mediterranea che i media mainstream definiscono come “primavera araba”. (2) Passeranno però mesi prima che le potenze occidentali abbiano ragione della resistenza di Gheddafi. Una resistenza piegata solo dal lancio di un centinaio di missili da crociera e dall’aviazione della Nato, che effettuerà migliaia di missioni di combattimento. Ma all’inizio del 2011, ben pochi in Occidente pensano che la guerra contro la Giamahiria sarà così lunga e difficile. Tanto che gli occhi dell’Occidente sono già da tempo puntati su un “ostacolo” ben maggiore della Libia, la Siria di Bashar al-Assad appunto. Il motivo non è difficile comprenderlo. Negli ultimi anni, la Siria ha saputo creare un polo geopolitico regionale insieme con l’Iran ed Hezbollah. Una alleanza di cui doveva far parte pure la Turchia di Erdogan.

In effetti, dopo l’incidente della Mavi Marmara, sono parecchi gli analisti occidentali che ritengono che la tradizionale politica filoatlantista e filosionista di Ankara stia per volgere al tramonto. Ma è ovvio che né gli Stati Uniti né Israele possono rassegnarsi al ruolo di semplici spettatori. E il cosiddetto “neoottomanesimo” del governo turco viene sfruttato abilmente dai circoli filoatlantisti, che riescono a convincere Ankara a voltare le spalle a Damasco, facendo leva sul fatto che la Turchia può acquisire un’importanza fondamentale nel “gioco strategico” delle potenze occidentali. Del resto, gli avvenimenti che sconvolgono l’Africa Settentrionale, dalla Libia all’Egitto, sono una “ghiotta opportunità” per l’ambizioso Erdogan, convinto che il nuovo corso della politica mediterranea porterà pure ad un rapido crollo del regime di Assad e assicurerà alla Turchia tutti i benefici derivanti dall’essere l’ago della bilancia nel Medio e Vicino Oriente.

E’ evidente allora che, quando Assad dichiara di essere disposto ad “aprire” il proprio Paese, la macchina da guerra allestita dalle petromonarchie del Golfo, certamente con l’appoggio degli Stati Uniti, è pronta ad entrare in funzione anche in Siria. Di conseguenza, si può supporre che il Presidente Assad, consapevole di quello che stava bollendo in pentola, abbia voluto “giocare d’anticipo”. In Siria però il fuoco cova sotto la cenere da parecchi anni, fin dalla rivolta (a Hama, nel 1982) contro il regime del padre di Bashar (Hafez al-Assad) da parte dei Fratelli Musulmani. Questi ultimi sono una “galassia” complessa, ma indubbiamente sono nemici giurati del regime di Damasco e in passato si sono perfino opposti a Nasser. Sì che sembra che quel che i Fratelli Musulmani vogliono combattere sia, in realtà, ogni “autorità” che non goda del sostegno degli Stati Uniti o che non agisca negli interessi di Israele. Ma dietro i Fratelli Musulmani vi è soprattutto il Qatar, una “entità  politica” che sarebbe del tutto trascurabile in condizioni geopolitiche di “normale equilibrio”, e che invece è un attore geopolitico di primo piano nel quadro di un mutamento di strategia che vede gli Stati Uniti appoggiare apertamente delle forze islamiste, il cui compito è quello di difendere gli interessi statunitensi, senza che sia necessario un intervento diretto degli Stati Uniti. (3)

Non a caso, nel maggio del 2011, qualche mese dopo l’inizio dell’attacco alla Siria, gli statunitensi uccidono Osama Bin Laden (che pare conducesse una vita da pensionato in Pakistan), il cui cadavere viene gettato in mare, di modo che sia chiaro a tutti (sebbene non tutti lo comprendano) che, con la nuova amministrazione di Obama, i “nemici dell’Occidente” ormai non sono più i musulmani fondamentalisti, ma, oltre ai Russi e ai socialisti di tutte le “specie”, solo gli sciiti o comunque i musulmani (arabi o no) che non siano alle dipendenze della Casa Bianca. Washington ha preso atto sia dell’insostenibilità dell’enorme costo della guerra contro l’Afghanistan e di quella contro l’Iraq, entrambe rivelatesi fallimentari sotto il profilo politico-militare (lo scopo di queste azioni belliche essendo, fuor di dubbio, il controllo del “cuore” dell’Eurasia), sia del fatto che gli Stati Uniti possono impedire che si formi un nuovo equilibrio multipolare solo ricorrendo ad un “approccio indiretto”, tale cioè da destabilizzare/distruggere “dall’interno” ogni centro di potere dell’area mediterranea allargata (comprendente quindi pure la regione del Mar Nero e quella del Golfo Persico, nonché buona parte dell’Africa settentrionale ed orientale) che sia o si ritenga essere (potenzialmente) ostile nei confronti dell’Occidente. D’altra parte, il pericolo di essere un apprendista stregone lo deve pur correre Obama, e con lui i gruppi subdominanti europei, dacché è in gioco la supremazia stessa degli Stati Uniti, che non possono più sperare di evitare di confrontarsi con le (nuove) potenze dell’Eurasia su basi ben diverse da quelle su cui si reggeva la politica degli Stati Uniti da Bush senior a Bush junior.

Perciò non può nemmeno sorprendere che nel mese di marzo 2011, in concomitanza con la controffensiva di Gheddafi e l’entrata in guerra della Nato contro la Libia, le prime manifestazioni contro il governo di Damasco si rivelino essere in buona misura eterodirette e tutt’altro che pacifiche. A nulla però valgono le notizie che confermano che tra i manifestanti vi sono gruppi  armati che cercano di gettare benzina sul fuoco per arrivare ad uno scontro con il regime (4). E a niente serve che Assad, che ormai è certo informato delle infiltrazioni nel Paese di diversi gruppi armati, nonché dei legami tra questi gruppi e le frange più radicali dell’opposizione, sia ancora disposto a fare notevoli “aperture”, compresa la concessione della cittadinanza ai curdi.

Si tratta di passi importanti e non facili, se, a differenza di quanto fanno i media mainstream, si tiene conto che la Siria non solo si trova, di fatto, in guerra contro Israele dal 1948, ovvero fin dalla nascita dello Stato sionista, ma che dopo la guerra del Kippur nel 1973 e la pace tra l’Egitto e Israele essa sostiene il peso maggiore della lotta contro gli israeliani (una lotta che porterà il regime baathista di Assad a dare il maggior contributo alla causa palestinese). In queste condizioni, la Siria sa benissimo che “aprendosi” rischia di essere aggredita dal “nemico alle porte”. Eppure Bashar Assad, i cui servizi non sono all’oscuro della terribile minaccia che incombe sulla Siria, non esita ad annullare lo “stato d’emergenza” in vigore dal 1963 e a sciogliere il governo. Una qualsiasi altra opposizione non si lascerebbe sfuggire una tale occasione, ma le forze che sono scese in campo contro Assad hanno scopi del tutto differenti da quelli dei manifestanti pacifici.

Al riguardo, la sequenza degli eventi non lascia dubbi. Mentre si susseguono manifestazioni più o meno violente e compaiono “misteriosi” cecchini che sparano sulla folla, si moltiplica la pressione della “comunità internazionale” (ossia “Usa e soci”) su Damasco, affinché Assad getti la spugna. A maggio gli Stati Uniti annunciano sanzioni economiche contro la Siria, subito seguiti dalla Unione Europea (e questo mentre i “mercati occidentali” massacrano i ceti popolari e medio-bassi dell’Europa Meridionale – Italia compresa, con il consenso di quella che si potrebbe definire la “finanzsinistra” – , al punto da rendere problematico per un buon numero di cittadini di Eurolandia garantire le cure mediche o un pasto decente ai propri familiari). Ma è nel mese di giugno che dovrebbe essere chiaro a chiunque che cosa veramente accade in Siria, allorché il governo di Damasco comunica che a Jisr al-Shughour ben 120  membri delle forze dell’ordine sono stati uccisi da una banda armata. Nondimeno, a luglio Assad fa ancora un tentativo per risparmiare al proprio Paese gli orrori di una guerra civile, rimuovendo il governatore della provincia di Hama. E il Presidente siriano annuncia pure di essere pronto ad avviare un “dialogo nazionale” sulle riforme, esattamente come aveva già dichiarato il 31 gennaio al Wall Street Journal. Assad dunque ha intenzione di mantenere le proprie promesse. A questo punto però Obama getta la maschera, dichiarando che Assad deve abbandonare la carica di Capo dello Stato, mentre parallelamente i rappresentanti dei “ribelli”, riuniti a Istanbul, danno vita al cosiddetto “esercito siriano libero”. Nulla può più fermare la macchina da guerra che muove contro la Siria baathista.

In sostanza, in Siria si è ripetuto il noto copione che porta all’aggressione di un Paese ostile all’Occidente: prima si creano, agendo su quelle “fratture interne” presenti in ogni Stato, le condizioni per una insurrezione armata e si provocano incidenti e scontri attribuendo alle forze governative ogni sorta di crimini e misfatti, in particolare proprio quelli commessi dai “ribelli”; poi scatta la condanna della “comunità internazionale” con sanzioni e la richiesta di cambio di regime. Nel frattempo gli episodi di violenza si moltiplicano, si infiltrano nel Paese numerosi gruppi armati, nonché membri delle forze speciali occidentali, e nelle mani dei “ribelli” appaiono, di punto in bianco, armi potenti e sofisticate. Le tensioni sociali naturalmente non spiegano affatto quel che in realtà succede, ma vengono strumentalizzate dai media mainstream al fine di giustificare l’aggressione. (Peraltro, non è difficile immaginare quel che accadrebbe anche nel nostro Paese, se si desse vita ad una “operazione colorata” di questo genere, facendo leva, con larga disponibilità di mezzi e risorse, su organizzazioni criminali e/o gruppi estremisti”).

Tuttavia, gli strateghi (filo)occidentali anche questa volta hanno commesso un errore, non tenendo conto della storia politico-militare della Siria o interpretandola, come al solito, secondo schemi concettuali basati su pregiudizi “etnocentrici”. L’esercito siriano in tutte le guerre combattute contro Israele si è sempre distinto per tenacia e capacità di “resistere al fuoco nemico”. Quel che i siriani non potevano fare era colmare il divario tecnologico tra i sistemi d’arma degli israeliani (in particolare aerei, missili e radar) e quelli prodotti dall’Unione Sovietica in dotazione alle Forze Armate di Damasco. Eppure, nonostante i rovesci subiti dall’aviazione e dalla difesa aerea, nel giugno del 1982, l’esercito siriano riuscì a frustrare l’azione di un intero corpo d’armata israeliano comandato dal generale Ben-Gal. Quando si iniziò il “cessate il fuoco”, a mezzogiorno dell’11 giugno, infatti l’autostrada Beirut-Damasco, obiettivo principale di Ben Gal, era ancora saldamente controllata dalla prima divisone e da elementi della terza divisione corazzata siriane. E questo nonostante che l’attacco di Ben-Gal fosse cominciato dopo che pressoché tutte le batterie Sam siriane erano state distrutte o gravemente danneggiate. (5)

Il parziale scacco dell’esercito israeliano (solo parziale, in quanto in seguito gli israeliani, grazie al completo dominio dell’aria, riuscirono a controllare una sezione dell’autostrada Beirut-Damasco) non solo non venne ben valutato dalla maggior parte degli analisti israeliani, che nella seconda invasione del Libano andarono incontro ad una più severa sconfitta contro Hezbollah, ma nemmeno dalla maggior parte degli analisti statunitensi od occidentali, abituati a confondere la superiorità tecnologica e la maggiore potenza di fuoco con la capacità e il valore dei combattenti (nonostante le durissime lezioni della Guerra d’Indocina, d’Algeria, di Corea e del Vietnam). Ma, al di là della prestazione dell’esercito siriano contro l’esercito israeliano, quel che in questa sede rileva, come si sarà capito, è il fatto che era stato questo esercito, profondamente radicato nella società siriana, a reprimere la rivolta di Hama, scatenata dai Fratelli Musulmani, nel febbraio del 1982, proprio alcuni mesi prima degli scontri tra siriani ed israeliani nel Libano, ossia quando la tensione tra Siria e Israele era già altissima. Conta poco qui anche il giudizio che si può esprimere sulla durezza della repressione da parte di Hafez Assad, molto di più conta invece, per capire la forza del regime baathista, che è l’esercito (e, si badi, un esercito di leva) il pilastro cardine dello Stato baathista, anziché, come favoleggiano i gazzettieri occidentali, gli “sgherri” di Assad.

Inoltre, i politici e gli analisti occidentali hanno trascurato il ruolo della Cina e (specialmente) della Russia, decise questa volta a non ripetere l’errore compiuto nel non mettere il veto alla Risoluzione 1973 dell’Onu. E se l’appoggio della Russia si è rivelato essenziale per la Siria, decisiva si è rivelata anche l’alleanza, solida e sicura, della Siria con l’Iran ed Hezbollah. Nulla di strano pertanto che, sebbene in questi lunghissimi due anni di guerra più volte l’Occidente abbia dato per finito il regime di Assad, l’esercito siriano abbia sempre saputo reagire, replicando “colpo su colpo” ad una aggressione condotta da una miriade di bande armate e di gruppi terroristici che possono contare su un finanziamento pressoché illimitato e su un continuo flusso di armi, munizioni ed equipaggiamento, oltre che su un costante flusso di informazioni fornito dai più sofisticati apparati di intelligence occidentali. Inevitabile però anche che i delitti sempre più efferati e orribili dei gruppi islamisti più estremisti, soprattutto stranieri, abbiano spinto gli elementi più moderati dell’opposizione a prendere le distanze dalla “rivolta” e reso invece ancora più coesa e determinata a combattere i “ribelli” gran parte della società siriana.

Si sono venuti così a creare i presupposti per una grande controffensiva dell’esercito siriano, coadiuvato dalle milizie di Hezbollah, che ha portato in questi ultimi giorni alla liberazione di Al-Qusayr, un nodo strategico tra Damasco, le coste, Homs, Hama e Aleppo. E l’esercito siriano adesso è pronto a muovere all’assalto per liberare la più grande città della Siria, dopo Damasco, diventata in questi ultimi mesi la roccaforte dei “ribelli”. Tutto lascia pensare quindi che la guerra civile siriana sia giunta al punto di svolta. Se i soldati di Damasco dovessero vincere la battaglia di Aleppo infliggerebbero un colpo letale ai “ribelli”. E tuttavia Damasco non può non tener conto anche delle “forze occidentali” che temono il contraccolpo di una vittoria di Assad, in quanto una totale vittoria di Damasco avrebbe un significato politico eccezionale, anche perché inevitabilmente emergerebbero le malefatte, le menzogne e i crimini compiuti dagli islamisti con il sostegno e la complicità delle potenze occidentali e dei circoli filo-atlantisti (media mainstream compresi).

Di conseguenza, vi è da temere che gli Stati Uniti e i loro alleati accusino l’esercito siriano di aver usato armi chimiche (mentre vi sono numerosi indizi che siano stati i “ribelli” a farne uso), per giustificare un intervento della Nato o comunque una serie di azioni a sostegno dei “ribelli”, tali da poter rovesciare una situazione nettamente favorevole alle forze governative, o perlomeno tali da evitare una totale vittoria dell’esercito siriano che sta guadagnando rapidamente terreno. (6) D’altronde, è pur vero che la particolare e delicata situazione geopolitica della regione rende un intervento militare della Nato assai rischioso sotto ogni punto di vista. E si deve anche tenere presente che la fortissima reazione dell’esercito siriano, dopo che quest’inverno tutto pareva perduto per chi difendeva la causa della Siria baathista, ha colto di sorpresa anche molti analisti e politici europei che sulla Siria e su chi la difende, con le armi o con le parole, hanno detto e scritto una marea di sciocchezze vergognose, allo scopo di mostrarsi, per così dire, perfino “più realisti del re”.

Ovviamente il regime di Assad non è affatto privo di difetti, anche gravi, ma non è nemmeno lontanamente paragonabile al regime dell’Arabia Saudita o a quello del Qatar. (Ma in quale Paese non vi sono tensioni sociali e gravi contraddizioni? Va bene la questione dei “diritti umani”, ma almeno si considerino innanzitutto quelli fondamentali, come il diritto ad una alimentazione adeguata, alla salute, al lavoro e così via; ossia quei diritti sociali ed economici che la Siria cerca almeno di garantire, pur tra mille difficoltà, a differenza di quanto succede in molti Paesi occidentali – benché siano più ricchi della Siria – in cui dettano legge una decina di banche, società finanziarie e agenzie di rating angloamericane, cioè quei “mercati” che, dopo aver rapinato i risparmi delle famiglie e dei lavoratori, accumulati nel corso d’intere generazioni, si apprestano a “fagocitare” interi Stati per porre rimedio ai disastri causati da loro stessi). E se è facile rendersi conto di quello che può essere accaduto in quasi trenta mesi di guerra civile (resa ancor più terribile dalla presenza di mercenari e terroristi arrivati da ogni angolo della terra), è lecito e doveroso sostenere, pur sapendo che è impossibile che il “bene” sia tutto da una parte, che la principale responsabilità di quanto è accaduto (e accade) in Siria è, senza alcun dubbio, di quelle forze straniere e di quei siriani che non hanno esitato a ricorrere alla violenza e al terrorismo allo scopo di rovesciare il regime di Assad e distruggere la Siria baathista.

Una barbarie che ha già causato quasi 100.000 morti (ma la cifra potrebbe essere pure maggiore), oltre un milione di profughi e immensi dolori, sofferenze e rovine. Epperò, se Assad non si fosse opposto al disegno criminale dell’oligarchia occidentale e del grottesco petrodittatore del Qatar, sarebbe stata una catastrofe per tutto il Vicino e Medio Oriente (e non solo), indebolendo gravemente pure quel legame tra Hezbollah e Iran, che è ormai di vitale importanza per la causa del popolo palestinese (la cui classe dirigente, che presenta non pochi tratti simili a quelli della classe dirigente italiana, sembra essersi specializzata nella “svendita” della propria terra e dei sacrosanti diritti degli stessi palestinesi al miglior offerente). Perciò è logico che oggi, in Europa, coloro che ritengono che la politica di potenza degli statunitensi e dei loro alleati non sia destinata a durare in eterno, purché ci si impegni a contrastare ovunque e “senza se e senza ma” la “volontà di potenza” dei centri di potere atlantisti, non possono non augurarsi una completa vittoria delle forze fedeli al regime baathista di Bashar al-Assad, contro il terrorismo e le aberrazioni di quella caricatura dell’Islam che l’Imam Khomeyni definiva sprezzantemente, ma correttamente, “Islam made in Usa”.

 

 

 

 

 

1)Vedi http://online.wsj.com/article/SB10001424052748704832704576114340735033236.html.

2)Vedi http://www.juragentium.org/topics/wlgo/it/libia.htm.

3)Sul Qatar vedi, ad esempio, Alessandro Lattanzio, Qatar. L’assolutismo del XXI Secolo, Anteo Edizioni, Cavriago (Re), 2013.

4)Vedi Alessandro Lattanzio, Intrigo contro la Siria, “Eurasia”, 2/2012, pp. 125-155. Ancora più dettagliato il libro, dello stesso autore, Intrigo contro la Siria. La Siria baathista tra geopolitica, imperialismo e terrorismo, Anteo Edizioni, Cavriago (Re), 2012. Si veda anche http://aurorasito.wordpress.com/2011/11/20/i-deliri-della-sinistra-riguardo-la-libia-e-la-siria/.

5)Vedi Benny Morris, Vittime, Rizzoli, Milano, pp. 656-673.

6)Vedi http://aurorasito.wordpress.com/2013/06/10/il-confronto-russo-occidentale-siriasintensifica-mentre-i-ribelli-subiscono-un-sconfitta-decisiva/.

 

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SYRIA. QUELLO CHE I MEDIA NON DICONO

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INVITO ALLA CONFERENZA STAMPA

SYRIA. QUELLO CHE I MEDIA NON DICONO

Gli autori del libro inchiesta incontrano a Roma

i corrispondenti della stampa estera in Italia

 

Si comunica che martedì 18 giugno, alle ore 11,  presso l’Associazione della Stampa Estera in Italia, in via dell’Umiltà 83/C a Roma, gli autori del libro inchiesta “Syria. Quello che i media non dicono” illustreranno ai giornalisti stranieri e italiani i contenuti del reportage sulla Siria e sul ruolo dell’informazione nella crisi iniziata nel maggio del 2011.

Alla conferenza stampa parteciperanno i reporter Raimondo Schiavone, Talal Khrais e Alessandro Aramu.

Schiavone e Khrais sono tra i pochissimi giornalisti ad aver incontrato Bashar al Assad, SYRIA analizza in mxodo preciso gli antefatti e gli sviluppi di una vicenda che i mass media hanno raccontato spesso in modo parziale..

Nella prefazione, il giornalista libanese Talal Khrais spiega come la guerra in Siria rappresenti un espediente per demolire uno Stato dove cristiani musulmani convivono da centinaia di anni. Khrais, di ritorno dalla Siria, racconterà la sua straordinaria esperienza di corrispondente dalle zone più calde del conflitto, in particolare nella città Qusayr, ex roccaforte dei ribelli riconquistata dall’esercito di Assad nei giorni scorsi. Un racconto in presa diretta su ciò che è realmente accaduto in quella che è stata considerata dagli analisti politici la “Stalingrado siriana”.

Il volume è diviso in tre parti. Le prime due (scritte da Raimondo Schiavone e Antonio Picasso) sono dei veri e propri reportage che da Beirut portano a Damasco e ai villaggi cristiani poco distanti dalla Capitale. Schiavone è protagonista (insieme a Khrais) di un incontro eccezionale: una lunga chiacchierata con Assad, il presidente della Siria, che ai suoi occhi appare quasi timido. Un ritratto inedito di un uomo che molti considerano “il male assoluto”. Assad pronuncia parole importanti e spiega come la guerra in Siria abbia poco a che fare con la democrazia e sia un attacco orchestrato da Stati stranieri.

Straordinaria è anche l’intervista esclusiva ai detenuti stranieri (proveniente da Yemen, Afghanistan e Algeria) in un carcere siriano nel corso della quale viene spiegata la”strategia del terrore” organizzata per far cadere lo Stato Siriano. Per la prima volta i detenuti vengono

fotografati e ripresi con una telecamera. Il volume Syria propone un racconto eccezionale i cui contenuti, alla luce di quanto è emerso negli ultimi mesi, sono la prova della presenza predominante delle frange più radicali nelle file dei cosiddetti ribelli, a partire dalle cellule del terrore di al Qaeda.

I reportage di Schiavone e Picasso raccontano un paese dove la convivenza religiosa e la sopravvivenza degli stessi cristiani sono messe in pericolo dagli estremisti islamici. La deputata cristiana Maria Saadeh, il vescovo Siro –Ortodosso di Homs, il parroco di Jaramana e il tutore del santuario del Monastero di Santa Tecla testimoniano le paure di una comunità che il mondo per troppo tempo non ha voluto né vedere né ascoltare.

L’ultima parte, di Alessandro Aramu, è un’inchiesta sul ruolo dei media nel conflitto  siriano.  Le televisioni satellitari arabe, come era accaduto in Libia con la caduta di Gheddafi, non hanno garantito un’informazione imparziale. Il volume presenta le prove delle notizie manipolate e addirittura inventate.  Un lungo elenco di casi che hanno creato nell’opinione pubblica mondiale una rappresentazione errata di quanto stesse accadendo in Siria. Notizie costruite sul campo di battaglia senza alcuna verifica della fonte sono servite a orientare la politica degli Stati e le strategie militari. Il caso più eclatante è la strage di Hula: attribuita in un primo momento all’esercito di Assad, si scoprì, grazie a un reporter tedesco, che fu commessa dai ribelli. La verità fu pressoché taciuta, la falsa notizia ebbe risonanza mondiale. Dopo la strage , la Siria viene isolata nel campo delle telecomunicazioni e viene bloccata la trasmissione satellitare dei canali pubblici per ridurre al minimo la capacità del Governo di informare il suo popolo. Seguendo le orme del reportage in Siria, Aramu illustra come i media occidentali hanno raccontato la condizione dei cristiani nel paese, citando anche quei reportage che hanno offerto per la prima volta in Italia una “diversa prospettiva” sul conflitto.

I giornalisti Raimondo Schiavone, Talal Khrais, Alessandro Aramu e Antonio Picasso fanno parte di Assadakah, Centro Italo- Arabo e del Mediterraneo, un’organizzazione che in questi anni ha svolto numerose missioni estere, in particolare in Libano, Siria e Darfur. Sono autori del libro – reportage  “Lebanon”. Insieme ad altri reporter, italiani e stranieri, sono entrati nel cuore della Resistenza Libanese, raccontando “da dentro” il Partito di Dio, noto come Hezbollah, il partito sciita radicato nel tessuto sociale e nella realtà quotidiana del paese. Lebanon racconta il presente e il passato di uno Stato tornato pericolosamente sull’orlo del baratro di una guerra a causa della crisi siriana.

 

 

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I SENATORI USA VOGLIONO LA GUERRA CONTRO L’IRAN

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76 senatori statunitensi hanno inviato al presidente Barack Obama una lettera sollecitando un rafforzamento delle sanzioni contro l’Iran e chiedendo di considerare l’opzione di un’azione militare. La fuga di informazioni è avvenuta in corrispondenza dell’investitura del nuovo presidente iraniano Hassan Ruhani. 

“Noi crediamo che finché non ci sia un significativo rallentamento delle attività nucleari iraniane, il nostro paese sia tenuto ad inasprire le sanzioni, rinforzare la credibilità dell’opzione  di un intervento militare e parallelamente cercare una soluzione diplomatica alla nostra disputa con l’Iran”. Queste sono le parole contenute nella lettera diffusa questo sabato da alcuni media statunitensi.

La lettera è stata inviata pochi giorni fa al presidente Obama, il giorno precedente all’approvazione, da parte della Camera Bassa, di un nuovo pacchetto di sanzioni contro l’industria petrolifera e mineraria iraniana. Il Senato voterà queste sanzioni a settembre, dopo il ritorno dalle vacanze estive.

“In passato l’Iran ha utilizzato i negoziati per guadagnare tempo. Attualmente stanno continuando l’installazione di centrifughe avanzate. Ciò renderà presto il paese in grado di produrre armi nucleari. Bisogna capire al più presto se Tehran è disposta a negoziare sul serio. L’Iran deve capire che il tempo per la diplomazia sta terminando”, sottolinea il documento. Nella lettera, i senatori aggiungono che è altamente improbabile che l’arrivo di Ruhani al potere, nonostante la sua reputazione di politico moderato e fautore della collaborazione con l’Occidente, possa far avanzare i negoziati. “In ogni caso è Khamenei che decide ogni cosa”, sottolineano.

Chiunque sia il presidente dell’Iran, è molto difficile che sia in grado di migliorare le relazioni con gli USA, ha commentato a RT [“Russia Today”, ndt] l’analista politico Seyyed Mohammed Marandi. “Gli iraniani sono molto scettici sul fatto che gli USA vogliano realmente risolvere il problema”, ha commentato.

La cerimonia di investitura di Ruhani si terrà questa domenica. Saranno presenti invitati da più di 50 paesi, inclusi diversi alti funzionari dell’America Latina, tra i quali ci sarà il presidente dell’Assemblea Nazionale del Venezuela, Diosdado Cabello. In un’occasione precedente all’investitura, celebrata il sabato in cui la Āyatollāh Khamenei confermò a Ruhani l’incarico, il presidente eletto ha ripetuto che i suoi principali obiettivi sono: “riscattare l’economia dell’Iran e conseguire buoni rapporti con il mondo” ha inoltre sottolineato che farà tutto ciò che è in suo potere per porre fine alle sanzioni imposte al paese.        

 
 
 

 

(Traduzione di Marco Nocera)

http://actualidad.rt.com/actualidad/view/102008-senadores-eeuu-accion-militar-iran

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ES DIFICIL SER TURCO. ANÁLISIS DE UN LIBRO SOBERANISTA EURASIATISTA

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Miembro de la OTAN y candidato a la UE, Turquía tiene una corriente soberanista para la que marcha hacia Europa se percibe como una colonización que no se llama por su nombre. Tancrède Josseran presenta un clásico importante para conocer esta corriente turca. Es el libro de Suat Ilhan, Türk olmak zordur(Es difícil ser Turco), ed. Alfa, Istanbul.

 

Desde finales de los años 80, una corriente soberanista (ulusalci) ha emergido en Turquía. La originalidad de este movimiento radica en su aparente superación de la división derecha-izquierda. Es el resultado de una convergencia de varias tradiciones políticas diferentes. Así, una parte de la izquierda kemalista se aproximó, a través de los círculos militares, de la derecha radical. Los autores de esta síntesis combinan el rechazo al imperialismo occidental con la afirmación de una identidad nacional y estatal fuerte. Hostil al proceso de adhesión a la Unión Europea, apoya la constitución de un eje continental eurasista con Moscú, rechaza la globalización liberal, esta corriente también apeló a los grandes cánones del kemalismo tradicional: rechazo de alianzas militares desiguales, énfasis en la idea de una vía particular en el mundo turco.

Suat Ilhan es ahora uno de los representantes más conocidos de este movimiento soberanista. En este libro en forma de manifiesto, S. Ilhan esboza un panorama de la historia de los turcos y los principales retos a los que se enfrentan.

Suat Ilhan (1925-), ex oficial superior del ejército turco, de la Academia militar y de la Escuela de artillería (el ejército de élite en Turquía) es uno de los maestros del pensamiento geopolítico turco contemporáneo. Entre 1995 y 2006, dirigió dentro de la Academia de Seguridad nacional (Milli Güvenlik Akademisi), la rama de geoestrategia. Como parte del ejército escéptico en cuanto al proceso de adhesión, S. Ilhan dijo no sin justicia que las orientaciones iniciales de la política turca han sido desviadas, que la pertenencia a la OTAN, la candidatura a la Unión Europea son pérdidas de soberanía y la negación del kemalismo original. Aunque rechazando el islam político, S. Ilhan enlaza en nombre de la continuidad nacional las raíces pre-islámicas de los turcos, el imperio otomano y la República. Toda la Historia turca es entendida como la de una “cultura nacional”, cuyas tradiciones han perdurado a través de los tiempos para encontrar su cumplimiento último en el Estado kemalista. Para S. Ilhan, Turquía debe convertirse en un actor geopolítico de pleno derecho jugando su lugar central en la área cultural turquica y no ser más objeto de la manipulación de las potencias periféricas. La idea de un espacio geográfico de envergadura continental lleva a S. Ilhan a señalar el inevitable destino común entre la República de Turquía y sus epígonos de Asia Central.

 

El pueblo de la estepa

Al principio de la era cristiana, los antepasados de los turcos gradualmente descienden de los bosques siberianos y llegan a las estepas de Asia Central. Ellos expulsan o incorporan a las poblaciones indoeuropeas preexistentes. Esta fusión está en el origen de los caracteres específicos de la “raza” turca. Con el paso de la taiga a la estepa, los turcos pasan de la civilización de los cazadores-recolectores a la del caballo. Se mueven sin dificultad en las vastas extensiones del Altai y acosan continuamente a China. El centro de gravedad de este imperio está delimitado al norte por el lago Baikal, al sur por el desierto de Gobi. En medio corre un río, el Orkhon, auténtico islote de verdor perdido en la desolada inmensidad. En estos lugares se han encontrado inscripciones a finales del siglo XIX. Las mismas proclaman frente a los siglos la grandeza del pueblo turco y advierten sobre los peligros de la aculturación que acechan a la horda nómada. Textos fundacionales del nacionalismo turco moderno, son el hilo conductor del libro de Ilhan. Así, muchas olas de jinetes después de haber conquistado China encontraron subyugados por su conquista y finalmente absorbidos. En este sentido, el título del libro adquiere todo su significado. “Es difícil ser turco,” es una advertencia [1]. Lo que amenaza al pueblo turco no es tanto la esclavitud, la derrota militar, sino el olvidar sus raíces, la pérdida de su más larga memoria.

Jinetes reputados, los turcos inventaron la silla de montar y son formidables arqueros. La distancia y la lejanía en el espacio de Asia Central evitan la creación de una fuerte entidad estatal. La primera condición para la supervivencia de un grupo organizado reside en el uso del caballo. En la historia turca la domesticación del caballo es capital [2]. Es la segunda cualidad más importante después de la función Guerrera. Suat Ilhan, resume:  “Nuestra cultura, desde los primeros milenios, proviene de la geografía de Asia Central y tomó la forma de una cultura de jinetes de la estepa” [3]. Esta característica hace que conservando una cultura única, los turcos fueran capaces de tomar préstamos de otras culturas. “Al final de las guerras nosotros impedimos la fusión de otras culturas en la nuestra, pero tomamos de otras culturas lo que nosotros estimamos más acorde con nuestras tradiciones” [4]. Hasta cierto punto, S. Ilhan piensa encontrar en la historia pre-islámica de los Turcos todo lo que va a traer más de 2 mil años más tarde la revolución kemalista:  la noción de igualdad entre los sexos, la idea de una sociedad orgánica rechazando el antagonismo de clases, las cualidades Guerreras inherentes a la “raza” turca. S. Ilhan remarca “debido a las amenazas que han influido en la historia turca, el soldado es un elemento esencial, sus cualidades son esenciales” [5].También hay algunas líneas geopolíticas. La particularidad de un estado enclavado en Asia Central que ha de hacer frente a los ataques procedentes de todos los lados. En las tablas del Orkhon, se puede leer: “la nación turca está amenazada por los cuatro puntos cardinales por sus enemigos.” De “tales características son también igualmente encontradas en la Turquía moderna” según S. Ilhan. [6].

Suat Ilhan es miembro activo de la Alta Fundación Atatürk para cultura, la lengua y la historia (Atatürk Kültür, Dil ve Tarih Yüksek Kurumu – AKDTYK) que centraliza la vida cultural desde 1982. Ella es el origen de la síntesis turco-islámica, verdadera ideología de Estado introducida por el ejército tras la intervención militar de septiembre de 1980. Según la Fundación, el Estado tiene el deber de salvaguardar su identidad nacional, los dos pilares son la cultura de las estepas y los valores del Islam. En un contexto de fuertes tensiones internacionales y sociales, donde el terrorismo de derecha e izquierda se responden mutuamente, el ejército ve el Islam la fuerza capaz de estabilizar la sociedad y unificar la nación alrededor de un campo común [7]. La síntesis turco-islámica opera una fusión entre el pasado pre-islámico de los turcos y la fe de Mahoma. El Islam ha trascendido la cultura turca, que sin él habría degenerado; pero la turquidad ha salvado y propagado el Islam alrededor del mundo. Sin los turcos, el Islam habría sucumbido bajo los golpes de los cruzados en el siglo XI [8]. Es aquí que se refleja en los escritos de Ilhan, la idea del destino manifiesto. En cualquier tiempo los turcos estaban predestinados al Islam. La transición al monoteísmo habría hecho posible una forma de henoteísmo, la creencia en un Dios superior a todos los demás: “la historia de nuestra creencia de que es una predilección especial. Antes de la llegada de la creencia en un Dios único de las religiones universales, el chamanismo y su sistema de creencia psíquica dio la dirección, las costumbres turcas estaban destinadas a llevar a una creencia única. En las creencias turcas pre-existió la idea de un Dios unico o de una sola persona divina “[9]. En otras palabras, hubo un enfoque nacional de la religión entre los turcos que ha persistido en el Islam, a pesar de su esencia decididamente universalista. S. Ilhan continuó su razonamiento a una conclusión lógica: “cuando se decidió la transición a la religión universal, el Islam, la última revelación, la adopción fue hecha en menos de cien años…”. Los turcos han recibido el cargo para representar y extender el Islam, de asegurar la defensa. “Desde hace nueve siglos, han prestado servicio al Islam» [10].

 

La revolución kemalista

Así como la República francesa nunca ha ocultado su afiliación con la tradición estatista y centralista de la monarquía, la República turca asume con el imperio otomano alguna continuidad. La revolución kemalista se inscribe para S. Ilhan en un esfuerzo por contemporanización (cagdas) del saber y el conocimiento. La situa en la trayectoria de las revoluciones francesas, inglesa y norteamericana que abrazan el Occidente del siglo XVII al siglo XVIII [11]. Con la cultura occidental, escribe S. Ilhan, el objetivo es lograr etapa tras etrapa, apropiarse de los logros de la modernidad, adoptar los cambios contemporáneos en mezcla con la cultura turca» [12]. Turquía es un país a caballo entre dos mundos. Por lo tanto es normal que los turcos, un pueblo nómada se apoderaren de lo que puede parecer útil para ellos en la cultura occidental. Sin embargo, es una cultura laica. La incorporación de elementos de la civilización occidental no contradice la esencia nacional del proyecto kemalista. Según lo observado por S. Ilhan,  ” dos culturas religiosas no se producen y la cultura turca no es desnaturalizada” [13]. El gran error cometido en Europa es considerar Mustafa Kemal como un occidentaliste o un europeista prematuro. Toda su obra política atestigua lo contrario. Es en la lucha contra el imperialismo occidental con ocasión de la guerra de independencia en 1920 que sentó las bases del estado republicano. En ningún momento de su existencia Kemal ha utilizado el término occidentalización, pero siempre ha insistido en la contemporanisation. “Sin la guerra de la independencia, señala S. Ilhan, no hubiera podido ser un estado independiente y la modernización de la sociedad” [14].  En esta retórica antioccidental, S. Ilhan va aún más lejos y no dude en hacer la guerra de la independencia, la primera victoria del mundo musulmán en el siglo XX:   “el resultado victorioso de la guerra de liberación nacional, también ha beneficiado a los países musulmanes con el Islam…” Es el momento crucial de la lucha entre Occidente y Oriente, Islam y cristianismo “[15].

 

¿Un Islam galicano?

Por lo tanto, ¿cómo S. Ilhan logra integrar el mayor logro de la revolución kemalista, es decir, el laicismo? El autor reconoce que esta es una pregunta difícil. Durante siglos, la cultura turca está formada en contacto con el Islam. “Las bases del pensamiento se basan en el Islam; creencias, historia, costumbres, moral, derecho, folclore, moralidad, ciencia… El Islam es el elemento principal que colora la cultura “[16]. Por lo tanto, para S. Ilhan, era impensable que el nuevo estado se cierre del día a la mañana a la herencia islámica. Si se cortara se debe permitir liberar la política de la religión mediante la colocación de la mezquita bajo el estricto control de la República. En realidad, en cambio asiste a la creación de un laicismo concordatorio por no decir un “Islam galicano”… El Islam ya “no es la ideología oficial de la República, es el sistema de creencia de la mayoría de los ciudadanos turcos” [17]. El Ministerio de asuntos religiosos, el Dinayet, es la piedra angular de este sistema que permite tanto afirmar la separación de lo espiritual y lo temporal, mientras se mantiene la presencia de un Islam científico y nacional en el corazón de la sociedad. Las cofradías religiosas no tienen que intervenir en la gestión del culto bajo pena de causar anarquía. El artículo 1 del Dinayet, estipula como el Ministerio de asuntos religiosos tiene por objeto el buen funcionamiento de los servicios relacionados con la creencia islámica. “Se maneja la religión y culto de una manera informada” [18]. El Dinayet toma en cuenta la historia turca y las exigencias de la laicidad. Con razón Suat Ilhan recuerda que esta práctica de separación de lo temporal y lo espiritual no es una novedad entre los turcos y existió allí desde los otomanos un derecho laico independiente de la Sharia. Además, cuando los turcos procedentes de Asia Central hacen su entrada en Bagdad en 1058, su líder, Tughril Beg fue galardonado por el califa abbasí, con el título de Sultán. El Califa, comendador de los creyentes, se despoja de sus prerrogativas políticas y las confia al sultán y se concentra en sus enseñanzas espirituales [19]. Ataturk hizo lo mismo cuando cortó el vínculo de soberanía  que ata el Estado al califato, antes de eliminar permanentemente el título de Califa en 1924.

 

Un Estado pivote

La conciencia de pertenecer a un área geográfica de talla continental conduce a S. Ilhan a la cuestión del panturanismo. Turquía está en la confluencia de tres continentes (Asia, Europa y África). Controla las rutas Norte-sur y Este-oeste [20]. El mundo turco, en su apogeo, va de los confines del río Indo a el borde del Nilo, desde el Adriático a la gran muralla China. El Taj Mahal en India, el puente de Mostar en el Neretva, la mezquita de Tolun en el Cairo son «restos» de esta grandeza pasada [21].

 

En la época moderna, el control de la cuenca occidental del mar Egeo y del Golfo Pérsico fue la clave de la posición de la Sublime Puerta como un poder independiente y global. El Imperio otomano, en su lucha contra el mundo occidental funcionó de la manera de una “cortina protectora para el mundo musulmán”. Impidió la marcha de las “potencias imperialistas” hacia África, y Asia. Con el final del Imperio otomano, es el conjunto del mundo musulmán que encontró él mismo “rodeado” [22]. Hoy, según S. Ilhan, encontramos en la República kemalista, las mismas constantes como en la época otomana: “la geografía de Turquía también explica mejor los peligros que la amenazan que los activos que posee” [23]. Debido a estas ventajas y su ubicación estratégica, Turquía y el mundo Turco siguen siendo un espacio codiciado. También, para S. Ilhan, los desafíos que enfrenta Ankara son cuatro:

  •  “El choque de civilizaciones”: trae la idea de un choque de civilizaciones a la de la guerra religiosa, porque “la religión es el núcleo esencial de toda cultura. Debido a su dinamismo, el poder de su ejército, de su peso en el mundo musulmán, Turquía es “un objetivo” [24].
  • “El mundialismo”: S. Ilhan señala como otro gran peligro la globalización a marchas forzadas. El mundialismo está trabajando para borrar los Estados-nación porque los considera como “una forma anticuada”. El proyecto globalista está en contradicción fundamental con la obra de Mustafa Kemal. “Atatürk fundó un Estado-nación; la República de Turquía es un estado soberano, independiente, fue construido de esta manera. Sin embargo, el mundialismo occidental apunta por objetivo a Atatürk y el Estado-nación. El globalismo se inscribe en un entorno neo-imperialista con el Banco Mundial, el FMI y la OMC “[25].
  • ‘La Unión europea’: opuesto a cualquier abandono de soberanía, S. Ilhan es por lo tanto lógicamente hostil al proceso de adhesión. Tal proceso sólo puede llevar a transformar Turquía “en un estado vasallo”. La marcha hacia Europa se percibe como una colonización que no dice su nombre. Las medidas de armonización son asimiladas a un régimen de capitulaciones. Como en la época de la caída del Imperio otomano, Turquía se ve obligada a bajar sus barreras aduaneras, acordar darle aún más amplios derechos a sus minorías. Peor aún, la entrada en Europa de Bruselas suena la sentencia de muerte de la identidad turca. Para S. Ilhan: “Hemos estado luchando 500 años con Europa, y queremos integrarnos en tal sociedad. La revolución turca es original… Tenemos en la memoria el ejemplo de los turcos Tabgac, que ellos mismos se diluyeron en China “[26].
  • «El petróleo»: Turquía no tiene recursos petróleros, pero debido a su situación geográfica es colector energetico [27]. Su ubicación entre la zona de producción y zonas de consumo atiza las tensiones. Los Estados Unidos, en su afán de controlar los recursos de hidrocarburos del mundo, quiere evitar que Irán o Rusia puedan controlar las rutas de aprovisionamiento energético de Asia Central (10% de los recursos mundiales de petróleo y gas). La ruta del gasoducto permitiendo la apertura del petróleo de Bakú vía Turquía demuestra el deseo de evitar el espacio aéreo ruso. El Bakú – Tiflis – Ceyhan (BTC) exporta a través de Georgia hasta el Mediterráneo la producción de gas y de hidrocarburos de Azerbaiyán. Además, el proyecto Nabucco planea extender estas bombas energéticas a través del mar Caspio enlazando con Turkmenistán.

 

El dilema del mundo turco es que está incrustado entre la potencia emergente China, Rusia potencia renaciente y sujeta a los apetitos estadounidenses.. A partir del final de la Guerra fría (1990), los Estados Unidos son la única potencia hegemónica. Por lo tanto, su política tiene como objetivo “evitar la aparición de otra potencia mundial capaz de competir. Lo que puede suceder en Eurasia. El mundo Turco debido a su posicionamiento entre Rusia, China, India, se convierte en un problema “[28]. Este proyecto geopolítico de gran amplitud viene acompañado igualmente de un componente ideológico. Las revoluciones de colores que han afectado a las repúblicas de Asia central son la parte sumergida: “Ellos traen la fragmentación extendiendo la democracia, así Occidente entra y puede tomar más fácilmente el control de la política, la cultura, la economía “[29].

 

Favorable a una reorientación eurasiatista

S. Ilhan estima que Ankara debe reorientar su política en un sentido eurasiatista. Defiende una opción continental radical. Demasiado tiempo, Turquía sufrió las repercusiones de las manipulaciones periféricas de los Estados Unidos. Este oleaje incesante le ha impido afirmar su propia especificidad y separado de su entorno geopolítico natural. S. Ilhan estima que Turquía no tiene que casarse con los diseños de Estados Unidos en su política de neo-contención contra Rusia y China. Por el contrario, Turquía, Estado pivote, debe desarrollar una política exterior independiente. S. Ilhan es favorece a un acercamiento pragmático con Moscú. Actuaría como un contrapeso a Washington y al mismo tiempo limitaría la influencia de Pekín en la región [30]. S. Ilhan se refiere a el Eurasiatismo. Esta corriente intelectual antigua apela a la unión de la estepa y el bosque, de los turcos y los eslavos. En el siglo XX, el historiador soviético Lev Gumilev había sintetizado estos datos en una obra fundamental, Etnogénesis y Biosfera. Una nueva política establecida en la encrucijada de dos civilizaciones continentales reconstituiria el imperio de Genghis Khan. En el cruce de las rutas energéticas, Turquía sería capaz de desempeñar un papel decisivo en el escenario mundial y ya no sería rehén del capricho de la talasocracia anglosajona. La corriente eurasiatista turca (Avrasyacilik) se divide en dos ramas. La primera en la órbita de Alexander Duguin defiende una fuerte alianza con Moscú (Dogu Perinçek). La segunda considera que sin excluir un acercamiento con Rusia o China, el centro de gravedad de la futura Eurasia sigue siendo el Turquestán (Umit Ozdag, Suat Ilhan).

 

Los círculos militares son muy receptivos a estas tesis. El ex Secretario General del Consejo Nacional de seguridad, general Tuncer Kilinç, ha defendido públicamente la idea de una salida de la OTAN y el abandono del proceso de adhesión a la Unión Europea para un acercamiento con Irán y Rusia [31].

Con el fin de la Unión Soviética, Turquía trató de reafirmar su papel como líder del mundo turquico del Egeo a China. Sin embargo, concede S. Ilhan, estas aspiraciones no se concretaron. En la década de 1990 se han perdido muchas oportunidades. Pero la esencia no está ahí. El Turan es más que un proyecto, es un sueño. Es el punto de referencia de un inconsciente colectivo en búsqueda de grandeza. Las palabras trazadas sobre las estelas del Orkhon quizás continúan susurrando al viento en la inmensidad de la estepa: ‘ Príncipes turcos, nación turca, oíd esto! Cómo la nación turca fue montada, cómo el imperio fue dirigido, yo lo he registrado aquí. Grabé en la piedra eterna todas estas palabras. Leed y aprended. Nación turca de hoy, príncipes turcos, vais a cometer de nuevo los errores… “[32].

 

 

NOTAS:

Tancrède Josseran es especialista en Turquía, autor de “El nuevo poder turco… adiós a Moustafa Kemal», París, ed. elipses, 2010. Dirige el Observatorio del mundo turco y de las relaciones euro-turcas para la Lettre Sentinel Analyses et Solutions.

[1] Suat Ilhan, Türk olmak zordur, (Es difícil ser Turco), Alfa, Istanbul, 2009.

[2] Ibid.p.610.

[3] Ibid.p.13-14.

[4] Idem.


[5] Ibid.p.610.


[6] Idem.


[7] Etienne Copeaux, Espace et temps de la nation turque, CNRS Editions, Paris 2000.

[8] Op.cit. (1).p.556.


[9] Ibid.p.16.


[10] Idem.


[11] Ibid.p.674-688.


[12] Ibid.p.673.


[13] Ibid.p.714.


[14] Ibid.p.693.


[15] Ibid.p.708.

[16] Ibid.p.726.


[17] Ibid.p.728.


[18] Ibid.p.727.


[19] Ibid.p.729.


[20] Ibid.p.605.


[21] Ibid.p.632.


[22] Ibid.p.556.


[23] Ibid.p.602.


[24] Ibid.p.18-19.


[25] Ibid.p.19-20.


[26] Ibid.p.20.


[27] Idem.


[28] Ibid.p.638.


[29] Ibid.p.640.


30] Ibid.p.641.

[31] Hürriyet, 8 de marzo de 2002, “ AB disinda, rusya ve Iran’la yeni arayasi girilmeli “, (fuera de la UE, debe emprender un nuevo enfoque con la Rusia y el Irán).

[32] Op.cit.. (7) p.168.

Fuente: http://www.voxnr.com/cc/d_douguine/EFZVAVlkZVZXBrleuO.shtml

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GERMANIA E RUSSIA NELLA GUERRA FREDDA

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L’anteguerra

A riavvicinare Germania e Unione Sovietica, dopo l’allontanamento successivo all’ingresso della Germania nella Società delle Nazioni (SdN), fu soprattutto la questione polacca. Polonia e Germania, quest’ultima mai accontentatasi del riposizionamento geografico voluto a Versailles e – in particolare – della creazione ex tunc della città libera di Danzica, firmarono un patto di non aggressione nel 1934, garantendosi la reciproca neutralità nei 10 anni a venire. La Polonia, naturalmente, era conscia delle mire del terzo Reich e per questo tentò sempre l’avvicinamento a Francia e Inghilterra, in cerca di una strozzatura geopolitica nei confronti dei tedeschi. Peraltro, l’ostilità dei polacchi nei confronti del vicino sovietico, fece sì che nessun accordo militare venisse stretto con i sovietici e che, anzi, la Polonia si allontanasse allo stesso modo sia dal vicino orientale che da quello occidentale, rifiutando una modifica allo status quo e dunque ponendo le basi per l’imminente guerra, che poi diverrà mondiale. Tale posizione, dovuta sì ad alcune particolarità storiche e culturali ma, soprattutto, dall’influenza degli alleati anglosassoni e, in particolare, quella statunitense. Le potenze talassocratiche, infatti, non avevano che da trarre vantaggio da un’eventuale guerra che, chiaramente, non fosse mondiale nelle intenzioni iniziali, ma spingesse le frizioni fino ad uno scontro tra Germania e Unione Sovietica. L’intento primario era infatti quello di spingere le due potenze continentali ad affrontarsi. Per Stalin, tuttavia, questa rimaneva un’ipotesi da scacciare, o quanto meno ritardare il più possibile[1]. Furono queste le condizioni geopolitiche che portarono al patto Molotov-Ribbentrop. Una mutua assicurazione dunque, utile a Stalin per prendere tempo e alla Germania per assicurarsi da eventuali colpi di mano. Tale patto, seppur evidentemente siglato solo in funzione tattica, mise in allarme l’Inghilterra, la quale intervenne, interferendo in entrambi i trattati (polacco-tedesco e tedesco-sovietico), attraverso l’Accordo di reciproco aiuto, siglato con la Polonia – in palese infrazione di quello siglato fra Polonia e Germania, ma anche del Patto Molotov-Ribbentrop. L’intento dell’Inghilterra era quella di costruire una frattura geografica fra le due potenze eurasiatiche, in modo da impedirne l’avvicinamento e in particolar modo di impedire eventuali intese fra i polacchi e il terzo reich. Lo stesso Stalin, difatti, almeno inizialmente, attribuì le colpe della guerra completamente ad Inghilterra e Francia, e non alla Germania[2].
Oltre al noto patto, tuttavia, Germania e Unione Sovietica si legarono anche dal punto di vista commerciale, attraverso un accordo firmato l’11 febbraio 1940. Si arrivò tuttavia alla guerra, una guerra fratricida sulle terre eurasiatiche, che contrappose frontalmente le due potenze continentali. A seguito della guerra, che costò ai sovietici oltre 22 milioni di morti, la frattura fra i due paesi pareva insanabile. L’Armata Rossa marciò fino a Berlino, con spirito vendicativo. I tedeschi venivano visti come un invasore, da schiacciare senza pietà.

 

Il Dopoguerra

Gli animi si placarono,  lasciando spazio al pragmatismo e al calcolo geopolitico. Nel 1945, a Jalta, avvenne la definitiva spartizione della Germania, contrapponendo di fatto da una parte gli alleati (Stati Uniti, Francia e Inghilterra) e dall’altra i sovietici. Il 1948 fu l’anno del piano Marshall, un piano economico presentato come l’inevitabile aiuto dall’oltreoceano per il risanamento delle economie europee, in realtà un mezzo economico indispensabile per il rafforzamento dell’economia statunitense ma, soprattutto, un importante collante per la formazione dell’alleanza occidentale, legata prima economicamente e poi militarmente (e politicamente) attraverso la struttura della NATO.
La divisione della Germania fu ultimata nel 1952, quando la frontiera fu definitivamente chiusa. Da quel momento l’avvicinamento della Germania dell’Ovest al sistema d’alleanze occidentale proseguì spedita. Eppure dei tentativi in funzione di una Germania unita furono mossi. Nel 1952 fu infatti Stalin stesso a proporre l’idea di una Germania unificata, a prezzo però di una sovranità limitata in politica estera: una neutralità imposta e irreversibile. Nei piani di Stalin questo avrebbe permesso la formazione di un cuscino neutrale nel cuore dell’Europa, il che avrebbe per altro sottratto la Germania dalle maglie dell’alleanza atlantica, che ne avrebbe fatto un bastione antisovietico nel cuore dell’Europa, a ridosso dell’oriente, cosa che infatti puntualmente si verificò. Il piano di Stalin fu rigettato, gli alleati occidentali dimostrarono ben presto di avere scarso interesse per una Germania unificata, non al prezzo di una neutralità che avrebbe sottratto un’importante pedina, difensiva, ma all’occorrenza anche offensiva, direttamente puntata ad Oriente, e situata nel cuore dell’Europa continentale. Per la Germania, vittima della frattura insanabile fra Est e Ovest, non poté che profilarsi la sola soluzione della divisione politica e geografica. Due Stati, dunque, per un’unica nazione. Nel 1961 tale divisione fu rimarcata attraverso la costruzione del muro, simbolo della contrapposizione frontale fra i due schieramenti.
Il primo cancelliere della Repubblica Federale Tedesca fu Konrad Adenauer, un fervente anticomunista, che tuttavia fu invitato già nel 1955 a Mosca, a seguito degli accordi di Parigi, che riconoscevano la sovranità della RFT e ufficializzavano il riconoscimento da parte Sovietica della Repubblica Federale. Adenauer fu un grande sostenitore dell’alleanza atlantica e tra gli animatori più vivaci (assieme all’omologo italiano, Alcide de Gasperi) della costituzione della Comunità Europea, tale di nome, ma meramente occidentale di fatto. Nel 1950 era infatti già stata pronunciata la cosiddetta “dichiarazione Schuman”, che prese nome dall’allora ministro degli esteri francese, Robert Schuman, e che proponeva di mettere da parte l’astio che correva fra i due vicini, ponendo le basi per una collaborazione che fosse prima economica, tramite la comune gestione delle risorse del carbone e dell’acciaio, e successivamente anche politica. Furono questi i primi passi che condussero la Germania nell’alleanza occidentale, senza alcun tipo di ripensamenti. Allo stesso Adenauer risale oltretutto la teoria dell’ “Alleinvertretungsanspruch” ovvero al diritto esclusivo della Repubblica Federale Tedesca di parlare a nome dei tedeschi. Per il cancelliere, infatti, la Germania Est altro non era che una zona d’occupazione sovietica e, in quanto tale, non meritava né il riconoscimento, né tanto meno di parlare a nome dei tedeschi. A tale posizione si aggiunse per altro la “dottrina Hallstein”, fatta propria dal cancelliere, la quale prevedeva che ogni apertura di paesi terzi alla Repubblica Democratica Tedesca, il che ne implicava il riconoscimento, era un torto alla Repubblica Federale e come tale non sarebbe stato tollerato. La parola fu mantenuta, tanto che ben presto furono tagliati i rapporti con la Jugoslavia e con Cuba.
L’aggressività occidentale, che non portò alcun risultato né al fine di attenuare gli animi, né a quello dell’unificazione tedesca, maturò in Willy Brandt, il lungimirante cancelliere che succedette ad Adenauer, la convinzione che il muro (metaforico, ma anche fisico) opposto dall’oriente fosse una reazione all’eccessiva aggressività occidentale. Con l’ascesa al cancellierato di Brandt i rapporti tra la Germania Federale e l’Unione Sovietica presero finalmente un’altra piega, giungendo ad una distensione che (escludendo naturalmente la DDR), non si aveva dall’anteguerra. “Il nostro interesse nazionale non ci consente di stare in mezzo fra est e ovest. Il nostro paese ha bisogno della collaborazione con l’occidente e dell’intesa con l’oriente”[3], da queste poche parole, pronunciate da Brandt stesso, si deducono quelli che poi furono i punti cardine dell’Ostpolitik. Non una vera e propria apertura verso l’oriente, ma una distensione, un’intesa al fine di raggiungere, per tappe, alcuni obbiettivi programmatici. Una politica sovranista che potrebbe in qualche modo essere paragonata (e forse ne fu influenzata) a quella gollista. La politica di apertura verso l’oriente, tuttavia, procedette solo dopo aver ribadito il pieno inserimento della repubblica federale all’interno del sistema occidentale, della NATO e della piena amicizia e intesa con la Francia, già consolidata da anni dalla struttura della CECA e, dopo gli accordi di Roma del ’57, dalla Comunità Economica Europea. Per quanto riguarda l’oriente, di fatto, quella che si avanzava era una proposta di dialogo: si chiese all’Unione Sovietica di rinunciare al diritto dell’intervento, in precedenza ribadito dai sovietici, e in cambio si riconosceva lo status quo venutosi a formare dopo la guerra oltre il muro. In particolare il riferimento era alla Polonia, con cui in quegli anni, sempre in linea con la ostpolitik, fu concordato un trattato bilaterale che assicurò l’accettazione da parte tedesca dei confini occidentali della Polonia. Vi fu inoltre, per la prima volta, il riconoscimento dell’esistenza di due Germanie. Il tutto venne siglato con l’accordo germano-sovietico del 1970, firmato a Mosca da Brandt e Kossyghin, indispettendo inevitabilmente gli Stati Uniti, nonostante le rassicurazioni più volte ribadite e dimostrate. Con l’intento della distensione, al fine di costituire un ordine pacifico europeo, si arrivò dunque al congresso di Helsinki (1973-75), un processo diplomatico multilaterale, che portò ad un notevole avvicinamento, al prezzo di alcune pragmatiche rinunce da una parte e dall’altra. Priorità dell’Unione Sovietica era il riconoscimento delle frontiere post-1945, intento degli alleati occidentali era invece indebolire il patto di Varsavia attraverso lo strumento della causa dei “diritti umani”, un punto che la coalizione sovietica aveva sino ad allora visto come un’intollerabile ingerenza[4]. E’ attraverso Mosca (1970) ed Helsinki (1975) che, infine, la repubblica federale tedesca riconobbe la frontiera dell’Oder-Neisse. La RFT per altro rinunciò alla “Alleinvertretung” e, di conseguenza, all’intento politico dell’unione tedesca. Pur rinunciando, almeno nel breve termine, alla riunificazione dello Stato tedesco, Brandt non volle rinunciare all’unificazione della nazione. Per far ciò necessitava del consenso e della collaborazione della repubblica democratica e, dunque, dell’Unione Sovietica. Per questo motivo si potrebbe dire che la ostpolitik fu de facto ed inevitabilmente una “Russlandpolitik”[5]. Condizione posta dall’Unione Sovietica per la collaborazione, e la distensione, fu l’adesione della Germania al trattato di non proliferazione nucleare. Successivamente, la dirigenza sovietica dichiarò, tramite Leonid Brezhnev, la propria approvazione per la nuova politica estera condotta dalla RFT, questo nonostante effettivamente la DDR non venisse riconosciuta (nel 1970 erano 26 gli Stati che la riconoscevano), il che provocò qualche malumore a Berlino Est.
Fino a quel momento la dirigenza sovietica aveva preferito l’immobilismo nei confronti della Germania dell’Ovest, questo permetteva di tenere la Repubblica Federale Tedesca in uno stato di soggezione e d’inferiorità, attraverso una propaganda costante oltrecortina[6], distogliendo anche le attenzioni dai problemi e dalle contraddizioni interne. Tuttavia, alla Ostpolitik tedesca i sovietici fecero allora corrispondere una “Westpolitik”. Il cambiamento di rotta fu spinto dalla necessità che i paesi occidentali riconoscessero lo Status Quo ad oriente, in particolare il riconoscimento della nuova Polonia uscita dalla seconda guerra mondiale e modificata nei suoi confini occidentali. Essendo questi gli anni in cui la Cina andava rompendo con l’URSS, dopo aver elaborato la strumentale categoria di “socialimperialismo”, per avvicinarsi agli Stati Uniti, il riconoscimento delle frontiere occidentali era una pedina fondamentale per placare gli animi su tale fronte, potendosi concentrare con maggior equilibrio nelle questioni orientali. Moralmente inoltre il riconoscimento poteva essere sventolato come una vittoria, essendo state così imposte le conseguenze della guerra allo Stato che si era frontalmente contrapposto a quello sovietico.
Pur essendo il fine dell’Ostpolitik, da parte dei tedesco-occidentali, quello di distendere i due fronti, in modo da riequilibrare anche la situazione tedesca, e quello dei sovietici di indebolire geopoliticamente l’asse antisovietico, consci del peso politico ed economico della Germania (che nel frattempo andava crescendo in maniera sorprendente), Brandt mostrò un certo senso strategico nel suo riavvicinamento all’Unione Sovietica, come dimostrò parlando alla Radio, a Mosca, il 12 agosto del 1970: “La Russia è indissolubilmente legata alla storia europea, non solo come avversario o come pericolo, ma anche come partner, storicamente, politicamente, culturalmente ed economicamente”[7]. Si può dunque dire che dopo la dottrina Adenauer-Hallstein, venne a prevalere la “dottrina Brandt”: promuovere il cambiamento attraverso l’avvicinamento[8]. Bisogna tuttavia aggiungere che nella sua politica fu probabilmente anche condizionato da Günter Guillaume, quello che in breve divenne uno dei suoi uomini più fedeli, secondo alcuni il “braccio destro” , ma che presto si rivelò una spia della Stasi, inviato con non ben precisati compiti da Markus Johannes Wolf , il quale, tuttavia, dichiarò in un’intervista successiva che l’intento non era quello di gettare in disgrazia il cancelliere[9] (quest’ultimo dovette infatti dare le dimissioni, in seguito all’”affare Guillaume”. Una vicenda tutt’oggi poco chiara e su cui poca luce è stata fatta.

 

Conclusioni

L’ostpolitik fu una politica realista, fu un calcolo pragmatico che prese le mosse dall’accettazione dello status quo, condizione preliminare, conditio sine qua non per distendere i rapporti con l’Est. Questa politica guardava ai vertici, alle dirigenze, indipendentemente dalle possibilità sovversive di determinati movimenti filoccidentali. A testimoniarlo vi è il rifiuto della Repubblica Federale di aderire alle sanzioni mosse dagli Stati Uniti contro la Polonia, per la repressione dei movimenti “rivoluzionari”, i quali godevano in gran parte della simpatia e delle potenze occidentali. Tale fase politica inoltre, come ampiamente previsto dai suoi promotori, permise alla Germania di ritagliarsi un proprio spazio politico, restituendole il peso geopolitico ed economico adeguato, per la preoccupazione e il sospetto degli alleati occidentali
A conti fatti, pur non ottenendo grandi cambiamenti in ambito geopolitico, l’ostpolitik fu il momento di massima distensione tra la Germania e l’Unione Sovietica, sin dalla rottura in seguito all’Operazione Barbarossa. Un avvicinamento che, seppur apparentemente sotto controllo, mise in allarme alcuni settori, in particolare delle due potenze talassocratiche. D’altronde queste interferirono nei rapporti tedesco-sovietici anche nel primo dopoguerra e nel 1939. A dimostrazione che un’alleanza fra le due potenze continentali, l’unione fra due forze economiche e politiche, non fu e tutt’ora non è ben vista dalle potenze egemoni.
 

 

Marco Zenoni è laureando in Relazioni Internazionali all’Università di Perugia

 

[1] http://www.eurasia-rivista.org/dietro-le-quinte-della-guerra-tra-la-germania-e-la-polonia/1015/
[2] http://www.eurasia-rivista.org/il-patto-di-non-aggressione-tedesco-sovietico/1645/
[3] cfr. “Affari esteri”, n. 5 – 1970. P. 130
[4] Cfr. Eurasia, n.2 – 2011
[5] Ibidem
[6] Ibidem.
[7] Cfr. “Affari esteri”, n.8 – 1970. P. 11
[8] Cfr. “Affari Esteri”, n.8 – 1970.
[9] http://www.telegraph.co.uk/news/obituaries/1533707/Markus-Wolf.html

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LA DISPUTA DELLE ISOLE CURILI

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Le Isole Curili sono uno dei luoghi più remoti della Russia. L’arcipelago, composto da isole vulcaniche disposte ad arco tra l’isola giapponese di Hokkaido (da dove è possibile vedere alcune delle isole più meridionali) e la penisola russa della Kamčatka e oggi appartenente per intero alla Federazione Russa, è quasi interamente spopolato (la densità di popolazione non raggiunge l’abitante per chilometro quadrato nelle isole più settentrionali, mentre sale a “ben” sei in quelle più a sud), anche per la sensibilità dell’area a terremoti e tsunami, e i pochi insediamenti hanno l’aspetto di avamposti di frontiera. Estremamente difficili da raggiungere, le isole sono un paradiso per chi cerca luoghi deserti e ambienti naturali praticamente incontaminati.

Originariamente abitate da Ainu, un gruppo etnico che un tempo popolava l’intero arcipelago giapponese e l’isola di Sachalin ma oggi quasi interamente assimilato alle popolazioni giapponese o russa, nel corso del Seicento le isole divennero parte del Giappone. Quest’annessione, però, fu soltanto nominale e non impedì né il permanere della traccia di questa presenza ancestrale nei toponimi, né la fondazione di insediamenti russi nelle stesse a partire dal Settecento. Le prime schermaglie tra la Grande Madre e il Sol Levante per il controllo delle isole avvennero nel 1811, quando l’ammiraglio russo Vasilij Golovnin, durante una spedizione esplorativa presso l’isola di Kunašir (in giapponese Kunashiri), fu catturato dai Giapponesi; stessa sorte toccò l’anno successivo a un mercante nipponico, catturato per ritorsione. Successivamente i due furono liberati e i due imperi iniziarono le trattative per il possesso delle isole[1]. Golovnin, in seguito, raccontò la sua esperienza in un racconto che stimolò un forte interesse per il Sol Levante negli Stati Uniti e in Europa[2].

Nel 1855 Russia e Giappone sottoscrissero il Trattato di Habomai, con cui le isole vennero divise tra i due Paesi. Quelle più meridionali, ossia Kunašir, Iturup (in giapponese Etorofu), Šikotan (in giapponese Shikotan) e le Chabomaj (in giapponese Habomai), passarono al Giappone; le altre, invece, furono annesse alla Russia. Vent’anni dopo i due Paesi sottoscrissero un nuovo accordo a San Pietroburgo, a seguito del quale l’intero arcipelago passò al Giappone in cambio della rinuncia a ogni pretesa su Sachalin, che così passò alla Russia[3]. Negli anni seguenti, tuttavia, le tensioni russo-giapponesi sarebbero continuate, con il Giappone che vedeva con sospetto l’attivismo russo in Corea e la conquista russa della Manciuria, considerandoli come il preludio di una possibile avanzata verso l’arcipelago giapponese, e nel 1904 la flotta del Sol Levante attaccò senza preavviso la base russa di Port Arthur (attuale Lüshun), in Manciuria[4]. Fu l’inizio della Guerra Russo-Giapponese. I russi si difesero con vigore, ma le sorti della guerra volsero comunque a favore del Sol Levante: Port Arthur capitolò dopo un assedio durato 154 giorni, e le truppe giapponesi, meglio organizzate e ormai confidenti nella propria forza a dispetto delle pesanti perdite inflittegli dai Russi, infierirono una sonora sconfitta alle truppe dello Zar a Shenyang (allora Mukden). Stessa sorte toccò alla flotta russa presso lo stretto di Tsushima[5]. Nel 1905, un anno dopo l’inizio della guerra, la Russia fu costretta a gettare la spugna. Il prezzo da pagare fu piuttosto alto: la metà meridionale dell’isola di Sachalin fu ceduta al Giappone, al pari della Corea e della Manciuria, mentre il possesso delle Curili sembrava essere soltanto un lontano ricordo.

Nel 1939, in un contesto di alta tensione tra i due Paesi, Giappone e URSS decisero di firmare un patto di non aggressione, ma il 22 luglio 1945, quando le ambizioni imperiali nipponiche erano ormai fallite ma il Giappone continuava a rifiutarsi di issare bandiera bianca, la Russia gli dichiarò guerra ed ebbe un ruolo importante nel costringere il Paese alla resa incondizionata[6]. Uno dei motivi che portarono la Russia a scendere in guerra fu la promessa di potersi riprendere le Curili e la parte meridionale di Sachalin fatta dagli Alleati durante la Conferenza di Jalta. Il passaggio all’URSS di questi territori e la rinuncia di ogni pretesa giapponese sugli stessi furono suggellati dal Trattato di San Francisco del 1951[7]. Ma, se la rinuncia di Sachalin e delle Curili settentrionali è stata da tempo accettata dal Giappone, non lo stesso si può dire per quelle quattro Curili meridionali che anche tra il 1855 e il 1875 furono parte del Sol Levante e non della Grande Madre. Perché?

Sebbene il Trattato di San Francisco parlasse chiaramente di “rinuncia alle Isole Curili” da parte del Giappone, già alla stipula dello stesso gli Stati Uniti suggerirono a Tokyo di rivolgersi alla Corte Internazionale di Giustizia qualora si fosse trovata in disaccordo sulla cessione di Šikotan e delle Chabomaj. Riguardo alle altre due isole oggetto dell’attuale contenzioso, ovvero Kunašir e Iturup (le quali peraltro costituiscono la maggior parte del territorio conteso tra Mosca e Tokyo), fu lo stesso Ministro degli Esteri giapponese, durante un’interrogazione parlamentare dell’ottobre del 1951, a riconoscere la loro inclusione nel novero delle isole cedute all’Unione Sovietica. Giappone e URSS, però, non avevano ancora firmato un trattato di pace formale, e durante i colloqui del 1956 tra i due Paesi il governo nipponico passò dalla rivendicazione di Šikotan e Chabomaj a quella di tutte e quattro le Curili meridionali, invocando l’apertura di una conferenza internazionale sul tema. Il Cremlino rifiutò la proposta giapponese sulla conferenza internazionale e acconsentì alla cessione delle sole Šikotan e Chabomaj, e il Giappone, riconoscendo l’infondatezza delle sue pretese, si preparò alla sottoscrizione del trattato di pace. Ma Washington fece fallire l’accordo[8], e a tutt’oggi i due Paesi non hanno ancora sottoscritto un trattato di pace[9].

A spiegare l’innalzamento del tiro giapponese è in parte la pretesa, alquanto debole, secondo cui le quattro Curili meridionali, non avendo mai fatto parte della Russia, non potevano essere incluse nel novero delle isole cedute all’Unione Sovietica. Tuttavia la motivazione autentica va individuata nella situazione geopolitica dell’epoca, caratterizzata dall’acuirsi dello scontro tra USA e URSS nell’ambito della Guerra Fredda. Per evitare che un Paese già allora ricco e sviluppato come quello del Sol Levante si avvicinasse all’orbita del Cremlino, infatti, era nell’interesse degli Stati Uniti mantenere alta la tensione tra i due Paesi, e secondo quanto rivelato da documenti segreti resi noti nel 1991 l’allora Segretario di Stato americano John Foster Dulles aveva persino minacciato Tokyo di non restituire Okinawa qualora il Giappone avesse rinunciato alle proprie pretese su Kunašir e Iturup[10].

Nei decenni successivi, e in particolare a seguito della fine della Guerra Fredda, le relazioni russo-giapponesi hanno vissuto un netto miglioramento. Questa schiarita passa sia attraverso atti simbolici, come le scuse al governo nipponico dell’ex Presidente russo Boris El’cin per il maltrattamento dei prigionieri di guerra giapponesi detenuti nell’Unione Sovietica durante la Seconda Guerra Mondiale, sia attraverso atti materiali, come lo sviluppo delle relazioni economiche e commerciali tra i due Paesi. Risale alla fine del 2012 la notizia secondo cui un consorzio di imprese giapponesi è interessato alla costruzione di un gasdotto tra Sachalin, sede di importanti giacimenti di gas naturale, e il Giappone[11]. Il Cremlino ha inoltre offerto assistenza al Giappone nel difficile periodo seguito al terremoto e al conseguente maremoto del marzo 2011[12], e ogni estate 250 bambini residenti nella zona di Fukushima ricevono ospitalità a Sachalin per le vacanze[13]. Resta comunque il fatto che il Giappone è un Paese fortemente russofobo (un sondaggio del Pew Research Centre rivela come il 72% dei Nipponici ha un’opinione negativa della Russia[14]) e che, a distanza di oltre cinquant’anni, la disputa sulle Curili resta ancora in sospeso.

Gli ultimi anni, comunque, hanno visto un’alternanza tra momenti di tensione e momenti di distensione, e la volontà di raggiungere un compromesso sembra non essere mai venuta meno. La Russia si dimostra disposta alla restituzione di Šikotan e delle Chabomaj, come dichiarato da Putin nel 2001[15], e nel 1991 ha abolito i visti d’ingresso per i cittadini giapponesi intenzionati a visitare le quattro isole oggetto della disputa[16]. Nel 2012, poi, il Ministero degli Esteri russo ha proposto la risoluzione della disputa tramite un referendum tra gli abitanti delle isole oggetto della questione[17]. Una proposta che però segue di un anno la decisione di Medvedev sul riarmo delle Curili[18]. Era passato un anno dalla prima controversa visita dell’allora Presidente russo a Kunašir, la prima di un Capo di Stato dai tempi della cessione dell’isola, e l’anno successivo la decisione di Medvedev fu seguita dai fatti, quando il Ministero della Difesa russo ha annunciato la costruzione per il 2013 di due basi militari a Iturup e Kunašir[19]. Venti di guerra sulle Curili? E’quasi impossibile che la disputa si trasformi in un conflitto armato, anche perché l’articolo 9 dell’attuale Costituzione nipponica, approvata nel 1947 dopo la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale, vieta esplicitamente il ricorso alle armi per fini non difensivi, ma è ben chiaro che si tratta di una prova di forza da parte di un Paese che non vuole chiaramente rinunciare al possesso delle più grandi tra le isole in contestazione (laddove, peraltro, le pretese nipponiche sono meno fondate dal punto di vista legale).

Il Giappone, dal canto suo, ufficialmente non ha mai rinunciato alla rivendicazione di tutte e quattro le Curili meridionali. Nel 2006 l’allora Ministro degli Esteri nipponico Taro Aso ha proposto la divisione tra Russia e Giappone del quartetto conteso, ma quella che avrebbe potuto essere una svolta storica nelle relazioni russo-giapponesi si è risolta in una rettifica con cui il dicastero ha parlato di una “interpretazione erronea” delle parole del Ministro[20]. Negli anni successivi, anzi, Tokyo è stata molto sospettosa nei confronti delle mosse di Mosca. Nel 2010, a seguito della prima visita di Medvedev a Kunašir, il governo giapponese ha richiamato in patria il suo ambasciatore in Russia per non aver saputo prevedere il viaggio[21], e due anni dopo, ai tempi della sua seconda visita, fu l’ambasciatore russo in Giappone ad essere convocato presso il Ministero degli Esteri nipponico per spiegazioni, mentre il Ministro degli Esteri Kōichirō Genba ha definito la visita “una doccia fredda nelle nostre relazioni”[22]. Dal 1981, poi, ogni 7 febbraio in Giappone si celebra la “giornata dei Territori del Nord”, come le Isole Curili vengono chiamate nel Paese del Sol Levante. Nel 2011, durante una manifestazione di fronte all’ambasciata russa di Tokyo, un dimostrante ha ostentato una bandiera russa visibilmente vandalizzata. L’azione ha suscitato proteste da parte di Mosca, che ha chiesto l’apertura di un’inchiesta per “vilipendio a una bandiera straniera” in base all’articolo 92 del Codice Penale nipponico[23], ma le richieste sono state respinte[24]. Tuttavia non manca qualche apertura anche da parte di Tokyo. I vari ministri giapponesi che si sono succeduti nel corso degli anni hanno spesso difeso, almeno a parole, la necessità di risolvere l’annosa disputa, e nel 2012, a seguito di una visita del Ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, il Parlamento giapponese ha approvato la risoluzione con cui l’espressione “occupate illegalmente dalla Russia” usata in riferimento allo status delle Curili meridionali veniva sostituita con la meno polemica “controllate dalla Russia in assenza di un fondamento legale”[25].

La volontà di risolvere la questione delle Curili è stata recentemente espressa dal Premier giapponese Shinzo Abe e dal Presidente russo Vladimir Putin durante un vertice a Mosca nell’aprile 2013, nel quale si è anche parlato di cooperazione economica e geostrategica. Il bisogno di Russia e Giappone di instaurare buoni rapporti con la controparte è forte da ambo le parti: il Giappone, specie dopo la rinuncia al nucleare seguita alla catastrofe di Fukushima, è bisognoso dei giacimenti di gas naturale di Sachalin, mentre la Russia rappresenta un contrappeso nei confronti del crescente attivismo cinese nell’Asia Orientale. Il Cremlino, d’altra parte, ha bisogno di diversificare i mercati di esportazione del gas, oggi destinato in prevalenza ad un’Europa che ancora stenta ad uscire da quella che sembra una stagnazione permanente, nonché delle tecnologie nipponiche per lo sviluppo di una Siberia Orientale in gran parte esclusa dallo sviluppo economico della madrepatria a dispetto delle sue notevoli potenzialità[26]. La normalizzazione dei rapporti russo-giapponesi, però, passa attraverso la risoluzione della disputa sulle Curili, e questa risoluzione sembra ancora lontana a dispetto dei segnali positivi. Durante il Forum Economico Internazionale di San Pietroburgo nel giugno 2013 la Russia ha lanciato l’idea di sviluppare congiuntamente l’economia delle Curili, ma a distanza di un mese da parte giapponese non è pervenuta alcuna risposta, e la sua reticenza sul tema è da interpretare come un “no” a qualsiasi proposta che porti anche indirettamente al riconoscimento della sovranità russa sulle Curili[27]. Una questione, quella delle Curili, che di fatto si potrà risolvere soltanto qualora il Giappone dovesse ridimensionare le proprie pretese territoriali e accettare un compromesso col Cremlino, ma per Tokyo (come anche per Mosca) il possesso delle Curili meridionali è ormai una questione di principio, e la probabilità che nel prossimo futuro il Giappone scenda a un compromesso, già non elevata, diventa ancora più labile se si considera che la sua posizione viene esplicitamente supportata da Stati Uniti[28] e Unione Europea[29]. E’probabile, quindi, che la questione delle Curili continuerà a tenere banco ancora per molti anni.



[2] Vedasi Encyclopædia Britannica, voce Vasilij Golovkin, su http://www.britannica.com/EBchecked/topic/238111/Vasily-Mikhaylovich-Golovnin

[4] P. Hopkirk, The Great Game: The Struggle for Empire in Central Asia (Kodanska Globe, 1992), p. 502

[5] Ivi, pp. 515-516

[6] R. Bartlett, Storia della Russia (Mondadori, 2007) p. 245

[8] Ibidem

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L’ARCHIVIO DI “EURASIA”

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Maged Rida Butros, Le relazioni tra Egitto e Stati Uniti: il loro contenuto e il loro futuro, 1/2011, pp. 41-58

Lorenzo Salimbeni, La primavera egiziana del 1919, 2/2012, pp. 185-193

Stefano Fabei, L’indipendenza dell’Egitto nei piani dell’Asse, 2/2012, pp. 249-256

Emanuela Locci, La Massoneria in Egitto, 4/2012, pp. 163-171

 

Libia

Claudio Mutti, Il ruolo della Libia nel Nordafrica e nel Mediterraneo, 3/2009, pp. 159-168

Giovanni Armillotta, La Libia che è stata distrutta, 2/2012, pp. 27-45 

 

Cina

Tiberio Graziani, L’equilibrio del pianeta passa per Pechino, 1/2006, pp. 5-10

Claudio Mutti, Pound contra Huntington, 1/2006, pp. 17-25

Yves Bataille, La Cina e la guerra ventura, 1/2006, pp. 43-54

Aldo Braccio, Panoramica sulla Cina, 1/2006, pp. 55-57

Massimiliano Carminati, La “via cinese al socialismo”, 1/2006, pp. 59-72

Tahir de la Nive, L’Islam e il Tao, 1/2006, p. 73-76

Luca Donadei, L’Impero di Mezzo è già in Italia, 1/2006, pp. 77-84

Enrico Galoppini, Il Celeste Impero e la Mezzaluna, 1/2006, pp. 85-101

Hu Yeping, Dialogo di civiltà fra India e Cina, 1/2006, pp. 103-112

Costanzo Preve, Ritorno a Confucio?, 1/2006, pp. 113-130

Serge Thion, Spazio della Cina e Cina dello spazio, 1/2006, pp. 141-156

Antonio Venier, Il potenziale militare cinese, 1/2006, pp. 157-163

Stefano Vernole, La “spina” tibetana, 1/2006, pp. 165-175

Andrea Chiovenda, Intervista al Gen. Fabio Mini, 1/2006, pp. 185-190

Tiberio Graziani, Intervista a Sergio Romano, 1/2006, pp. 191-195

Dichiarazione di Russia e Cina sull’ordine internazionale del XXI secolo, 1/2006, pp. 247-251

Dichiarazione congiunta della Repubblica Indiana e della Repubblica Popolare Cinese, 2/2006, pp. 239-245

Spartaco Alfredo Puttini, Il Patto di Shanghai, 3/2006, pp. 77-82

Daniele Scalea, Quindici Giugno a Shanghai, 3/2006, pp. 83-90

Stefano Vernole, L’Armata Popolare cinese: un nuovo modello di esercito, 3/2006, pp. 91-98

Aldo Monti, Su François Jullien. Ritornare dalla Cina e ancora… dimenticare, 4/2006, pp. 201-204

Vincenzo Maddaloni, Gli Ayatollah e il Dragone d’Oriente, 1/2008, pp. 165-176

Fabio Mini, L’eredità cinese della guerra fredda: una collana di perle, 2/2008, pp. 167-181

Mauro Minieri, Ai Cinesi piace la creatività, 2/2008, pp. 183-188

F. William Engdahl, L’Africom, la Cina e le guerre congolesi, 3/2009, pp. 103-108

Roman Tomberg, Africa e Cina: presente e futuro, problemi e prospettive, 3/2009, pp. 213-220

Tania Colantone, Cina-Corea del Nord: un’alleanza in declino, 1/2010, pp. 185-203

Augusto Marsigliante, I rapporti sino-africani, 2/2010, pp. 207-211

Konstantin Zavinovskij, Cina e Russia in mezzo agli altri mattoni, 3/2011, pp. 31-37

Marco Marinuzzi, Le relazioni tra i paesi lusofoni e la Cina, 3/2011, pp. 123-132

Andrea Fais, Cina-USA: l’alba di una nuova guerra fredda, 4/2012, pp. 231-238

Luca Favilli, Cina e Africa, 4/2012, pp. 239-252

Andrea Fais, Il Partito Comunista Cinese alla riscoperta del Celeste Impero, 1/2013, pp. 111-124

Ye Feng, L’esercito cinese: una forza di pace, 2/2013, pp. 139-142 

 

America indiolatina

Discorso del presidente venezuelano Hugo Chávez all’Assemblea Generale dell’ONU, 3/2006, pp. 225-229

Tiberio Graziani, Il risveglio dell’America indiolatina, 3/2007, pp. 5-11

Aldo Braccio, L’America latina in sintesi, 3/2007, pp. 15-18

Alberto Buela Lamas, Il Sudamerica come katechon metapolitico, 3/2007, pp. 19-26

Come Carpentier de Gourdon, La prima America contro lo “America First”. L’alternativa latina nel “Nuovo Mondo”, 3/2007, pp. 27-41

Francisco de la Torre Freire, Rafael Correa: per una vera unità sudamericana, 3/2007, pp. 43-47

Philip Kelly, Il Sudamerica come “zona di pace”. Agevolazione d’un modello geopolitico, 3/2007, pp. 49-58

Jorje A. Lagos Nilsson, Paradossi di una guerra in territori lontani, 3/2007, pp. 59-63

Claudio Mutti, I letterati e l’indio americano, 3/2007, pp. 65-71

Alessandro Lattanzio, Il programma nucleare dell’Argentina, 3/2007, pp. 73-88

Luiz Alberto Moniz Bandeira, Brasile contro Stati Uniti: la predizione di Hegel, 3/2007, pp. 89-92

Félix Peña, Argentina e Brasile nello spazio sudamericano: una prospettiva argentina, 3/2007, pp. 93-99

Carlos A. Pereyra Mele, Difesa nazionale e integrazione regionale, 3/2007, pp. 101-106

Maria Poumier, La questione dell’identità nazionale in America Latina. Lezioni per l’Europa, 3/2007, pp. 107-119

Costanzo Preve, A quarant’anni dalla morte di Ernesto Che Guevara, 3/2007, pp. 121-129

Federico Roberti, Integrazione continentale in America Latina, 3/2007, pp. 131-137

Shiguenoli Miyamoto, Geopolitica del Brasile, 3/2007, pp. 139-158

Jean-Louis Duvigneau, Jesus Arnaldo Perez, ambasciatore della Repubblica Bolivariana del Venezuela in Francia, 3/2007, pp. 203-206

Leon Cristalli, Le Malvine e il dominio dell’Antartide, 1/2008, pp. 209-212

Alberto Buela Lamas, Interventi anglosassoni nell’America iberica, 2/2008, pp. 59-66

Tiberio Graziani, America indiolatina ed Eurasia: i pilastri del nuovo sistema multipolare, 3/2008, pp. 5-12

Giovanni Armillotta, L’imperialismo e la rivoluzione latinoamericana. Prima parte, 3/2008, pp. 15-31

Marco Bagozzi, Le Misiones. Il Venezuela e la sovranità sociale, 3/2008, pp. 33-38

Alberto Buela Lamas, Banco del Sur: una visione geopolitica, 3/2008, pp. 39-41

Alessandra Colla, Chiesa e America Latina, 3/2008, pp. 43-52

Francisco de la Torre Freire, Alle origini della prassi geopolitica di Chávez: il pensiero geopolitico di Norberto Ceresole, 3/2008, pp. 53-63

Alessandro Lattanzio, Il programma nucleare del Brasile, 3/2008, pp. 65-83

Francisco Magalhães, Grenada 1983: ricominciano le invasioni USA, 3/2008, pp. 85-90

Luiz Alberto Moniz Bandeira, Il Brasile e l’America meridionale. Prima parte, 3/2008, pp. 91-102

Roberto Nocella, La politica estera del barone di Rio Branco, 3/2008, pp. 103-116

Félix Peña, Il Mercosur in un mondo dalle molteplici opzioni, 3/2008, pp. 117-123

Carlos A. Pereyra Mele, La guerra infinita in America, 3/2008, pp. 125-129

Samuel Pinheiro Guimarães, Le sfide dell’integrazione sudamericana, 3/2008, pp. 131-146

Manlio Urbano, L’OSA: “una vision compartida para las Américas”, 3/2008, pp. 147-154

Roberto Zavaglia, Chavez: ragioni e problemi del nuovo populismo latinoamericano, 3/2008, pp. 155-165

Luiz Alberto Moniz Bandeira, Il Brasile e l’America meridionale. Seconda parte, 1/2010, pp. 171-183

Marcelo Gullo, Malvine: da Cristoforo Colombo a Juan Perón, 1/2011, pp. 191-194

José Filho, Il Brasile e i BRICS: lettera dell’Ambasciatore brasiliano, 3/2011, pp. 39-43

Roberto Nocella, Il Brasile e il Consiglio dei Diritti Umani, 3/2011, pp. 45-56

Marco Marinuzzi, Le relazioni tra i paesi lusofoni e la Cina, 3/2011, pp. 123-132

Miguel Angel Barrios, Europa-Mercosur nella dinamica geopolitica del XXI secolo, 3/2011, pp. 147-163

Miguel Angel Barrios, Strategia e geopolitica dell’America Latina. Prima parte, 1/2012, pp. 181-191

Miguel Angel Barrios, Strategia e geopolitica dell’America Latina. Seconda parte, 2/2012, pp. 197-215

Miguel Angel Barrios, Strategia e geopolitica dell’America Latina. Terza parte, 4/2012, pp. 265-272

Francisco de la Torre Freire, Il mito dell’Impero nell’America indiolatina. Prima parte, 1/2013, pp. 125-134

Francisco de la Torre Freire, Il mito dell’Impero nell’America indio latina. Seconda parte, 3/2013, pp. 249-256

 

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L’EGITTO AL CENTRO DELLA GRANDE SCACCHIERA

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L’esito degli scontri che stanno dilaniando l’Egitto costituisce un’incognita destinata a influire in maniera decisiva sia sulle dinamiche prettamente areali sia sulla ridefinizione dei rapporti di forza tra grandi potenze, in una fase di evidente declino della perno unipolare statunitense.

 

 

La Fratellanza Musulmana

Nel corso degli ultimi anni si è ritagliata, specialmente in Egitto, un ruolo di primissimo piano la Fratellanza Musulmana, o Ikhwan, movimento islamico fondato nel 1928 da Hassan al-Banna. Colui che sarebbe poi divenuto la guida del nazionalismo arabo, Gamal Abd el-Nasser, strinse un’alleanza tattica con questo movimento allo scopo di rovesciare la monarchia di Re Faruk – ritenuta ormai obsoleta anche dai dominanti britannici. Una volta cacciato il Re e abolita la monarchia, Nasser si dissociò bruscamente dalla Fratellanza Musulmana, la quale si opponeva frontalmente al suo progetto politico, dichiarandola illegale e facendone imprigionare il nuovo ideologo, Sayyid Qutb, il quale scrisse in carcere Pietre Miliari, una summa del suo pensiero destinata a divenire ben presto il testo di riferimento di ogni Fratello Musulmano.

Con la dura repressione ordinata da Nasser, la Fratellanza Musulmana venne drasticamente ridimensionata, finché la sconfitta dell’Egitto nella “Guerra dei Sei Giorni” attrasse sul governo una certa sfiducia, della quale i principali esponenti del movimento approfittarono per attuare una moderata revisione ideologica, finalizzata, attraverso l’abbandono delle derive estremistiche legate alla figura di Qutb (che nel frattempo era stato impiccato), a rendere gli Ikhwan maggiormente compatibili con la struttura statale egiziana edificata da Nasser. Questa “revisione” si rivelò quanto mai necessaria, dal momento che il nuovo presidente Anwar al-Sadat, preso atto della svolta “moderata” e del seguito che tale movimento riscuoteva in seno alla popolazione, decise di aprire alla Fratellanza Musulmana, pur senza riconoscerle piena legittimità, allo scopo di arginare la preoccupante ascesa delle fazioni marxiste che stavano prendendo piede all’interno del Paese. Gli Ikhwan non si erano tuttavia dotati di una solida struttura verticistica, piramidale e monolitica, poiché le idee di Qutb continuavano a trovare sempre nuovi adepti. Non deve pertanto stupire che, nonostante la sua politica di apertura, Sadat sia caduto in un attentato compiuto da un Fratello Musulmano.

Nonostante ciò, il nuovo presidente egiziano Hosni Mubarak scelse ugualmente di collocarsi nel solco tracciato da Sadat, portando avanti la sua politica di apertura nei confronti della Fratellanza Musulmana, che nel 1984 ottenne la legalizzazione e l’automatico diritto ad entrare in Parlamento. Da allora gli Ikhwan  si sono collocati in una posizione subalterna rispetto al regime militare, limitandosi a mantenere legami piuttosto stretti con i gruppi gihadisti più agguerriti e ad esercitare una certa influenza sia sui ceti abbienti assicurando notevoli privilegi a professionisti di ogni genere (medici, professori, avvocati, ecc.) sia sugli strati sociali più poveri, grazie anche al contributo del telepredicatore Yusuf al-Qaradawi, cittadino qatariota di origine egiziana, che dagli schermi di “al-Jazeera” emana fatawa di dubbia ortodossia.

 

 

Il “Grande Oriente”

Fino ai primi mesi del 2011, Mubarak era stato attivamente sostenuto sia da Israele che dagli Stati Uniti, i quali gli riconobbero il merito di essersi collocato nel solco tracciato dal suo predecessore Sadat, artefice della rottura dei rapporti con l’Unione Sovietica precedentemente allacciati da Nasser e della sottoscrizione degli accordi di Camp David, che rappresentarono il culmine della politica di appeasement nei confronti di Tel Aviv. Come riconoscimento del valore attribuito al regime di Mubarak, Washington cominciò ben presto a inviare ben 1,3 miliardi di dollari all’anno di finanziamenti verso l’Egitto, che contribuirono ad arricchire la giunta militare al potere. Tel Aviv si accordò invece con Mubarak affinché assicurasse rifornimenti di gas naturale allo Stato ebraico e assumesse saldamente il controllo della turbolenta regione del Sinai – restituita all’Egitto contestualmente agli accordi di Camp David dal governo israeliano del premier Menachem Begin e del ministro degli esteri Moshe Dayan –, impedendo ai miliziani palestinesi di ricevere armi e rifornimenti transitando liberamente attraverso il confine che separa Israele dall’Egitto.

La stabilità garantita da Mubarak cominciò tuttavia ad essere messa in discussione dalla tracimazione, dalla Tunisia all’Egitto, della cosiddetta “primavera araba”, scoppiata in seguito agli esorbitanti apprezzamenti dei generi alimentari, di cui gran parte dei Paesi del Nord Africa è importatore netto,  provocati dalla speculazione. I media si affrettarono a riferire che le agitazioni che inizialmente infiammarono piazza Tahrir, e che nell’arco di poche settimane si espansero in tutte le principali città egiziane, furono scatenate essenzialmente da giovani animati da delusione e collera nei confronti di un regime che governava autoritariamente il Paese da circa un trentennio durante il quale la corruzione dilagò progressivamente e il potere politico ed economico andò concentrandosi in maniera radicale nelle mani delle più alte gerarchie militari. Queste spiegazioni “minimali” sottolineano motivazioni che hanno certamente esercitato un ruolo non indifferente nell’accendere la miccia della rivolta, ma trascurano (spesso deliberatamente) i decisivi fattori esterni e le intenzioni delle potenze occidentali interessate a frenare la penetrazione economica della Cina in Nord Africa e in Medio Oriente. Come scrive Mahdi Darius Nazemroaya: «Incendiare l’Eurasia con la sovversione sembra essere la risposta di Washington per impedire il proprio declino. Gli Stati Uniti prevedono di accendere un grande incendio dal Marocco e dal Mediterraneo fino ai confini della Cina. Questo processo è stato sostanzialmente avviato dagli Stati Uniti attraverso la destabilizzazione di tre diverse regioni: Asia Centrale, Medio Oriente e Nord Africa» (1).

Così, sotto l’egida di Bush junior, gli Stati Uniti si mossero coerentemente con i principi espressi all’interno del Quadrennial Defense Review Report pubblicato nel settembre 2001, occupando l’Afghanistan allo scopo di assicurarsi il controllo delle rotte energetiche eurasiatiche, rinsaldando l’asse Washington-Tel Aviv in chiave antipalestinese e aggredendo con false prove l’Iraq, in modo di concorrere all’affermazione di Israele al rango di unica potenza egemone della regione e confinare gli arabi di Palestina in appositi bantustan controllati dalle forze israeliane. Successivamente, riversarono benzina sul focolaio libanese promuovendo ed incoraggiando la sommossa anti-siriana scaturita dall’enigmatico super-attentato, datato 14 febbraio 2005 ed istantaneamente attribuito a Damasco per via della vicinanza tra Bashar al-Assad e il presidente libanese Emile Lahoud (fresco beneficiario di un emendamento costituzionale atto a prolungarne il mandato di tre anni), che stroncò la vita del popolarissimo Rafik al-Hariri, dimessosi da poco dall’incarico di primo ministro in segno di protesta contro la radicale svolta filo-siriana imboccata dal proprio paese. La rivolta, prontamente ribattezzata come “Rivoluzione dei Cedri”, spianò la strada a Washington, i cui portavoce – che si guardarono bene dall’esercitare pressioni analoghe su Tel Aviv affinché procedesse al ritiro delle proprie forze militari dal Golan, sotto illegale occupazione israeliana dal 1967 – avvertirono che «Gli Stati Uniti ordinano ai siriani di andarsene dal Libano» (2), costringendo Bashar al-Assad a dichiarare la fine del protettorato siriano sul Libano e l’imminente ritiro delle proprie forze armate dal territorio libanese. Queste operazioni sono evidentemente rivolte, come osserva Nazemroaya, a ridisegnare, analogamente a quanto fece l’impero britannico nel 1922, l’intera cartina politica mediorientale nell’ambito del piano del “Grande Medio Oriente”, presentato da George W. Bush in occasione del G8 del giugno 2004. L’intenzione dichiarata di costituire una “area di libero scambio” dal Marocco al Pakistan consiste in realtà nello scardinare, attraverso strumenti politici, economici e militari, gli assetti geopolitici di quest’area per rimpiazzarli con strutture adeguate a tutelare gli interessi statunitensi.

Con l’appoggio alle “primavere arabe” e l’attacco alla Libia, Barack Obama e la sua amministrazione hanno evidentemente recuperato il progetto neocon del “Grande Medio Oriente”, pur ampliandone il raggio stringendo una serie di accordi principalmente militari con Singapore, Thailandia, Filippine ed Australia allo scopo di accerchiare la Cina e porre sotto il controllo statunitense le rotte petrolifere attraverso cui il “Paese di Mezzo” si rifornisce di energia.  «Dalla strategia del “Grande Medio Oriente” (comprendente Nord Africa e Asia centrale), lanciata dal repubblicano Bush – osserva Manlio Dinucci –, il democratico (nonché Premio Nobel per la pace) Obama è passato alla strategia del “Grande Oriente”, che mira all’intera regione Asia/Pacifico in aperta sfida a Cina e Russia» (3).

In Medio Oriente e Nord Africa, Washington ha assegnato alle frange islamiste il compito di sovvertire i regimi sgraditi o di puntellare quelli ritenuti affidabili in cambio di sostanziosissimi finanziamenti. Ciò è accaduto in Libia, Siria, Giordania, Yemen, Palestina, Tunisia. Ed Egitto. Prendendo in esame il caso egiziano, va sottolineato che Mubarak stava intraprendendo iniziative distensive nei confronti dell’Iran ed era tentennante riguardo all’accettare o meno i finanziamenti e le regole del Fondo Monetario Internazionale, di cui si era cominciato a dibattere per via della disastrosa condizione economica in cui stava versando il Paese. Washington aveva allora cominciato a prendere alcune contromisure, individuando proprio nei Fratelli Musulmani guidati dal cittadino egiziano-statunitense Mohamed Morsi gli interlocutori giusti e nella Turchia di Recep Tayyp Erdogan e nel Qatar (che ospita la sede centrale del Central Command e il Combined Air Operations Center degli Stati Uniti) dell’Emiro Hamad bin Khalifa al-Thani i loro sponsor ideali. Venne così attivato un massiccio fiume sotterraneo di denaro che portò nelle casse dell’Ikwan ben 10 miliardi di dollari forniti da Ankara e Doha. Con questi lauti finanziamenti la Fratellanza Musulmana riuscì inizialmente ad acquisire un crescente peso politico all’interno del Paese, e successivamente a “mettere il cappello” sulla rivoluzione, dopo che i militari ebbero deciso di appoggiare i rivoltosi deponendo Hosni Mubarak.

 

 

La caduta di Mubarak e l’ascesa degli Ikhwan

Solitamente viene molto enfatizzato il sostegno finanziario, pari a 1,3 miliardi di dollari, che gli Stati Uniti forniscono all’Egitto allo scopo di “dimostrare” le stretta osservanza, da parte dei militari, dal “verbo statunitense”. Raramente viene tuttavia preso in considerazione il fatto che tali finanziamenti non vengono erogati a fondo perduto, ma sono rigidamente subordinati all’acquisto di armamenti prodotti dalle grandi compagnie belliche statunitensi (Lockheed Martin, Boeing, Northrop Grummann, Raytheon, General Dynamics) e al rispetto degli accordi di Camp David del 1979 da parte delle autorità egiziane. L’importante, in parole povere, è che l’Egitto contribuisca al foraggiamento del complesso militar-industriale statunitense e a garantire la sicurezza di Israele, nonché a osteggiare i Paesi renitenti a sottostare ai dettami di Washington, come l’Iran.

La deposizione di Mubarak ad opera dei militari, datata 11 febbraio 2011, potrebbe quindi essere letta alla luce di questi presupposti, specialmente in virtù del fatto che tale cambio di regime comportò una repentina emersione dei più profondi sentimenti anti-israeliani in seno alla popolazione egiziana. La miccia venne innescata nell’agosto 2011, quando nel corso di un raid effettuato dall’aviazione israeliana sulla Striscia di Gaza rimasero uccisi (oltre alla consueta componente palestinese) alcuni militari egiziani schierati lungo la frontiera. La giunta militare egiziana protestò sonoramente ma Israele non fornì spiegazioni convincenti per giustificare l’accaduto, cosa che suscitò una feroce contestazione popolare culminata con l’assedio, avvenuto tra l’8 e il 9 settembre successivo, dell’ambasciata israeliana. Alcuni agenti israeliani sfuggirono di poco al linciaggio mentre il primo ministro Benjamin Netanyahu si affrettò a richiamare in patria il proprio ambasciatore al Cairo. Ciò contribuì a ravvivare la rovente polveriera del Sinai. Con la caduta di Mubarak e l’insediamento di Tantawi, il Sinai ridivenne il centro logistico da cui partono le incursioni da parte di miliziani palestinesi e di altri gruppi contro forze israeliane incaricate di sorvegliare la frontiera. Israele rispose inviando i bombardieri sul Sinai, provocando la morte di altri soldati egiziani. Per tutta risposta, il Feldmaresciallo Tantawi, rivolgendosi alle truppe dislocate nella penisola del Sinai, affermò che: «I nostri confini, soprattutto quelli a nord-est, sono infiammati. Noi non attaccheremo i paesi vicini, ma difenderemo il nostro territorio. Romperemo le gambe a chiunque tenterà di attaccarci o di avvicinarsi ai nostri confini» (4). Come se non bastasse, il regime del Cairo interruppe il flusso di gas diretto allo Stato ebraico, frantumando l’intesa energetica che vigeva tra i due paesi fin dal 2005, quando Mubarak aveva accordato ben 7 miliardi di metri cubi di gas ad Israele per i successivi 20 anni. Questa escalation di tensione portò l’ex capo del Consiglio per la Sicurezza di Israele Uzi Dayan ad affermare che «è giunta l’ora di porre il Sinai sotto il controllo israeliano» (5), mentre il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman, nel corso di una visita a Baku, gettò ulteriore benzina sul fuoco spingendosi a sottolineare il fatto che «L’Egitto rappresenta un pericoloso maggiore dell’Iran rispetto alla sicurezza nazionale israeliana» (6). Le autorità israeliane temono infatti che l’ascesa degli ambigui Fratelli Musulmani e dei salafiti del partito al-Nur (sostenuti dall’Arabia Saudita) possa culminare con la formazione di un governo nominato dal basso tutto incentrato sui movimenti fondamentalisti islamici animati da sentimenti radicalmente antisraeliani. Per “prevenire” questa eventualità, Tel Aviv elaborò e mise in atto un piano che prevede la costruzione di un muro di cemento armato di 240 km che, correndo lungo il confine orientale egiziano, dovrebbe estendersi dal Mar Rosso alla Striscia di Gaza. Tale barriera allungherebbe la “fascia di protezione” innalzata per ben 725 km in corrispondenza dei confini con la Cisgiordania.

La perdita di controllo del Sinai e la tensione con Israele testimoniano l’instabilità che scaturì dal rovesciato il vecchio regime, alimentata dal peculiare ed ambiguo dualismo venutosi rapidamente a creare tra la Fratellanza Musulmana di Mohammed Morsi da un lato e la giunta militare guidata dal Feldmaresciallo Mohammed Tantawi, che aveva agguantato le redini del potere, dall’altro. I Fratelli Musulmani del partito “Libertà e Giustizia” (molto simile al “Partito per la Giustizia e lo Sviluppo” del primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan), guidati da Mohamed Morsi, iniziarono a pretendere a gran voce che venissero indette nuove elezioni, certi di poter contare su di un vasto consenso popolare. Le elezioni decretarono la vittoria della Fratellanza Musulmana, che ottenne il 51% dei voti con un magro 50% di affluenza elettorale, ma i temporeggiamenti nel cedere i poteri a Morsi e la freddezza ostentata dai militari dinnanzi al verdetto delle urne irritarono fortemente gli Ikwan, i quali cominciarono, di concerto con altre fazioni, a scendere in piazza per protestare contro l’atteggiamento tenuto dalla giunta militare. La brutale repressione da parte dei militari e della polizia si protrasse per alcune settimane, finché il Feldmaresciallo Tantawi non decise di cedere alle forti pressioni esercitate dagli Stati Uniti – profondamente preoccupati anche dal fatto che Tantawi aveva autorizzato alcune navi da guerra iraniane a raggiungere il Mar Mediterraneo transitando attraverso il Canale di Suez –, accettando di lasciare a Morsi l’ambito incarico di presidente. Morsi, dal canto suo, decretò immediatamente il “pre-pensionamento” del Feldmaresciallo Tantawi, esponendo il proprio esecutivo al rischio di un colpo di Stato militare, e accettò l’invito del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad a partecipare al vertice dei “Paesi Non Allineati” (NAM). Così, nell’estate del 2012, a ben 57 anni dalla Conferenza di Bandung, numerosissimi Stati raggiunsero Teheran per prendere parte all’iniziativa.  Raggruppando 120 membri effettivi e 21 osservatori, il NAM rappresenta una parte preponderante dei paesi e dei cittadini di tutto il mondo. All’incontro parteciparono, in qualità di osservatori, il Commonwealth delle Nazioni, il Fronte di Liberazione Nazionale Socialista Kanak, l’Unione Africana, la Lega Araba, l’Organizzazione di solidarietà dei popoli afro-asiatici, il Movimento di Indipendenza Nazionale Hostosiano, l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica, il Centro Sud, il Consiglio Mondiale della Pace e diversi membri delle Nazioni Unite. Stati Uniti ed Israele deprecarono la partecipazione del segretario dell’ONU Ban Ki-Moon, il cui intervento, pur essendo improntato alla prudenza, conteneva comunque una chiara stigmatizzazione dell’oltranzismo guerrafondaio propugnato dai ben noti ambienti israeliani. Washington e Tel Aviv esercitarono forti pressioni su Mohamed Morsi, che in veste di leader della Fratellanza Musulmana e di presidente egiziano decise comunque di recarsi a Teheran dopo aver adottato una politica solo apparentemente conciliatoria con Mahmoud Ahmadinejad. L’ambiguità di Morsi è testimoniata dalla discordanza che vige tra l’appeasement nei confronti dell’Iran e il fatto che la sua ascesa al potere sia strettamente connessa ai miliardi di dollari di finanziamento erogati dall’Emiro del Qatar, nonché dalla feroce ostilità tanto di al-Thani quanto del suo “protetto” Morsi nei confronti della Siria di Bashar al-Assad, alleata di ferro della Repubblica Islamica dell’Iran. Va inoltre sottolineato che sotto la guida di Morsi, l’Egitto ha mantenuto i sigilli sulla frontiera con Gaza, sbarrando la strada ai palestinesi in perfetto accordo con Israele. Non era necessario il chiaro monito lanciato alle forze armate egiziane da parte da Washington, i cui rappresentanti avevano ribadito che il sostegno statunitense è subordinato al mantenimento del trattato di Camp David del 1979, dal momento che Morsi non avrebbe mai violato gli accordi siglati dai suoi predecessori con il beneplacito statunitense. L’avvicinamento di facciata all’Iran potrebbe quindi celare un piano ben più subdolo, volto a conquistare la fiducia dei dirigenti di Teheran in attesa del definitivo voltafaccia, in modo da trasformare l’Egitto in un autentico “cavallo di Troia” all’interno dell’alleanza sciita che collega Teheran, Beirut e Damasco. Si tratta di un modus operandi che la Fratellanza Musulmana ha già sperimentato attraverso la propria filiale palestinese di Hamas, che dopo aver militato per decenni assieme a Siria, Iran ed Hezbollah ha cambiato radicalmente paradigma cedendo alle lusinghe e ai petro-dollari del Qatar, schierandosi di fatto a favore dei “ribelli” intenzionati a rovesciare il regime di Assad. Non deve pertanto stupire che Khaled Meshaal, noto esponente di Hamas, si sia trasferito da Damasco a Doha, ponendosi sotto la “protezione” dell’Emiro al-Thani dopo aver ottenuto il “riconoscimento” implicito di Israele, che aveva accettato di barattare la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit con il rilascio di qualcosa come 1.027 prigionieri palestinesi (tra i quali non figurava il popolarissimo esponente filo-siriano del braccio armato di al-Fatah Marwan Barghouti). Dopo questi stravolgimenti, Hamas ha repentinamente avviato un processo di distensione con la Giordania (alleata degli Stati Uniti), che ha portato all’archiviazione dell’immane massacro di rifugiati palestinesi (il famoso “Settembre Nero”) ordinato da Re Hussein nel 1970, grazie alla visita di Meshaal presso la corte reale di Amman in seguito alla mediazione del Principe ereditario del Qatar. D’altra parte, anche il governo turco di Recep Tayyip Erdogan, capo di un partito che presenta numerose affinità con la Fratellanza Musulmana egiziana, ha effettuato una drastico voltafaccia nei confronti di Bashar al-Assad dopo aver intessuto rapporti economici e politici di grande rilievo con Damasco.

Ma ad avvalorare l’ipotesi secondo cui Morsi avrebbe sfoggiato deliberatamente questo atteggiamento estremamente ambiguo in funzione puramente tattica è intervenuto il Fondo Monetario Internazionale, che ha reagito alla notizia della convocazione del presidente egiziano da parte di Teheran accettando improvvisamente, dopo mesi e mesi di titubanze, di negoziare la concessione di un corposo prestito. La situazione economica egiziana era effettivamente catastrofica, aggravata peraltro dalle fallimentari ricette somministrate dalla Fratellanza Musulmana. Morsi e i suoi seguaci hanno preteso di trasformare un Paese come l’Egitto, cioè una nazione giovane, popolosa (85 milioni di persone), controllata da un esercito molto potente ed economicamente basata sul turismo, in uno Stato islamizzato dominato da estremisti religiosi succubi dei petro-dollari del Qatar. Non deve pertanto stupire che il settore terziario sia crollato per effetto del crollo del turismo, la disoccupazione sia aumentata del 30%, i prezzi sono cresciuti del 40%, la lira egiziana si sia svalutata della metà e le riserve di valuta pregiata siano quasi esaurite. L’Egitto necessitava quindi di finanziamenti dall’estero per rimanere a galla, e Morsi puntava proprio ad ottenere denaro dal Fondo Monetario Internazionale, nonostante i suoi “programmi di aggiustamento strutturale” abbiano prodotto disastri economici in tutte le aree del pianeta.

 

 

La cospirazione dei militari e l’impotenza statunitense

Una fazione piuttosto corposa dei militari, dal canto suo, non vedeva affatto di buon occhio l’entrata in campo del FMI e l’ambigua, rischiosa politica estera condotta da un governo che ogni giorno di più stava dimostrandosi completamente asservito ai qatarioti, mentre in seno alla popolazione stava montando un crescente malcontento, dovuto alla drammatica condizione dell’economia nazionale e all’impressionante avidità dei Fratelli Musulmani saliti al potere, i quali si stavano prodigando unicamente di accentrare il potere allo scopo di consolidare la propria posizione all’interno del Paese. I militari cominciarono allora ad attivare i propri autonomi canali diplomatici per elaborare soluzioni alternative alla deriva in cui Morsi stava trascinando l’Egitto, prendendo in considerazione anche l’opportunità di sganciarsi dal legame con Washington in virtù del fatto che in realtà l’Egitto, Paese che ha una discreta industria militare, avrebbe anche potuto fare a meno di finanziamenti vincolati all’acquisto di armamenti statunitensi. Il ministro della Difesa, nonché capo dell’esercito, Abdul Fatah al-Sisi (che ama definirsi “nasserista”) siglò allora un accordo segreto con l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo Persico intenzionate a ridimensionare le sconfinate manie di grandezza dell’Emiro al-Thani, in base al quale questi ricchi Paesi avrebbero assicurato all’Egitto sostegno finanziario nel caso in cui Barack Obama avesse sospeso il versamento degli 1,3 miliardi di dollari annuali come ritorsione per la cacciata del cavallo su cui avevano puntato, cioè Mohamed Morsi. Così, quando il malcontento popolare ha raggiunto il punto di rottura e orde sconfinate di manifestanti hanno occupato piazze e strade delle principali città egiziane, esercito e polizia hanno colto al volo l’occasione per cavalcare la protesta, lanciare un secco ultimatum al governo e infine procedere, il 3 luglio 2013, alla rimozione (e al conseguente arresto) di Morsi, all’inclusione della Fratellanza Musulmana nel novero delle organizzazioni terroristiche, all’oscurazione dell’emittente qatariota “al-Jazeera” (volta a impedire che gli Ikhwan udissero ed applicassero le fatawa del potente e seguitissimo telepredicatore al-Qaradawi), all’imposizione della legge marziale e alla nomina del magistrato Adli Mansour come presidente ad interim, del filo-statunitense Mohamed el-Baradei come vicepresidente e dell’economista Hazem el-Beblawi come primo ministro.

Questo colpo di Stato militare, pur attuato con il consenso di gran parte della popolazione e delle forze istituzionali egiziane, ha spinto i Fratelli Musulmani a chiamare a raccolta tutti i propri sostenitori esortandoli alla resistenza armata contro le forze golpiste, di fronte alla quale esercito e polizia hanno risposto usando il pugno di ferro, provocando le dimissioni di el-Baradei. L’odio settario nei confronti di tutte le altre fedi religiose che caratterizza gli Ikhwan è emerso in tutta la sua tragicità nel momento in cui, subito dopo la chiamata alle armi da parte dei maggiori esponenti del movimento, numerosi militanti si sono abbandonati all’assalto di chiese copte e alla truci dazione di cittadini cristiani e sciiti. L’entità della violenza sprigionata ha fatto in modo che nell’arco di pochi giorni cadessero centinaia di cittadini e poliziotti egiziani.

Dal Pentagono e dal Dipartimento di Stato, Chuck Hagel e John Kerry hanno duramente condannato sia il colpo di Stato a danno del loro uomo che la repressione attuata da esercito e polizia, mentre Barack Obama ha annunciato l’abolizione dell’operazione militare Bright Star 2013, in programma per il mese di settembre con la partecipazione di migliaia di militari di Stati Uniti e altri Paesi, e minacciato la sospensione del finanziamento annuale da 1,3 miliardi di dollari. L’esercito egiziano si è tuttavia potuto permettere di ignorare le proteste e le intimazioni statunitensi potendo contare sul sostegno promesso da Arabia Saudita e dalle altre monarchie del Golfo Perisco, che entro la metà di luglio hanno inviato ben 6 miliardi di dollari in aiuti, prestiti e carburanti. Secondo quanto affermato dal ministro delle Finanze saudita Ibrahim al-Assaf, i finanziamenti forniti da Riad comprenderebbero 1,5 miliardi di dollari di deposito presso la Banca Centrale egiziana , 1,5 miliardi di dollari in prodotti energetici e 750 milioni di dollari in contanti, mentre gli Emirati Arabi Uniti avrebbero versato i restanti 2 miliardi. D’un colpo, Washington, che aveva attivamente sostenuto Morsi e tutti gli islamisti del Medio Oriente, si è resa conto di non disporre di validi strumenti di dissuasione per influenzare le mosse del nuovo leader al-Sisi. Il Pentagono, dal canto suo, non ha potuto far altro che inviare, a scopo puramente intimidatorio, la USS Kearsarge e l’USS San Antonio, piene di marines, verso le coste egiziane lambite dal Mar Rosso. Il che significa che per i centri decisionali statunitensi l’affaire egiziano deve aver indubbiamente rappresentato un potente ed inaspettato shock.

 

 

Lo sgretolamento della Fratellanza: la caduta di al-Thani e il ridimensionamento di Erdogan

 La complessa manovra volta a detronizzare i Fratelli Musulmani messa in piedi dall’Arabia Saudita rientra in un più ampio disegno strategico, elaborato allo scopo non solo di ridimensionare le brame espansionistiche del Qatar e riaffermare la leadership di Riad all’interno del Consiglio per la Cooperazione del Golfo, che riunisce tutte le monarchie che si affacciano sul Golfo Perisco (Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrain e Oman), ma forse anche di rivedere i termini  i termini dell’alleanza con gli Stati Uniti. Il 13 luglio 2013, Re Abdullah ha inviato il principe Bandar (direttore dei servizi segreti) a Mosca per incontrare il presidente russo Vladimir Putin. Fonti russe rivelano che Riad avrebbe proposto un accordo in base al quale l’Arabia Saudita, oltre ad aver garantito che nessun Paese membro del Consiglio per la Cooperazione del Golfo avrebbe mai intaccato l’egemonia russa sul mercato energetico europeo, si sarebbe impegnata ad acquistare ben 15 miliardi di dollari di armamenti russi, in cambio della rinuncia al sostegno del regime di Bashar al-Assad da parte di Mosca. A quanto si sa, Putin avrebbe declinato la proposta, ma appare piuttosto significativo il fatto che, subito dopo l’incontro, lo stesso principe Bandar sia stato invitato a Washington per un colloquio diretto con il presidente Barack Obama. Secondo quanto riporta il sito “Debka File”, assai vicino al Mossad, al 16 agosto «Il principe Bandar non ha ancora risposto all’invito» (7). Si tratterebbe di una mossa piuttosto inusuale per un regime solitamente assai fedele ai dettami di Washington.

Riflettendo sull’operato di Riad, il lucido analista William Engdahl scrive che: «La coraggiosa decisione saudita di agire per fermare ciò che percepisce come la disastrosa strategia islamica statunitense nel sostenere le rivoluzioni della Fratellanza Musulmana in tutto il mondo islamico, ha inferto un duro colpo alla folle strategia statunitense di credere di poter utilizzare la Fratellanza come forza politica per controllare più strettamente il mondo islamico e usarlo per destabilizzare la Cina, la Russia e le regioni islamiche dell’Asia centrale. La monarchia saudita cominciava a temere che la Fratellanza segreta sarebbe balzata un giorno anche contro il suo governo. Non ha mai perdonato a George W. Bush e Washington di aver rovesciato la dittatura laica del partito Baath di Saddam Hussein in Iraq, che ha portato la maggioranza sciita al potere, né la decisione degli USA di rovesciare lo stretto alleato dell’Arabia saudita, Mubarak in Egitto. Da esemplare “Stato vassallo” degli USA in Medio Oriente, l’Arabia Saudita si è ribellata il 3 luglio sostenendo e supportando il colpo di Stato militare in Egitto» (8).

Quanto al Qatar, va sottolineato che alcune stime quantificano in 6 miliardi di dollari i finanziamenti che l’Emiro al-Thani avrebbe inviato ai Fratelli Musulmani egiziani e in altri 7 miliardi gli “aiuti” che Doha avrebbe messo a disposizione degli Ikwan in Giordania e di altri gihadisti in Libia e Siria. Il “prestigio” che il Qatar si era ritagliato nei due anni precedenti era strettamente connesso ai finanziamenti e al sostegno militarmente fornito ai guerriglieri islamisti protagonisti della guerra contro la Giamahiriya di Muhammar Gheddafi, e all’esito di tale scontro. Successivamente, le brame di al-Thani hanno cominciato a vertere sulla riproposizione del “modello-Libia” in Siria e sull’acquisizione dell’influenza su di un Paese cruciale come l’Egitto, ma con il sostanziale fallimento della lunga ed estenuante aggressione che le bande islamiste supportate da Doha (e da Washington, Riad, Ankara, Parigi e Londra) hanno condotto contro il regime di Bashar al-Assad e, soprattutto, con la caduta del proprio “pupillo” Morsi, l’Emiro Hamad bin Khalifa al-Thani ha constatato il fallimento della propria politica estera – per sostenere la quale aveva profuso notevolissimi sforzi finanziari – e deciso di abdicare a beneficio di suo figlio Tamim, il quale ha immediatamente congedato il primo ministro Hamad bin Jassim al-Thani, ovvero l’artefice dell’ambiziosa strategia internazionale imperniata sull’appoggio alla Fratellanza Musulmana e , più in generale, sull’ostilità nei confronti dei regimi nazionalisti (Libia, Siria) e sciiti (Iran). La nuova dirigenza qatariota appare molto più attenta ai propri affari interni, ed è presumibile che abbandonerà le velleità imperialistiche che hanno caratterizzato i propri predecessori per dedicare tutti gli sforzi necessari alla preparazione del Paese ad ospitare i mondiali di calcio del 2022.

Anche la Turchia di Erdogan, altro pilastro del sostegno alla Fratellanza Musulmana, ha dovuto ridimensionare le proprie aspirazioni. Dopo un lungo periodo di consenso elettorale fondato essenzialmente sulla crescita economica maturata in un contesto regionale pacifico costruito in base alla necessità, segnalata dal ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, di «avere zero problemi coi vicini», i nodi della “questione turca” sono cominciati a venire progressivamente al pettine; all’infiammarsi dell’irrisolta “questione curda”, al rancore sotterraneo maturato tra le forze armate e parte consistente della magistratura e ai malumori delle componenti più “laiche” e conservatrici della società (come i “Lupi Grigi”), le quali rifiutano di accettare ogni sia pur cauto e moderato provvedimento di apparente islamizzazione, è andato a sommarsi il forte rallentamento dell’economia (con una crescita che è passata dal 9 al 2,2%), causato in buona parte dalla rottura delle relazioni con la Siria e dall’isolamento regionale imputabile alla politica aggressiva condotta da Erdogan. Tale crescita, per di più, è caratterizzata da poderose campagne di privatizzazione e da una febbre edilizia che ha coperto di cemento anche le aree boschive del Bosforo e delle regioni più interne. Seguendo il mito della globalizzazione, Erdogan ha fatto approvare una legge che elimina la protezione giuridica ai parchi nazionali turchi, in seguito alla quale ha progressivamente trasformato interi quartieri delle principali città costiere in giganteschi villaggi turistici nuovi di zecca, obbligando i vecchi residenti a trasferirsi verso le periferie. Interi rioni risalenti agli inizi del ’900 sono stati “ristrutturati” o demoliti per far posto a nuove strutture atte a “favorire il turismo”. Ordinando l’abbattimento di 600 alberi nell’ambito di un progetto volto a sostituire un parco con un enorme centro commerciale (sul quale aleggia un forte sospetto di tangenti, alla luce del fatto che il sindaco di Istanbul, esponente dell’AKP, è proprietario di una catena di negozi ed ha già ottenuto i diritti per installare in tale centro i propri punti vendita, senza contare che il genero di Erdogan si è aggiudicato il contratto per lo sviluppo immobiliare dell’intera area), ha manifestato con estrema chiarezza l’intenzione di trasformare una città millenaria come Istanbul in una delle tante megalopoli ultra-pacchiane stile Doha. Istanbul (come diverse altre città turche) è costellata di rovine greche, romane, bizantine, ottomane, ortodosse e islamiche che rischiano di essere sostituite da giganteschi centri commerciali ed edifici moderni commissionati alle più celebri stelle occidentali dell’architettura. Il che non può che suscitare un forte malcontento in seno alla popolazione turca, così come la politica imperialista – e non imperiale – impropriamente definita “neo-ottomana”. La “Sublime Porta” era riuscita a inglobare e far convivere decine di etnie e popoli diversi, mentre l’attuale Turchia, con la sua alleanza di fatto con Qatar e Arabia Saudita e il suo appoggio ai guerriglieri islamisti più feroci, sta facendo l’esatto contrario: sta promuovendo il settarismo e allargando la faglia che divide le molteplici “placche” religiose di cui è formato l’Islam. E a favorire questo processo è il primo ministro di un Paese costituito a sua volta da una notevole gamma di etnie e religioni diverse (50% circa sunniti, 20% alawiti, 20% curdi – principalmente sunniti –, il 10% appartiene ad altre minoranze). Non è quindi un caso che, secondo i sondaggi, ben 70 turchi su 100 disapprovino la politica aggressiva di Erdogan nei confronti della Siria. Il noto giornalista Thierry Meyssan ritiene a questo proposito che Erdogan abbia adottato il programma della Fratellanza Musulmana, il movimento finanziato e sostenuto dal Qatar che dall’Egitto alla Siria alla Giordania propugna una visione di Islam compatibile con gli interessi strategici degli Stati Uniti e dei loro alleati. «Mostrando la sua vera natura – scrive Meyssan – (di Fratello Musulmano sotto vesti “neo ottomane”) il governo Erdogan ha tagliato i ponti con la sua popolazione. Solo una parte minoritaria di sunniti può riconoscersi nel programma ipocrita e retrogrado dei Fratelli Musulmani» (9).

 

 

Conclusioni

Il colpo di Stato militare a danno della Fratellanza Musulmana sembra essere supportato da gran parte della popolazione e dei partiti, sia dai salafiti di al-Nur che dagli esponenti delle fazioni marxiste. Il golpe del generale al-Sisi avviene quindi sulle ceneri del malridotto Ikhwan, che dopo un lungo periodo di ascesa, connessa facoltosi agganci internazionali di Morsi e della sua cricca, è caduto vittima delle proprie colossali inadeguatezze intrinseche nell’ambito di un feroce conflitto internazionale contrassegnato dal continuo ed apparentemente inarrestabile arretramento statunitense, aggravato dalla fallimentare strategia di politica estera condotta da Barack Obama, che con l’appoggio alle “primavere arabe”, la guerra alla Libia e il potenziamento dell’Africa Command (AFRICOM) ha palesemente cercato di sbarrare la strada all’avanzata cinese nel “continente nero”, per poi spingersi a cingere d’assedio la Cina sia stringendo una serie di accordi militari con numerosi Paesi dell’Estremo Oriente, sia integrando Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam in una “area di libero scambio” meglio nota come Trans Pacific Partnership (TPP) allo scopo di isolare economica il “Paese di mezzo”.

Il fallimento delle “primavere arabe”, la tenace resistenza siriana sostenuta dalla Russia, la crescita complessiva della Cina, l’emersione di una serie di scandali (fatti emergere da Bradley Manning, Julian Assange e Edward Snowden) hanno infatti decretato la debacle dell’amministrazione Obama, messa sotto accusa anche in patria da diversi esponenti del partito Repubblicano per aver attaccato la Libia senza l’autorizzazione del Senato, per la scandalosa gestione (l’intelligence russa ha dimostrato che i servizi segreti statunitensi avevano messo in allerta la Casa Bianca riguardo ai pericoli legati a questa faccenda, ma Obama tenne il Congresso all’oscuro di tutto) dell’oscura vicenda in cui l’ambasciatore statunitense Christopher Stevens a Bengasi rimase ucciso ad opera di islamisti debitamente armati e sostenuti da Washington e per il sostegno accordato ai “ribelli” siriani – resisi responsabili di atti indescrivibili (come mangiare gli organi dei soldati siriani caduti in combattimento) –, nonché per aver nascosto al Congresso le prove schiaccianti che dimostravano il coinvolgimento tra il Qatar di al-Thani e al-Qaeda. Costretto sulle difensive, Obama ha dovuto ammettere sia di aver spiato illegalmente nemici, alleati e compatrioti, sia di aver consapevolmente collaborato con un regime che sosteneva attivamente i terroristi (non è certo una novità) prima di abbandonarlo, decretando così il suo crollo e privando automaticamente la Fratellanza Musulmana egiziana del suo fondamentale sponsor e finanziatore. Erdogan, dal canto suo, si è trovato a dover rendere conto a una popolazione assai infastidita dall’affarismo che contraddistingue diversi esponenti del partito AKP, dalla sue velleità aggressive e dall’aver trasformato la regione meridionale del Paese in una gigantesca zona di addestramento e di transito per islamisti provenienti da mezzo mondo.

Il regime di Bashar al-Assad, al contrario, è riuscito, usufruendo dell’appoggio russo, a resistere alla conflitto interno aizzato da Stati Uniti, Turchia e Qatar in primis, anche grazie all’apporto fornito da Hezbollah, scesa in campo per evitare che un simile bagno di sangue potesse verificarsi anche in Libano. Supportando con tale ostinazione Damasco, la classe dirigente russa si è dimostrata ben consapevole che la caduta di Assad avrebbe spezzato, nel suo punto centrale, la corda tesa dell’arco sciita che collega Teheran a Beirut, innescando un incendio suscettibile di investire l’intero Medio Oriente (Libano, Iraq, Iran e Giordania) e di dilagare nel Caucaso, rinfocolando conflitti mai sopiti (Cecenia, Daghestan, Nagorno-Karabakh) capaci di intaccare la sovranità russa sulle sue regioni meridionali e alimentare il settarismo religioso, aggravando tragicamente la fitna che separa gli sciiti dai sunniti.

In tutto questo marasma, l’Egitto si trova al centro della contesa, sia per la sua notevole demografia, sia per via della sua vantaggiosissima posizione geostrategica, sia perché tocca da vicino gli interessi israeliani. La defenestrazione dei Fratelli Musulmani, su cui gli Stati Uniti hanno modellato tutta la propria strategia per il Medio Oriente, appare come un primo sussulto di indipendenza dopo decenni di ininterrotta subordinazione.

Lo stesso al-Sisi ha rivelato pubblicamente di aver ricevuto, mentre erano in corso i disordini con i Fratelli Musulmani, svariate telefonate da parte del presidente degli Stati Uniti Barack Obama e di non aver mai risposto. Qualora l’Egitto dovesse assecondare l’orientamento “nasserista” che il generale al-Sisi sostiene di professare, il Cairo potrebbe verosimilmente legare il proprio destino all’asse “non allineato” Iran-Siria-Hezbollah (ed Iraq), riconfigurando definitivamente i rapporti di forza regionali a scapito delle monarchie del Golfo Persico e fornendo in tal modo un contributo a ridisegnare i futuri assetti geopolitici planetari in un mondo che sembra essere irreversibilmente avviato verso il multipolarismo.

 

 

 

1. Mahdi Darius Nazemroaya, Israeli-US Script: Divide Syria, Divide the Rest, http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=32351.

2. “Financial Times”, 2 marzo 2005.

3. “Il Manifesto”, 17 luglio 2012.

4. “Infopal”, 24 aprile 2012.

5. “The European Union Times”, 11 agosto 2011.

6. “The Times of Israel”, 22 aprile 2012.

7. “Debka File”, Saudi King Abdullah backs Egypt’s military ruler, warns against outside interference, http://www.debka.com/article/23197/US-Egyptian-relations-on-the-rocks-El-Sisi-wouldn%E2%80%99t-accept-Obama%E2%80%99s-phone-call.

8. William Engdahl, Saudi’s unprecedent  break with Washington over Egypt, http://www.globalresearch.ca/saudis-unprecedented-break-with-washington-over-egypt/5343092.

9. Thierry Meyssan, Soulèvement contre le Frère Erdoganhttp://www.voltairenet.org/article178820.html

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UNA GUERRA IN SIRIA SAREBBE CATASTROFICA

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La crisi siriana sta entrando in una fase caldissima e, per la prima volta dal marzo 2011, sembra aver imboccato la strada del non ritorno verso un rischiosissimo crescendo di tensione militare. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia hanno già fatto sapere di aver preso seriamente in considerazione l’ipotesi di intervenire direttamente attraverso la Nato per colpire il regime del presidente Assad dopo che, a detta loro, sarebbe ricorso all’utilizzo di armi chimiche contro la popolazione civile.

Eppure, a cominciare dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, sono in molti a nutrire seri dubbi in merito alle recenti accuse mosse contro il governo siriano. Obama, Hollande e Cameron, difatti, non hanno atteso nemmeno la conclusione delle indagini della commissione Onu ospitata a Damasco che ha cominciato proprio oggi il suo lavoro al fine di verificare la presenza di residui chimici nelle aree dei recenti scontri e di stabilire le responsabilità dell’eventuale crimine di guerra.

I satelliti militari russi avrebbero individuato nei covi dei ribelli i luoghi di provenienza dei lanci di armi chimiche, notizia che pare confermata dal ritrovamento, alcuni giorni fa, di notevoli quantitativi di tali ordigni nei rifugi delle forze antigovernative da parte dell’esercito siriano e di alcuni hezbollah libanesi. Gli unici operatori sul campo a smentire la versione governativa sono gli attivisti di Medici senza frontiere, ong che afferma di aver curato alcune centinaia di persone che presentavano sintomi neurotossici senza, però, poter dimostrare la loro versione dei fatti.

 

Le minacce della Nato

«È troppo tardi», ha tuonato il presidente statunitense Barack Obama considerando ampiamente superata la linea rossa fissata un anno fa. Nel frattempo ha rinforzato la VI flotta della Marina nel Mediterraneo. Il presidente francese Hollande, da giorni molto attivo sul fronte interventista, ha ribadito che «è necessaria una reazione forte contro Assad». Il primo ministro britannico David Cameron ha ricordato come il suo Paese non si tirerà indietro di fronte ad una risposta «ormai necessaria» contro il governo siriano.

Insomma le trombe di guerra sono squillate ma pochissimi sembrano voler fare davvero i conti con la realtà del teatro di guerra che si andrebbe a comporre nel caso in cui le prime tre potenze nucleari occidentali dovessero intervenire in Siria. La scontata reazione della Russia, principale alleato di Assad, non si è fatta attendere: il ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha esortato gli Stati Uniti ad evitare gli errori del passato con un esplicito riferimento al primo mandato Bush jr quando, con documentazioni poi rivelatesi inattendibili, aggredirono l’Iraq di Saddam Hussein accusato di detenere un intero arsenale di armi di distruzione di massa, in realtà mai rinvenuto. Tuttavia la reazione più dura è quella dell’Iran che, per voce del vice-capo di stato maggiore Massod Jazayeri, fa sapere che un attacco contro la Siria avrebbe «serie conseguenze per la Casa Bianca».

Secondo le prime indiscrezioni, le operazioni militari dovrebbero seguire le modalità già osservate in Libia. Allora l’operazione Odissey Dawn registrò un massiccio bombardamento aeronavale iniziale, seguito poco dopo dalle incursioni aeree dell’Alleanza contro obiettivi ritenuti sensibili. I danni furono incalcolabili e, come ormai sappiamo, interi quartieri di città importanti (soprattutto Sirte, Bengasi e Tripoli) furono rasi al suolo da centinaia di raid condotti dalla Nato. Per di più il supporto logistico fornito alle forze ribelli non teneva conto della massiccia presenza tra le loro file dei miliziani di al-Qaeda che, ai comandi del salafita Mokthar Belmokhtar, l’anno seguente avrebbero assaltato l’Algeria e il Mali costringendo la Francia ad un’intensiva operazione antiterrorismo.

Anche in Siria si calcola che la presenza islamista all’interno dell’Esercito libero siriano si attesti tra il 65% e l’85%. Sei brigate su otto stanno lottando per rimpiazzare l’ordinamento politico multiconfessionale governato da Assad con uno Stato fondato su un’interpretazione eterodossa e settaria della sharia sostenuto dall’Arabia Saudita. Tra queste organizzazioni, quelle più note e agguerrite sono il Movimento per lo Stato islamico di Siria-Iraq (Isis) e il Fronte al-Nusra, entrambe filiazioni della fazione irachena di al-Qaeda direttamente ai comandi di Ayman al-Zawahiri.

 

I fronti di guerra e il fattore-chiave iracheno

Fermo restando lo scenario politico odierno, i due fronti che si andrebbero componendo vedrebbero Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia schierate contro la Siria in un conflitto aeronavale sulle coste orientali del Mediterraneo. L’annuncio di Jazayeri lascia intendere che l’Iran interverrebbe immediatamente in difesa di Assad, anche sfruttando l’accordo di cooperazione militare concluso lo scorso ottobre dall’allora ministro della Difesa Ahman Vahidi con l’Iraq di al-Maliki chiudendo definitivamente uno dei capitoli più spinosi del secolo scorso, ossia quello del conflitto iracheno-iraniano.

A spingere l’Iraq verso l’Iran non è stato soltanto il ritiro delle ultime truppe occidentali dal Paese ma anche l’atteggiamento aggressivo della Turchia che nel corso degli ultimi anni ha più volte violato la sovranità aerea del vicino per intervenire contro i curdi iracheni. A tal proposito, stando all’annuncio del ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoğlu, Ankara ha già fatto sapere di volere far parte di qualsiasi coalizione militare dovesse formarsi contro la Siria. Gli interessi turchi nel Medio Oriente arabo sono ancora molto forti e il supporto garantito al sedicente governo siriano in esilio indica che difficilmente Erdoğan si farà condizionare dal dissenso interno espresso dai partiti kemalisti.

Sebbene con interessi divergenti, alla Turchia si affiancherebbero anche le monarchie del Golfo a cominciare dall’Arabia Saudita, storicamente impegnata a finanziare il jihadismo salafita con l’obiettivo di eliminare l’Iran sciita, considerato dalla setta wahhabita alla stregua di “un tempio dell’eresia” al pari dei Paesi kāfir, ossia “infedeli”.

Da valutare il ruolo di Israele, a lungo diviso al suo interno da un’aspra polemica tra interventisti e neutralisti, ma senz’altro interessato ad eliminare Assad per isolare l’Iran in Medio Oriente. Lo scorso 5 maggio l’aviazione di Tel Aviv aveva colpito un deposito militare nel centro di Damasco con un raid aereo improvviso, mentre lo scorso 5 luglio i caccia israeliani hanno attaccato un altro deposito presso il porto di Latakia nel presumibile tentativo di distruggere alcuni missili Yakhont di produzione russa. Recentemente Netanyahu si è unito al coro di Obama e Hollande, puntando il dito contro Assad e rimarcando i timori che l’Iran possa ricavare prestigio e credibilità internazionale dalla crisi siriana.

Sullo sfondo del fronte pro-Assad rimarrebbe presumibilmente invariata proprio la posizione del Cremlino, primo fornitore militare della Siria sin dagli anni Settanta. I sistemi missilistici antiaerei S300 garantiti alla Siria lo scorso maggio rappresenterebbero uno dei principali ostacoli per l’aviazione della Nato che, diversamente dalla guerra in Libia, stavolta sarebbe costretta a ricorrere anche ai caccia F22 oltre che ai tradizionali F16. Le caratteristiche stealth dell’F22 aumenterebbero le capacità di penetrazione nello spazio aereo siriano ma non garantirebbero alcuna certezza di successo in battaglia. Ecco che si farebbe largo, dunque, l’asso nella manica dell’aviazione statunitense, il terrificante (e costosissimo) bombardiere strategico B-2, già utilizzato per lo sfondamento nelle prime fasi delle operazioni Allied Forces (Serbia), Enduring Freedom (Afghanistan), Iraqi Freedom (Iraq) e Odissey Dawn (Libia).

I grandi passi in avanti fatti dall’industria militare iraniana con la presentazione del nuovo drone Hamaseh lo scorso 9 maggio si sposano alle capacità aeree difensive messe in evidenza lo scorso 13 maggio, quando un caccia della Repubblica Islamica ha intercettato e seguito lungo gran parte del suo percorso un drone statunitense in volo sopra le acque del Golfo Persico. Risulterebbero pressoché inutili, perciò, i celebri velivoli automatici finora ampiamente utilizzati dall’amministrazione Obama con risultati molto criticati per le numerose vittime civili provocate in Pakistan, Afghanistan e Yemen tra il 2010 e il 2013.

Ipotizzando che Maliki garantisca la sua collaborazione “esterna” all’Iran (anzitutto in funzione antisaudita e antiturca), Tehran potrebbe inoltre dispiegare un’enorme forza terrestre principalmente composta dai Pasdaran ed una consistente forza navale nel caso in cui l’Arabia Saudita non si limitasse alla sola concessione delle sue installazioni alla Nato, ma intervenisse attivamente nel conflitto. In quella circostanza le basi navali iraniane di Bandar Abbas, Bandar Khomeini e Bandar Lengeh sarebbero pronte ad entrare in azione mobilitando almeno diecimila unità della Marina e circa cinquemila fanti di marina dei Pasdaran. Solida resterebbe la capacità di appoggio sul Libano dove Hezbollah, già presente in Siria, assicura assoluta fedeltà alla causa sciita.

Più distanti dallo scenario bellico, e non solo geograficamente, resterebbero la Cina – che negli ultimi anni ha già fornito alla Siria missili antinave CSS-C-3, missili anticarro HJ-8 e lanciamissili multipli – e la Corea del Nord, che già ha assicurato all’Esercito di Assad diversi missili balistici tattici SS21 (Scarab) e alcuni missili balistici a medio raggio Rodong-1.

 

Conseguenze

Il pericoloso intreccio di interessi contrapposti spingerebbe l’intera regione mediorientale in una spirale di conflitti dalle conseguenze assolutamente imprevedibili ma senz’altro catastrofiche in primo luogo per le popolazioni civili e in secondo luogo per l’elevata probabilità che lo Stretto di Hormuz si paralizzi e che l’intero traffico commerciale proveniente dal Golfo sia seriamente compromesso dalle operazioni belliche con ingenti danni economici per tutto il mercato mondiale.

La presenza di numerose brigate salafite nel contesto siriano deve inoltre preoccupare anche l’Europa dal punto di vista della sicurezza collettiva e della legalità. La deposizione di Morsi in Egitto e la repressione della Fratellanza musulmana non hanno che scalfito il rischio della proliferazione dell’islamismo, aumentandone le proporzioni nel lungo termine, allorquando gli interessi sauditi dietro il golpe del generale al-Sisi andranno ad appalesarsi con maggiore nitidezza.

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TENSIONI IN EGITTO, EGIZIANI IN ITALIA

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In queste ultime settimane l’Egitto e i suoi circa 84.550.000 abitanti parrebbero dilaniati da due forze uguali e contrarie che non cessano di esercitare pressione su un paese già in ginocchio. Da un lato una sorta di forza centrifuga verso una qualche forma di cambiamento, evidente nel susseguirsi ininterrotto di avvenimenti eclatanti e in parte contraddittori, dall’altro una forza centripeta che, a prima vista, sembra gettare il paese indietro nel tempo, verso uno status quo precedente alle dimissioni di Hosni Mubarak dell’11 febbraio 2011.

Il quadro complessivo che emerge dall’interazione di queste due forze e dall’interpretazione che di esse ne danno i vari attori in gioco non può essere sottovalutato da nessuno, e merita invece di essere lucidamente analizzato nelle sue cause e nelle possibili conseguenze che delineeranno, nel bene e nel male, una nuova fase della vita politica di uno tra i paesi africani a noi più vicini, non solo dal punto di vista geografico.

L’Italia ospita più di 90.000 egiziani, senza contare gli appartenenti alle seconde o, in qualche caso, terze generazioni già in possesso della cittadinanza italiana, e gli sbarchi di questa estate sulle coste meridionali stanno facendo crescere tale numero. E’anche per questa ragione che la mediterranea Italia, per certi versi ancora prima di Stati Uniti ed Unione Europea, deve sviluppare la lucidità politica adeguata a comprendere le complesse dinamiche oggi in fieri nel paese di provenienza di questi migranti, abbandonando la cronaca sui tanti turisti italiani tratti prontamente in salvo dai discutibili pericoli presenti nei lussuosi alberghi sul Mar Rosso, e ascoltando invece le voci di chi è egiziano qui ed ora. Occorre acquisire la consapevolezza che sponda sud e sponda nord del mare nostrum sono oggi più interdipendenti di quanto siano portati a pensare molti italiani.

 

Le ultime, concitate settimane

 

A seguito delle numerose proteste degli ultimi mesi della presidenza di Mohamed Morsi, il primo luglio 2013 il Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate Abd el-Fattah el-Sisi legge alla televisione di stato Ertu il comunicato contenente un ultimatum a Morsi ed al suo partito Hurriyat wa ‘Adala, Libertà e Giustizia, sollecitandolo ad assumersi le proprie responsabilità e rispondere alle richieste del popolo in tempi molto rapidi. L’invito non troppo velato è a dimettersi.

La scadenza dell’ultimatum è prevista per le ore 17.30 di martedì 2 luglio, ma poco prima di questo termine  Morsi rifiuta di dimettersi ed apre invano ad un governo di coalizione per arrivare alle prossime elezioni, nonché alla formazione di un commissione indipendente per la modifica della Costituzione, che proprio lui aveva rinnovato autonomamente a sua favore nel dicembre 2012.

Le adunate degli oppositori di Morsi proseguono, raggiungendo numeri a dir poco differenti a seconda che si guardi alle fonti dei militari o a quelle dei Fratelli Musulmani: in piazza vi sarebbero 17 milioni di persone secondo l’esercito, 500 mila secondo l’organizzazione fondata nel 1928 da Hasan al-Banna.

Mercoledì 3 luglio Mohamed Morsi, primo presidente democraticamente eletto dell’intera storia egiziana, viene deposto e messo in stato d’arresto, la Costituzione sospesa, e il presidente ad interim è ora Adli Mansour, già Presidente della Suprema Corte Costituzionale.

Dopo alcune ore nelle quali piazza Tahrir viene inondata dalla gioia degli oppositori del presidente deposto, gli scontri tra questi ultimi e coloro che invece accusano i militari di un golpe illegittimo ed antidemocratico si riaccendono al Cairo, ad Alessandria, ad Ismailia, a Tanta, per poi propagarsi velocemente ed arrivare, seppur in forma ridotta e più pacifica, fino alla città turistica di Hurgada, sulla costa africana del Mar Rosso.

Dopo aver atteso la fine dei festeggiamenti per l’Eid al-Fitr, la festa di rottura del digiuno che conclude il mese sacro di Ramadan, l’esercito proclama un nuovo ultimatum, questa volta ai manifestanti pro-Morsi nelle piazze, e promette che inizierà a sgombrare i presidi degli oppositori a partire dall’alba dell’11 agosto.

I manifestanti resistono ed il 14 agosto il mondo è stato spettatore, più o meno sorpreso, più o meno obiettivo, della giornata più sanguinosa dell’Egitto post-2011.

Le cifre sui morti e sui feriti divergono enormemente a seconda delle fonti, nonché delle differenti affiliazioni politiche dei mass media. La TV araba Al-Jazeera, emittente qatarina vicino ai Fratelli Musulmani, sta adottando una copertura delle notizie dall’Egitto diametralmente opposta a quella della televisione di stato Ertu e delle altre emittenti egiziane ormai sotto il totale controllo dei militari. Entrambe le parti danno informazioni tanto sbilanciate e parziali, sia dal punto di vista della qualità che da quello della quantità, da rendere impossibile accordargli fiducia.

A seguito di questa giornata di morte, il premio Nobel per la Pace Mohamed el-Baradei, vicepresidente del governo ad interim dallo scorso tre luglio, si dimette per dissociarsi dalla violenza della repressione militare. L’ex presidente dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica si trova attualmente a Vienna e su di lui grava un’accusa di tradimento della quale dovrà rispondere alla giustizia egiziana.

Pochi giorni dopo, lunedì 19 agosto, non lontano dal valico di Rafah sul confine con la Striscia di Gaza un commando di 11 uomini con un pickup uccide 25 poliziotti egiziani appena congedati, mentre al Cairo nella notte dello stesso giorno i militari proseguono i già numerosi arresti di Fratelli Musulmani, fermando anche l’anziana guida suprema Mohamed Badia’ ed il portavoce dei sostenitori di Morsi, Yussef Talaat.

Nel tardo pomeriggio del 22 agosto ha luogo l’ultimo dei grandi sconvolgimenti avvenuti in Egitto nell’estate 2013: Hosni Mubarak viene liberato e portato via in elicottero dal carcere di Torah Mahkoum, lo stesso nel quale sembrerebbe invece rinchiuso Mohamed Morsi. Secondo il suo avvocato Farid El-Dib, la scarcerazione dell’ex-presidente ottantacinquenne è dovuta semplicemente al fatto che sono passati 18 mesi, limite massimo della carcerazione preventiva secondo il codice penale egiziano. Mubarak è ora in libertà condizionata e domenica 25 agosto c’è stata l’udienza per alcune accuse di corruzione non ancora cadute e soprattutto per quella di aver autorizzato l’uccisione di circa 900 manifestanti durante le proteste di gennaio-febbraio 2011 contro il suo regime, accusa per la quale era stato condannato all’ergastolo in un processo annullato però dalla Corte di Cassazione ed ora dunque da rifare.

 

Silenzio egiziano o disinteresse italiano?

 

In questo congestionato scenario, quello che risulta evidente è il fatto che, pur con modalità, azioni, maturità politica e concezioni della democrazia assai eterogenee, il popolo egiziano stia facendo sentire la propria voce da ormai quasi tre anni. Se come sostiene Germano Dottori, docente di Studi Strategici presso l’università LUISS di Roma, “il genio è ormai uscito dalla lampada”, è principalmente grazie al popolo egiziano.

A seguito di tali considerazioni viene dunque spontaneo rilevare che gli egiziani in patria non sono nettamente diversi da quelli che invece hanno intrapreso un progetto migratorio.

La voglia di far sentire la propria voce su ciò che avviene nel paese d’origine non scompare una volta che ci si è trasferiti all’estero.

Eppure il silenzio sulle modalità attraverso le quali la comunità egiziana in Italia vive uno dei periodi di maggiore svolta del proprio paese è quasi totale.

Lasciando da parte la questione delle possibili motivazioni di questo disinteresse, è indispensabile evidenziare come esso sia quasi uniforme a livello politico, giornalistico ed associazionista, e come esso costituisca un’occasione mancata di dialogo effettivo ed efficace con una delle componenti migratorie più numerose tra quelle presenti in Italia.

Secondo statistiche ISTAT relative al 2010, gli egiziani in Italia erano, già due anni fa, 90.365, ed il tasso di incremento annuo di tale cifra tra il 2006 e il 2010 si è sempre aggirato intorno al 10% , per poi salire ancora a seguito degli sconvolgimenti politici in patria.

La regione con la maggiore presenza egiziana è la Lombardia, con ben 64.488 individui, distribuiti soprattutto nell’area di Milano, prima città in Italia, e delle città circostanti, si pensi che Sesto San Giovanni, Cinisello Balsamo e Monza sono rispettivamente la quarta, la settima e la decima in Italia per numero di migranti dall’Egitto.

E’una migrazione piuttosto antica per il nostro paese, ha avuto infatti inizio già negli anni Settanta, interessando soprattutto giovani della classe media durante un periodo nel quale la politica di iftitah (“apertura”) del presidente Anwar Al-Sadat rendeva piuttosto facile l’uscita di persone dal paese, individui che poi non trovavano particolari ostacoli nemmeno al momento dell’ingresso in territorio italiano.

Sotto l’aspetto confessionale, la maggioranza dei migranti è di fede musulmana, ma anche la presenza di cristiani copti è oggi rilevante; il calcolo risulta nettamente più semplice in Egitto, dove i musulmani rappresentano poco meno del 90% della popolazione. A facilitare il reperimento dei dati nel paese d’origine c’è anche il fatto che la religione di ogni individuo debba per legge essere scritta sul documento di identità. Sebbene ad inizio 2012 un gruppo di giovani attivisti egiziani avesse diffuso sul web la campagna Non sono affari tuoi, durante la quale, allo scopo di protestare contro questa legge, questi studenti applicavano al posto della voce “religione” un adesivo con questa dicitura, per ora niente è cambiato.

Uno scenario tanto eterogeneo come quello costituito dalla comunità egiziana in Italia non può dunque essere né statico, né monolitico, né tantomeno disinteressato a ciò che accade in Egitto.

Per questa ragione è di fondamentale importanza esaminare le posizioni delle diverse componenti di questa comunità, chiedendosi se e quali conseguenze ciò che accade in Egitto può avere al suo interno.

 

Voci egiziane in Italia

 

Sulla crisi egiziana è necessario distinguere nettamente due tipi di voci all’interno della comunità egiziana in Italia: quella dell’associazionismo, per lo più di matrice religiosa musulmana che riunisce credenti di origine non solo egiziana oltre a molti convertiti italiani, e quella dei singoli migranti di prima e seconda generazione non appartenenti ad alcuna associazione.

Per quanto riguarda la prima voce, essa si presenta maggiormente istituzionalizzata, compatta, univoca nelle sue posizioni. Questo non significa affatto che all’interno delle varie organizzazioni non ci siano un fecondo dibattito ed un frequente scambio di idee, bensì che, a seguito di tali sforzi comunicativi interni, le diverse associazioni cercano poi di raggiungere una posizione quanto più chiara ed uniforme possibile, presentandosi come correnti intellettuali compatte davanti agli scenari di crisi nei quali è immersa gran parte del mondo arabo.

La posizione delle associazioni musulmane in Italia è di netta e decisa condanna verso quello che viene uniformemente definito un colpo di stato illegittimo da parte dei militari contro un presidente democraticamente eletto.

L’associazione che si è espressa più fortemente delle altre è indubbiamente l’UCOII, l’Unione delle comunità islamiche d’Italia, il maggiore organismo dell’Islam italiano, il quale ha assorbito anche l’USMI, l’Unione degli studenti musulmani in Italia. In un comunicato dell’associazione risalente all’8 luglio 2013, successivo dunque alla destituzione di Morsi ma precedente alle giornate di violenza cieca di metà agosto si legge:

<< Quando le Forze Armate di un Paese, travalicando funzioni istituzionali che la Costituzione gli attribuisce, forti dei mezzi di cui lo Stato le ha dotate per difendere il popolo e la nazione, intervengono pesantemente nel contesto politico, si configura quello che è noto come colpo di Stato. Questo è quello che è accaduto in Egitto dove un presidente democraticamente eletto dopo una rivolta che aveva cacciato un autocrate corrotto e squalificato, è stato destituito manu militari e la costituzione voluta e votata dal popolo è stata annullata. Il grande movimento verso la democrazia reale che le masse arabe hanno interpretato con coraggio e sacrificio negli ultimi tre anni subisce così un brutale arresto e molti integerrimi cittadini appartenenti al partito di governo sono stati arrestati o sono ricercati>>.

In seguito si chiede esplicitamente all’esercito egiziano di fare marcia indietro:

<< Mentre esprimiamo tutta la nostra solidarietà al legittimo presidente della Repubblica Araba d’Egitto, ne chiediamo l’immediata liberazione e il reintegro nella funzione che il popolo gli aveva affidato >>.

Il lungo comunicato si chiude con un appello rivolto agli egiziani di qualsiasi religione e di qualsiasi tendenza politica ad individuare prontamente un percorso non violento per uscire dalla situazione che si è venuta a creare in Egitto.

Il punto di vista della galassia di associazioni istituite su base religiosa, storicamente molto vicine ai Fratelli Musulmani, è cristallino. Gli elementi più significativi del discorso dell’UCOII sono quelli inerenti alle masse arabe e ai molti integerrimi cittadini appartenenti al partito di governo.

Per quanto riguarda il primo nodo cruciale del comunicato, è da notare come esso riveli un tentativo di allargare improvvisamente l’orizzonte interpretativo della questione, spostandola su uno scenario geopolitico assai più ampio di quello egiziano e contrapponendo ai militari del paese non più soltanto i manifestanti pro-Morsi, ma addirittura le masse arabe, con un richiamo non troppo velato alla Umma, la comunità musulmana che travalica i confini nazionali. Tale strategia discorsiva, basata su un uso strumentale del Noi, degli Altri e delle rispettive quantità, è attuata al fine di rafforzare la propria posizione: il golpe è tanto ingiusto da contrastare non solo la volontà degli elettori di Morsi, ma tutto l’intero grande movimento verso la democrazia che negli ultimi tre anni le “masse arabe” hanno attuato.

Se è innegabile che di golpe si possa parlare e che le elezioni che hanno visto Mohamed Morsi vincitore siano state le più corrette dell’intera storia egiziana, è però altrettanto necessario evidenziare che i manifestanti pro-Morsi non coincidono assolutamente in toto, né per numero né per posizione politica né tanto meno per mezzi utilizzati, con i milioni di giovani che negli ultimi tre anni hanno inondato le piazze del Vicino Oriente.

E’ dalla semplificazione eccessiva e strumentale del discorso che bisogna guardarsi, non dai contenuti, opinioni legittime ed ampiamente condivise in Egitto e all’estero. Circa il concetto di “masse arabe”, è interessante inoltre notare come esso abbia un paradossale sapore spiccatamente eurocentrico, se si pensa che uno dei fili conduttori dell’orientalismo europeo tanto avversato dal compianto scrittore palestinese Edward Said è stato, e in molti casi è tuttora, la rappresentazione degli orientali come massa, orda informe e omogenea, contrapposta all’individuo occidentale, essere autonomo e dotato di identità propria, unica e irripetibile.

Sul secondo nodo cruciale del comunicato dell’Unione delle comunità islamiche d’Italia, ovvero sui molti integerrimi cittadini appartenenti al partito di governo arrestati e ricercati, è legittimo sollevare dei dubbi.

Il 16 agosto Amnesty International rilascia un comunicato stampa riguardante la condotta dei sostenitori di Morsi in Egitto dal titolo Prove rivelano che sostenitori di Morsi hanno torturato manifestanti in Egitto. Il comunicato cita, con nomi e cognomi, testimoni che lamentano di essere stati catturati, picchiati ed in alcuni casi sottoposti a scariche elettriche ed accoltellati dai pro-Morsi. “Le accuse di tortura avanzate da alcuni individui sono estremamente gravi e devono essere approfondite con urgenza” dichiara Hassiba Hagg Sahraoui, direttore di Amnesty International per Medio Oriente e Nord Africa.

Anche il celebre scrittore egiziano Ala Al-Aswani, nel 2011 in piazza Tahrir ad attendere la caduta di Mubarak e da sempre avverso ai Fratelli Musulmani, si esprime chiaramente riguardo a tale movimento: << La differenza tra la Fratellanza ed Al-Qaeda è nel grado, non nella natura. I Fratelli rispetto al movimento terroristico internazionale hanno un doppio volto: una componente tattico-politica e il terrorismo in tasca >> .

Si è detto in ogni caso, che la posizione delle organizzazioni musulmane in Italia non esaurisce l’ampio spettro di idee e opinioni che è possibile riscontrare nei migranti egiziani nel nostro paese, i quali, se intervistati, rivelano una notevole varietà di punti di vista.

Alla richiesta di fornire un’interpretazione dei recenti avvenimenti nel paese d’origine, le risposte si sono collocate lungo un continuum tra << Un colpo di stato e una rivoluzione, quella del 25 gennaio 2011, mai completata o per meglio dire fallita >> (Bsant, 24 anni, assistente ai clienti esteri presso un corriere espresso) a << Trovo la cacciata di Morsi necessaria ma vista la politica dei FM io personalmente mi aspettavo una reazione del genere: sin dal ballottaggio tra Morsi e Shafiq, prima degli esiti i maggiori esponenti dei FM avevano promesso di dar fuoco all’ Egitto in caso di mancata vittoria di Morsi >>. (Omar, 27 anni, libero professionista).

Interpellati sui sentimenti secondo loro più diffusi tra il popolo egiziano, le risposte sono state significativamente più uniformi, anche tra persone con posizioni diametralmente opposte: << Penso provino sia rabbia, che dolore, che speranza: rabbia per una meraviglia quasi distrutta, l’Egitto, dolore per gli innocenti brutalmente massacrati e speranza perché ognuno di noi ci spera >> (Sarah 25 anni, impiegata nel settore delle Risorse Umane)

<< L’Egitto prova rabbia perchè è un paese pieno di risorse e ricchezza ma non è in grado di sfruttarle al meglio >> (Mahmud, 31 anni, receptionist) << L’Egitto ha speranza, perché dobbiamo sperare sempre, perché se muore la speranza moriremo anche noi >>. (Mohamed, 27 anni, receptionist)

Se, come scrive la pensatrice libanese Jumana Haddad, la rassegnazione è uno dei mali più contagiosi al mondo, gli egiziani non ci sono dunque ancora arrivati, ci sono però pericolosamente vicino: << Speranza c’è sempre, ma non so quanto durerà >>. (Bsant, 24 anni, assistente ai clienti esteri presso un corriere espresso)

Anche il quesito con il quale si chiede se l’Egitto sia o meno una democrazia ha ricevuto risposte decisamente negative da ogni schieramento, accompagnate però dalla ferma convinzione, altrettanto diffusa, che possa arrivare ad esserlo: << Penso che l’ Egitto abbia appeso il cartello “lavori in corso” ma in passato di democrazia ce ne è stata poca. Io penso che il popolo sia pronto alla democrazia ma fino ad ora non c’è mai stato un governo che l’ abbia applicata >>. (Omar, 27 anni, libero professionista).

Per quanto riguarda l’aspetto delle potenziali ricadute che le tensioni nel paese d’origine possano avere nella comunità egiziana in Italia, i pareri sono in maggioranza ottimisti: << No, non credo. Qui siamo un po’ più aperti… >> (Mohamed, 27 anni, receptionist), e ancora: << Non ho notato niente del genere. Al massimo gli italiani vedendo in TV ciò che succede chiedono chiarimenti agli egiziani >>. (Milad, 55 anni, imprenditore)

Una tendenza ampiamente diffusa, tanto in Egitto quanto in contesto migratorio, è infine quella a non attribuire la minima fiducia all’operato dei mezzi di comunicazione arabi e alla loro imparzialità. E’ infatti ormai noto ad ogni egiziano il fatto che le emittenti nazionali sono sotto il completo controllo dei militari e che, dall’altra parte, il colosso televisivo di Doha Al-Jazeera è nettamente schierato al fianco del deposto presidente Morsi, al quale non più tardi del gennaio 2013 aveva donato, con l’obiettivo di “salvare l’Egitto”, almeno 2,5 miliardi di dollari. In quanto popolazione composta in gran parte da giovani altamente scolarizzati e dotati di dimestichezza con le nuove tecnologie, gli egiziani d’Italia preferiscono dunque sovente informarsi in rete.

L’intricato intreccio di interessi in gioco in Egitto in quanto area di vitale importanza strategica continua a complicarsi. Gli sviluppi più recenti, primo tra tutti il quasi annientamento del movimento degli Ikhwan Al-Muslimun, costringono le potenze mondiali, Stati Uniti in primis, a rivedere profondamente le proprie strategie ed alleanze nel Vicino Oriente. In tutto questo gli egiziani, pur con ingenuità, semplificazioni, eccessi e interpretazioni di parte, non accettano più di essere trattati come una massa informe da chi, in patria e dall’esterno, lo ha fatto troppo a lungo. Prendere atto di tale cambiamento attraverso una presa di coscienza non soltanto di facciata potrebbe costituire la soluzione per evitare che le carte degli eventi si ribaltino nuovamente davanti ai nostri occhi cogliendoci ancora una volta impreparati.

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SIRIA: IL BLUFF DELL’OCCIDENTE RISCHIA DI TRASCINARE IL MONDO NEL BARATRO

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In queste ore drammatiche il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama deve decidere se concedere il via libera al piano di attacco elaborato dagli strateghi militari del Pentagono.

Questi ultimi, tutt’altro che convinti della necessità di entrare in guerra, hanno infatti predisposto un tipo di intervento (condotto con il lancio di missili Cruise dalle portaerei statunitensi) estremamente limitato, da esaurirsi nel giro di tre giorni e a zero perdite per i propri soldati.

Sembra in effetti la riedizione della guerra del Kosovo (1999) richiamata da alcuni analisti in questi giorni, in quanto anche allora l’ex capo della Casa Bianca Bill Clinton si illuse che dopo due o tre giorni di bombardamenti aerei della NATO l’ex Presidente serbo Slobodan Milosevic si sarebbe arreso.

Quell’aggressione, condotta col pretesto delle “motivazioni umanitarie” e senza il via libera delle Nazioni Unite, durò in realtà 78 giorni e produsse alcuni effetti destinati a cambiare la geopolitica mondiale.

Le ricadute più rilevanti si manifestarono paradossalmente in Russia (che vide nella disgregazione della ex Jugoslavia lo specchio di quanto le sarebbe accaduto a breve se non avesse reagito), dove i servizi di sicurezza decisero nello spazio di pochi mesi di liquidare il corrotto Boris Eltsin (da tempo asservito alle potenze occidentali) e di condurre alla guida del Cremlino Vladimir Putin, un Presidente che le avrebbe restituito orgoglio e dignità.

Da questo punto di vista si può dire che il sacrificio dei Serbi servì alla salvezza dei Russi.

Se quindi l’occupazione del Kosovo e Metohija servì agli USA quale nuovo trampolino di lancio verso il Mar Caspio e il Vicino e Medio Oriente, fu però proprio allora che iniziò quella strategia di riscossa delle potenze eurasiatiche che ha mutato profondamente gli equilibri geopolitici del pianeta.

I tentativi di spezzare l’alleanza tra Mosca e Pechino sono risultati vani e la resistenza della Siria di Assad negli ultimi due anni è uno dei tanti fattori che gioca a suo favore.

Oggi, sotto la spinta del rinnovato attivismo saudita e in particolare del suo capo dei servizi segreti Bandar Bin Sultan, gli Stati Uniti si trovano a giocare una partita estremamente complessa e pericolosa.

Complessa perché è chiaro che la rielezione di Obama è stata resa possibile solo dopo la sua accettazione dell’antico progetto bushiano, che prevede l’edificazione del Nuovo (Grande) Medio Oriente sotto controllo nordamericano.

Fallita la carta “morbida” giocata con le “rivoluzioni arabe”, non rimaneva all’Amministrazione statunitense che riaggrapparsi alla sua unica certezza, quella costituita da un apparato militare che – nonostante il declino strategico statunitense – continua a rimanere imponente.

Ecco quindi la guerra alla Libia di Gheddafi, l’aggressione alla Siria di Assad (delegata temporaneamente da Washington ai suoi alleati regionali), i colpi di stato e la destabilizzazione dei paesi africani come la Somalia, la Costa D’Avorio, il Mali e il Sudan per fronteggiare l’avanzata cinese.

Con la prospettiva finale di colpire e mutare l’Iran, con le buone e con le cattive maniere, per controllarne le risorse energetiche e stritolare le potenze eurasiatiche rendendole dipendenti dall’acquisto di dollari ormai “carta straccia”.

Partita complessa anche per motivi strettamente “tecnici”.

Tutte le dispendiose guerre condotte dal 1991 ad oggi non hanno portato a Washington i frutti sperati.

Che si tratti dell’Iraq, dove gli sciiti al governo non solo parteggiano per la Siria di Assad ma privilegiano Cina ed India nelle forniture di petrolio, che si tratti dell’Afghanistan dove il Presidente Karzai non vede l’ora di liberarsi del controllo statunitense per rivolgersi a Pechino e a Nuova Delhi, che si tratti della piccola Serbia o addirittura dell’Egitto che tornano a guardare verso Mosca, questi conflitti hanno esaurito la spinta propulsiva degli Stati Uniti e dimostrato la loro inadeguatezza quali leader mondiali.

L’economia USA si trova alle prese con una nuova scadenza che il prossimo mese la costringerà ad innalzare a 17.000 miliardi di dollari il tetto del proprio debito per evitare il fallimento del paese, mentre le principali banche nordamericane vengono declassate dalle stesse agenzie di rating statunitensi e la prospettiva di un ulteriore “settembre 2008” si avvicina pericolosamente.

Ma la partita che Obama si appresta a giocare è anche molto pericolosa.

Se questi probabili due-tre giorni di attacchi missilistici sulla Siria dovessero avere luogo, non è invece facilmente prevedibile quanto potrà accadere.

Il calcolo statunitense è riassumibile nella volontà e nella prospettiva, tutta mediatica, di voler riaffermare al mondo che gli Stati Uniti con i loro alleati sono ancora la guida del pianeta e che la sfida lanciata da Mosca e da Pechino – manifestatasi platealmente con il “caso Snowden” – può essere vinta.

Gli analisti del Council on Foreign Relations e del Pentagono ritengono che la Siria non disponga di misure di reazione efficaci e che dopo questa lezione “morale” pian piano il governo di Assad verrà sgretolato, subendo l’analoga sorte di quello guidato da Milosevic (deposto un anno dopo la fine dell’intervento militare).

Questo calcolo dimentica però il mutamento della situazione geopolitica rispetto al 1999; se allora la Serbia si trovava isolata e venne difesa solo diplomaticamente da Russia e Cina, oggi la Siria di Assad si trova in una situazione decisamente più favorevole.

Teheran, innanzitutto, è legata a Damasco da un’alleanza di carattere militare che in caso di aggressione statunitense si estenderebbe automaticamente anche a Hizbollah in Libano.

Israele, in particolare, si troverebbe esposto ad una possibile rappresaglia iraniana e quello che è stato progettato per essere un intervento limitato rischierebbe di trasformarsi in una guerra regionale dalle conseguenze imprevedibili.

Tel Aviv, che non dimentica la lezione ricevuta in Libano nel 2006 e la figuraccia rimediata a Gaza nel 2009, desidererebbe forse intraprendere una nuova avventura ma diverrebbe l’agnello sacrificale dell’imperialismo statunitense.

Difficilmente Turchia e Arabia Saudita, che a parole smaniano di venire alle mani con la Siria, potrebbero partecipare ad una coalizione a fianco dei soldati di Tel Aviv.

Le rappresaglie di Russia e Cina nei loro confronti, poi, potrebbero essere non solo economiche ma anche militari, e sia ad Ankara che a Riyad sanno bene come la loro alleanza con gli Stati Uniti non rivesta più per Washington un carattere strategico.

L’umiliazione subita dalla Georgia nel 2008 è ancora un vivo ricordo e solo dei disperati come Hollande e Cameron possono sperare di far dimenticare i propri guai interni con un nuovo conflitto.

Ecco quindi che Obama si trova alle prese con un dilemma tutt’altro che facile: essere un nuovo Gorbaciov e traghettare in maniera pacifica l’inevitabile ridimensionamento statunitense o sognare di essere un nuovo Roosevelt, nell’illusione che una rinnovata “economia di guerra” possa rilanciare un paese ormai industrialmente destrutturato e finanziariamente fallito.

Ai siriani il difficile e gravoso compito di resistere, per consentire l’emergere definitivo del nuovo sistema multipolare non più a guida angloamericana e nel quale le controversie internazionali potrebbero non essere più risolte a colpi di cannoniere.

 

 

* Stefano Vernole  è redattore di “Eurasia”

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TTIP E TPP, STRUMENTI DI DOMINIO STATUNITENSE

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Dopo il via libera ottenuto verso la metà del giugno 2013 dagli Stati membri dell’Unione Europea e dal Congresso statunitense, ilpresidente degli USA Barack Obama e le principali autorità europee hanno ufficialmente avviato i colloqui volti a favorire la creazione del Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) – o Trans Atlantic Free Trade Area (TAFTA) –, un’area di libero scambio tra Stati Uniti ed Europa che dovrebbe regolamentare il mercato tra le due sponde dell’Atlantico, con particolare riferimento a prodotti agricoli e industriali, appalti pubblici, investimenti, energia e materie prime, misure sanitarie, servizi, diritti di proprietà intellettuale, sviluppo sostenibile, composizione delle controversie, stimolo della concorrenza, facilitazione dell’interscambio e gestione delle imprese di proprietà statale.

TTIP

Ancor prima dell’inizio delle trattative finalizzate a dar concretezza al progetto di “area di libero scambio transatlantica”, pressoché tutti i governi europei hanno immediatamente enfatizzato le ricadute benefiche che la costituzione di un mercato unico completamente liberalizzato prometterebbe di generare, soprattutto per quanto riguarda presunti incrementi del Prodotto Interno Lordo complessivo, la crescita (altrettanto presunta) del reddito pro capite e la creazione (ancor più presunta) di centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro. Queste conclusioni si basano ovviamente sulle tesi “friedmaniane”, secondo cui lavorando dal lato dell’offerta si alimenterebbe la concorrenza, determinando una corsa al ribasso sui costi che dovrebbe magicamente produrre un incremento del Prodotto Interno Lordo. Nonostante l’assoluta mancanza di prove a supporto di questa tesi che viene ossessivamente ripetuta da decenni, l’aspetto più deteriore della creazione del TTIP sarebbe tuttavia rappresentato dall’uniformazione dei regolamenti, che, visti e considerati i rapporti di forza tra Stati Uniti ed Europa, è possibile immaginare alla tutela di quali interessi andranno a conformarsi.
Prendendo in esame il settore agricolo, va infatti sottolineato che negli Stati Uniti è possibile coltivare e commercializzare Organismi Geneticamente Modificati (OGM), così come utilizzare ormoni per stimolare la produzione di latte bovino e per accelerare la crescita degli animali allevati a scopo alimentare. Il “libero scambio” da un lato determinerebbe l’immediata invasione del mercato europeo di questi prodotti (sulla cui sicurezza aleggiano non pochi dubbi), mentre dall’altro comporterebbe la cancellazione delle denominazioni di origine controllata, non riconosciute negli USA, autorizzando di fatto la commercializzazione di vini, formaggi, oli e di tutte le altre specialità tipiche prodotte in qualsiasi Paese membro del TTIP, infliggendo danni incalcolabili alle piccole e medie aziende locali operanti nel settore. In tal modo, l’area di libero scambio faciliterebbe la penetrazione del mercato europeo da parte dei colossi dell’agri-business, i quali (oltre alle enormi quantità di OGM) immetterebbero cibi trattati con agenti chimici e prodotti agricoli massicciamente sovvenzionati dallo Stato rendendo assai meno competitive le merci locali. Per quanto concerne invece il settore terziario, appare piuttosto significativo il fatto che durante i colloqui preliminari tenutisi nel giugno 2013, Commissione Europea e autorità statunitensi abbiano ventilato l’ipotesi di escludere dalle trattative unicamente i servizi per i quali non esiste offerta privata; acqua, sanità, istruzione e gestione delle strutture carcerarie rischierebbero quindi di subire una vasta, inaudita campagna di privatizzazione che provocherebbe l’eliminazione delle prerogative di cui le strutture statali hanno goduto finora, nonché lo smantellamento definitivo dei sistemi di welfare vigenti in varia forma all’interno di tutti i Paesi europei, da cui trarrebbero enormi guadagni le compagnie statunitensi, abituate ad operare in un sistema quasi completamente privatizzato. Negli Stati Uniti vi sono effettivamente imprese private di dimensioni e forza tali da poter colonizzare il mercato europeo in settori che all’interno del “vecchio continente” sono coperti dall’apparato pubblico, il quale verrebbe immediatamente scardinato dalla corsa al ribasso promossa dal TTIP. Le prospettive divengono invece particolarmente desolanti se si considerano le possibili ripercussioni sull’ambiente, dal momento che le regole in vigore all’interno degli Stati Uniti risultano assai molto meno vincolanti (negli USA non esiste alcuna “carbon tax”) rispetto a quelle europee, per via del primato riconosciuto alle aspettative di guadagno da parte delle aziende sulla difesa della salute pubblica e sulla tutela dell’ecosistema. Non è infatti un caso che diversi colossi petroliferi statunitensi abbiano denunciato presso il tribunale arbitrale del North Atlantic Free Trade Agreement (NAFTA) lo Stato canadese del Quebec, reo di aver votato una moratoria sull’estrazione dello shale gas a difesa della salute dei cittadini, adducendo motivazioni legate alla perdita di guadagno potenziale derivante da tale decisione.

NAFTA

 

La rimozione delle ultime barriere protettive tra Stati Uniti ed Unione Europea da un lato comporterebbe una consistente perdita economica per i Paesi del “vecchio continente, dal momento che le merci europee subiscono una tassazione media del 3,5%% per entrare negli USA, mentre i dazi medi sulle importazioni di merci prodotte negli Stati Uniti raggiungono il 5,2%. D’altro canto, agevolerebbe l’operato delle multinazionali (anche implementando misure di sicurezza volte a difendere il diritto alla proprietà intellettuale) che, dislocando la produzione nei Paesi del “terzo mondo”, possono permettersi di commercializzare le loro merci a prezzi più bassi rispetto a quelli dei prodotti fabbricati all’interno dei confini europei. La deriva deflazionistica che verrebbe automaticamente innescata dall’istituzione del TTIP costituirebbe una catastrofe in primo luogo per Paesi come l’Italia, in cui le piccole e medie imprese rappresentano la spina dorsale dell’economia nazionale.
Il TTIP presenterebbe quindi svariate analogie con la “area di libero scambio” sognata dai latifondisti cotonieri del sud degli Stati Uniti verso la metà del XIX Secolo. Questi grandi proprietari terrieri – i quali mantenevano un rapporto di stretta interdipendenza con la potenza centrale allora dominante, ovvero la Gran Bretagna, il cui sistema manifatturiero manteneva estremamente elevata la domanda internazionale di cotone – promuovevano linee politiche fondate sui presupposti propri alle teorie liberiste degli “economisti dell’impero” David Ricardo ed Adam Smith; l’area di libero scambio da essi pretesa avrebbe consolidato il rapporto di subalternità geopolitica che intercorreva tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, relegando i primi al ruolo di fornitori di materie prime per conto dei sistemi industriali dei secondi. Non a caso il TTIP è stato paragonato a una sorta di “NATO economica”, poiché se l’Alleanza Atlantica è chiamata a circoscrivere drasticamente il raggio d’azione delle potenze europee, sottoponendolo alla volontà statunitense, l’area di libero scambio transcontinentale mirerebbe a “disciplinare” i rapporti economici con i Paesi che minacciano di intaccare la supremazia statunitense. Non rappresenterebbe infatti una novità che l’intensificarsi delle relazioni commerciali funga da volano per il consolidamento di strette relazioni politiche, sorrette da particolari intese riguardanti i comparti strategici di maggiore rilievo (come l’alta tecnologia). Il TTIP patrocinato da Washington appare pertanto uno strumento “imperialistico” finalizzato a legare indissolubilmente le due sponde dell’Atlantico in un rapporto geoeconomico ideato su misura delle necessità statunitensi. Rafforzando il potere dei mercati finanziari e delle imprese multinazionali sui poteri politici locali attraverso l’incoraggiamento di una concorrenza tra sistemi legislativi atta ad agevolare la pratica del dumping nettamente sfavorevole alle finanze pubbliche, alla conservazione delle condizioni di lavoro, alla tutela dei salari, della sanità pubblica e del benessere generale delle popolazioni , il mercato transatlantico è il risultato di decisioni politiche dettate dalle pressioni esercitate dalle lobby industriali e, soprattutto, finanziarie. Il TTIP si propone di estendere le logiche del “mercato aperto” a livello planetario, in modo da piegare le resistenze opposte dalle popolazioni autoctone di Paesi come l’Ecuador (in cui la Bechtel ha dettato legge per molti anni) assicurando alle grandi compagnie il diritto di depredare le risorse naturali e stringere ulteriormente le nazioni nella morsa del debito. Imponendo gli interessi delle multinazionali a livello mondiale, «Il mercato transatlantico – osserva l’acuto analista belga Michel Collon – contribuirà ad aggravare la povertà e le disuguaglianze tra Nord e Sud, deteriorando sempre più gli ecosistemi, la biodiversità, il clima. Una volta consolidatosi, esso moltiplicherà i rifugiati climatici, rincarerà il prezzo delle derrate di base e ipotecherà l’avvenire e il benessere delle generazioni future» (1).

Effettivamente, l’applicazione di un sistema simile non potrà che favorire, pur in funzione meramente tattica, i grandi esportatori come la Germania, i quali capitalizzeranno un aumento degli sbocchi di mercato per le loro merci, mentre gli Stati più deboli verranno definitivamente privati del controllo sulle loro funzioni vitali – già massicciamente ridotto dall’ingresso nell’Unione Europea.
Non è certo un segreto che la creazione del TTIP risponda ad un preciso disegno geopolitico, elaborato da Washington allo scopo di frenare il proprio costante arretramento attraverso il modello “trilateralista”, che prevede la riorganizzazione del pianeta in “aree di libero scambio” ruotanti attorno al fulcro statunitense. L’evidente crisi della globalizzazione liberista ha infatti spinto gli USA a cercare di potenziare i propri strumenti di influenza e dominio, rappresentati dalle leve militare ed economica. In conformità a questa strategia, gli Stati Uniti hanno accerchiato la Cina sia dal punto di vista militare dislocando navi che fungono da basi galleggianti per le forze speciali dal Golfo Persico al Mar Cinese Meridionale e impiantando proprie installazioni presso Singapore, Thailandia, Filippine ed Australia, sia sotto l’aspetto economico attraverso la creazione del Trans-Pacific Strategic Economic Partnership Agreement (TPP), una “area di libero scambio” che coinvolge numerosi Paesi indio-latini e asiatici escludendo i BRICS, con particolare attenzione al “Paese di mezzo”, la cui crescita economica e politica costituisce un fattore suscettibile di intaccare la supremazia statunitense.

Il Trans-Pacific Strategic Economic Partnership Agreement (TPP) è effettivamente un accordo di libero scambio che coinvolge numerosissimi Paesi affacciati su entrambe le sponde del Pacifico, tagliando fuori la Cina. Oltre agli Stati Uniti, l’elenco dei Paesi che partecipano alle trattative del TPP include infatti Australia, Brunei, Cile, Canada, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam.

TPP

Il Giappone, dal canto suo, ha espresso l’intenzione di aderire al progetto. Sviluppato mentre il Pentagono si prodiga per insediare la propria forza militare nella la regione Asia-Pacifico al fine di porre sotto il controllo di Washington le vie attraverso cui la Cina si rifornisce di energia, il TPP rappresenta chiaramente il braccio economico della politica del “pivot asiatico” condotta da Washington, mirante a riunire alcuni dei più promettenti nazioni situate nell’area del Pacifico in un regime di corporate-governance giuridicamente vincolante, convincendo i loro governi ad aderire al progetto attraverso garanzie di protezione dall’“espansionismo cinese” e la promessa di libero accesso al mercato degli Stati Uniti. L’amministrazione Obama intende chiaramente inaugurare un accordo volto ad imporre “una misura unica” volta a sostituire tutte le norme internazionali che limitano la volontà statunitense di regolare gli investimenti stranieri e il saccheggio delle risorse naturali da parte delle multinazionali. Le grandi imprese e i colossi di Wall Street stanno esercitando forti pressioni affinché Governo e Congresso ignorino l’incostituzionalità del progetto, inseriscano misure che garantiscano la messa al bando di qualsiasi norma atta a regolare i movimenti di capitale e permettano alle corporation di citare in giudizio i governi nazionali, sottomettendo i Paesi firmatari alla giurisdizione di tribunali arbitrari di investitori. I tribunali internazionali disporrebbero quindi della facoltà di ordinare ai governi di pagare risarcimenti virtualmente illimitati alle grandi aziende, qualora la politica condotta da una qualsiasi delle nazioni membre del TPP andasse a limitare i futuri guadagni degli investitori.

«Recenti statistiche – osserva l’analista politico Nile Bowie – rivelano che la produzione economica combinata di Brasile, Cina e India supererà quella di Canada, Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti entro il 2020. Più dell’80% della classe media del mondo vivrà a Sud entro il 2030, in un contesto completamente diverso da quello attuale. Gli Stati Uniti sono economicamente in difficoltà, e il TPP – sogno erotico di Wall Street e la risposta di Washington alla sua diminuzione performance economica – è stato progettato proprio per permettere agli USA di fare grande business con una maggiore partecipazione nella regione emergente del Pacifico attraverso l’imposizione di un modello economico di sfruttamento sui Paesi firmatari che esenti le multinazionali e investitori privati ​​esenti da qualsiasi forma di responsabilità pubblica»(2).

 

E’ evidente che la strategia di Washington fondata sulle intimidazioni di natura militare e i tentativi di marginalizzazione economica dei Paesi non allineati attraverso la creazione di “aree di libero scambio” è destinata ad acuire le tensioni internazionali e suscitare nuovi pericoli di guerra. Si tratta di uno scenario che presenta diversi punti di contatto con quello di inizio ‘900, in cui il militarismo di matrice imperialista e l’espansione del liberismo economico che caratterizzò la prima, embrionale tendenza “globalizzante” si combinarono tra loro, innescando una micidiale sinergia negativa che condusse alla Prima Guerra Mondiale.

 

NOTE

1. Michel Collon, Ce que l’accord de libre-échange entre l’UE et les USA pourrait changer, http://www.michelcollon.info/Ce-que-l-accord-de-libre-echange.html?lang=fr.

2. Nile Bowie, The Trans-Pacific Partnership (TPP), An Oppressive US-Led Free Trade Agreement, A Corporate Power-Tool of the 1%, http://www.globalresearch.ca/the-trans-pacific-partnership-tpp-an-oppressive-us-led-free-trade-agreement-a-corporate-power-tool-of-the-1/5329497.

*Giacomo Gabellini è cartografo di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e autore dei libri “La parabola. Geopolitica dell’unipolarismo statunitense” e “Shock. L’evoluzione del capitalismo globalizzato tra crisi, guerre e declino statunitense”, pubblicati da Anteo Edizioni. Ha tenuto lezioni inerenti le cosiddette “primavere arabe” presso l’Università di Teramo.

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LA SIRIA E IL DILEMMA DEGLI STATI UNITI

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Finita l’era di George W. Bush, agli Stati Uniti si imponeva un drastico ridimensionamento della propria politica di potenza. Ma rinunciare definitivamente a quel progetto di egemonia planetaria che caratterizza la politica dello Stato nordamericano perlomeno a partire dalla Seconda guerra mondiale, avrebbe imposto pure un ridimensionamento della potenza economica degli Stati Uniti, con conseguenze difficilmente prevedibili, ma certo tutt’altro che vantaggiose per la potenza capitalistica predominante e per i “centri di potere” subdominanti, i cui privilegi e interessi dipendono, direttamente o indirettamente, dalla potenza degli Usa. Del resto, non può meravigliare nessuno se, tenendo conto delle enormi spese militari degli Stati Uniti, si suole definire il grande Paese nordamericano come un Warfare State, ossia uno Stato che si basa su un gigantesco apparato bellico sia per garantire, mediante l’acquisto di sistemi d’arma sempre più costosi e sofisticati, il finanziamento necessario per lo sviluppo delle proprie imprese strategiche, sia per svolgere quel ruolo di gendarme della “comunità internazionale” che permette agli statunitensi di regolare non solo le controversie internazionali ma pure i conflitti sociali nella maggior parte dei singoli Paesi, al fine di tutelare appunto determinati “gruppi d’interesse”, che senza ombra di dubbio non possono essere identificati con i ceti sociali meno abbienti.
 
In altre parole, gli Stati Uniti svolgendo il ruolo di gendarme del grande capitale occidentale  incrementano, al tempo stesso, la propria potenza militare ed economica, e tanto maggiore è quest’ultima tanto più si rende indispensabile un sistema internazionale imperniato sulla indiscussa egemonia degli Stati Uniti. Si può peraltro affermare che, dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica, nulla sembrava potesse far apparire un tale legame come una sorta di “circolo vizioso”. Secondo la maggior parte degli analisti, se di “circolo” si trattava, lo si sarebbe dovuto definire piuttosto come un “circolo virtuoso”. Nondimeno, già negli anni Ottanta era facile constatare non solo che la “distanza” tra gli Stati Uniti e altre “potenze emergenti” si andava riducendo, ma che la relazione tra la “base produttiva” e la potenza militare degli Stati Uniti non era affatto esente da gravi e numerosi “problemi”, a cominciare da una bilancia commerciale perennemente in passivo e dagli squilibri derivanti da un apparato militare sempre più “pesante”. Difficoltà però in un certo senso “mascherate” dal fallimento del crollo del Muro di Berlino, tanto che è proprio negli anni Novanta che la classe dirigente statunitense e i circoli “filo-atlantisti” si illusero di poter dar vita ad un sistema unipolare fondato sulla supremazia degli Stati Uniti e dei cosiddetti “mercati”. Di conseguenza, se Clinton giunse a liberalizzare del tutto il movimento dei capitali (ponendo le premesse per lo tsunami finanziario del 2008, che pure gli italiani, anche per l’insipienza e la codardia della classe politica del Bel Paese, stanno pagando con “lacrime e sangue”), l’amministrazione di George W. Bush, sfruttando l’indignazione e le preoccupazioni dell’opinione pubblica mondiale per l’attentato dell’11 settembre, ritenne addirittura che i tempi fossero maturi per la conquista del “cuore” dell’Eurasia.
 
Che fine abbia fatto la dissennata politica di George W. Bush lo sanno tutti e quindi non vale la pena di rammentarlo, ma quel che invece tuttora molti non riescono a comprendere è che in realtà con Obama gli Stati Uniti non hanno fatto alcun passo indietro, né sul piano economico e finanziario né sul piano politico-militare. Apparentemente tutto è mutato rispetto all’amministrazione di George W. Bush, ma in questo caso vale più che mai il noto detto secondo cui “plus ça change, plus c’est la même chose”. In particolare, anziché ad una radicale e quanto mai urgente (in specie dopo il 2008) riforma del sistema finanziario internazionale, si è assistito, da un lato, ad una limitazione della sovranità nazionale della maggior parte degli Stati occidentali e all’affermarsi del potere incontrastato dei “mercati” (ovvero di una decina di banche e gruppi finanziari, tutti statunitensi o comunque con “cuore e cervello”, per intendersi, made in Usa), dall’altro ad un tentativo di ridefinire, in funzione degli interessi statunitensi e dei gruppi subdominanti “filo-atlantisti”, la mappa geopolitica dell’area mediterranea, secondo una strategia imperniata sull’“approccio indiretto”. Preso atto cioè dell’impossibilità di realizzare un “equilibrio unipolare” e di poter “controllare” direttamente la variegata e complessa galassia musulmana, Obama ha sì voltato pagina, ma per conseguire lo stesso fine con altri mezzi.
 
In sostanza, si è trattato di lasciare più ampi “margini di manovra” ad altri attori geopolitici, in specie il Qatar e l’Arabia Saudita, sbarazzandosi di “vecchi” alleati ritenuti ormai troppo deboli, corrotti o inetti, onde evitare che gli Stati Uniti dovessero intervenire direttamente per difendere i propri interessi e quelli dei loro maggiori alleati nella regione mediterranea. E non si può negare che questa nuova strategia in un primo momento sembrava vantaggiosa per gli Stati Uniti: dal successo della rivolta “eterodiretta” contro Gheddafi al “recupero” di Erdogan, dopo il grave incidente della Mavi Marmara, pareva infatti che il Qatar fosse un attore geopolitico capace di assolvere perfettamente il proprio compito, potendo, tra l’altro, contare sul fatto che guerre e conflitti di ogni genere negli ultimi decenni hanno visto come protagonisti i musulmani (dall’Afghanistan alla Cecenia, dalla Bosnia al Kosovo, dall’Iraq a diversi Paesi africani), tanto che s’è venuta a creare una enorme massa di guerriglieri islamisti, pronti a combattere ovunque per la causa di un Islam che con il vero Islam ha poco a che fare, avendo invece molto in comune con “Mammona”. Era però ovvio che Obama rischiava di essere come l’apprendista stregone che evoca forze che non è in grado di controllare. Troppe le differenze, troppi i contrasti, troppe le divisioni perché Obama fosse il burattinaio e i musulmani (“dominanti” e “dominati”) fossero i burattini. D’altronde, non è facile destabilizzare e generare caos e disordine facendo in modo che i conflitti che ne derivano non possano prendere una piega imprevista, tanto più quando anche i “giocatori” che dovrebbero stare dalla stessa parte hanno interessi diversi e perfino opposti.
 
Non è affatto strano allora che nel giro di poco tempo la cosiddetta “primavera araba” si sia rivelata  un “inverno terribile”: se in Libia la situazione è sfuggita di mano agli atlantisti (come provano, oltre all’uccisione del diplomatico statunitense Chris Stevens, i continui scontri a Bengasi e nel resto della Libia) e in Turchia Erdogan ha i suoi guai con una popolazione turca, sempre più insofferente verso la politica del governo, in Egitto i Fratelli Musulmani – gli stessi che hanno appoggiato i “bengasini” contro la Giamahiria (l’unico Stato africano con un Welfare degno di questo nome e in cui lavoravano centinaia di migliaia di “negri”, odiati proprio dalla “borghesia compradora” di Bengasi) e che in Siria combattono contro Assad – si sono mostrati incapaci di governare (al punto da inimicarsi buona parta della popolazione egiziana, che pure li aveva sostenuti contro Mubarak) e rendere così possibile un golpe militare. Sicché, anche se la situazione è ancora troppo incerta e fluida per fare previsioni, gli Stati Uniti sembrano rimasti “incastrati” tra il Qatar che appoggia i Fratelli Musulmani e l’Arabia Saudita che invece appoggia i militari egiziani, benché sia il Qatar che l’Arabia Saudita siano, com’è noto, “alleati di ferro” degli Usa e sostengano la bande islamiste che combattono contro Assad. Insomma, un vero “pasticciaccio” che vede Obama tra l’incudine dei Fratelli Musulmani e il martello dei militari egiziani e che pare ancora più complicato se si considerano i reali rapporti di forza tra l’Egitto (il cui esercito “dipende” dagli americani) e gli Usa, sempre che l’Egitto non possa (o non voglia) contare sull’appoggio di altre “potenze”.
 
Se dunque è comprensibile che gli Usa abbiano lasciato agli europei il ruolo, politicamente irrilevante, di condannare il regime egiziano mentre loro continuano a lavorare dietro le quinte (ma finora con scarso successo), è pure evidente che gli Stati  Uniti, oltre ad essersi “impantanati” in Afghanistan e aver dovuto abbandonare l’Iraq (Paese in cui non passa quasi giorno senza che vi sia  qualche strage o qualche attentato), si devono di necessità confrontare con un mutamento geopolitico su scala mondiale che rende loro sempre più difficile “recitare la parte” dei difensori della “comunità internazionale”. In quest’ottica, la vicende della Siria – impegnata da oltre due anni in una asperrima lotta contro bande di “mercenari” e terroristi islamisti che, con l’aiuto delle fasce più estremiste dell’opposizione siriana, cercano di rovesciare il regime di Assad – assumono un’importanza fondamentale, vuoi per la posizione geostrategica della Siria (“Paese cerniera” tra l’Iran ed Hezbollah e attore geopolitico di fondamentale importanza in tutta la regione), vuoi perché l’ostinata resistenza siriana ha fatto fallire il disegno di “Obama”, che pensava di ripetere in Siria quanto già accaduto nella Libia di Gheddafi, facendo affidamento sulla capacità degli “alleati” (il Qatar, l’Arabia Saudita e la stessa Turchia) di “chiudere” rapidamente la partita con Assad, di modo da evitare che potessero prendere il sopravvento gruppi islamisti non “graditi” a Washington.
 
Le premesse per un rapido successo degli “atlantisti” però c’erano o pareva ci fossero tutte. Una volta trasformate le prime manifestazioni pacifiche contro Assad (che pure si era mostrato disposto a fare importanti “aperture”, come la concessione della cittadinanza ai curdi e l’abolizione dello stato d’emergenza in vigore, a causa del conflitto con Israele, fin dagli anni Sessanta) in una rivolta armata, grazie all’infiltrazione in Siria di migliaia di guerriglieri islamisti che potevano contare sulla “collaborazione” dei Fratelli Musulmani siriani (“antichi nemici “ degli Assad), per l’esercito siriano si profilava il compito durissimo di aver ragione di decine di migliaia di guerriglieri ben armati e che avevano pure il vantaggio di disporre di finanziamenti pressoché illimitati e di basi logistiche situate oltre i confini della Siria, di modo che sarebbe stato impossibile per l’esercito siriano tagliare le loro linee di rifornimento. Inoltre, indipendentemente dal numero dei disertori (peraltro, del tutto normale, dato che l’esercito siriano è un esercito di leva), era ovvio che per Assad sarebbe stato ben difficile “sigillare” i confini con la Turchia, l’Iraq, il Libano e la Giordania e nel contempo disporre di forze sufficienti per sconfiggere un movimento di guerriglia così forte e numeroso (si badi che gli esperti militari ritengono che occorra una superiorità di circa dieci ad uno perché un esercito regolare possa debellare un forte movimento di guerriglia – è noto, ad esempio, che gli inglesi, dopo la Seconda guerra mondiale, per sconfiggere circa 12000 guerriglieri malesi dovettero mobilitare 350000 uomini). (1)
 
Nonostante ciò, l’esercito siriano – che è sempre stato un “osso duro” anche per Israele – ha saputo “ribattere colpo su colpo”, dando prova di notevole flessibilità tattica ed operativa, e allorquando i media mainstream davano Assad per spacciato ha sferrato una controffensiva che lo ha portato a riconquistare buona parte del territorio perduto, tra cui Qusair, una delle più importanti roccaforti dei “ribelli”. Ma Assad, ha pure potuto sfruttare le crescenti rivalità tra questi ultimi, dato che proprio il continuo affluire in Siria di gruppi islamisti tra i più fanatici e “settari” ha indebolito il fronte dei “ribelli”, accentuandone le rivalità e rendendo ai nordamericani e ai loro alleati pressoché impossibile “gestire” una situazione che diventa ogni giorno più complessa. Di fatto, anche qui, gli Stati Uniti sono finiti in un vicolo cieco, anche per il deciso sostegno alla Siria da parte della Russia, della Cina e naturalmente dell’Iran, che pare abbiano compreso che “cedere” sulla Siria equivarrebbe a dare la possibilità agli statunitensi di “giocare (nuovamente) la carta” dell’islamismo (sia chiaro, da non confondere con l’Islam) per destabilizzare l’intera Eurasia con “rivoluzioni colorate” e “quinte colonne”.
 
Ecco allora che proprio subito dopo che gli ispettori dell’Onu erano giunti a Damasco si è diffusa la notizia che Assad avrebbe usato il gas contro il “proprio popolo”. Un crimine contro l’umanità che richiederebbe un immediato intervento della “comunità internazionale”. Che cosa sia esattamente accaduto noi ovviamente non lo sappiamo (anche perché non possiamo basarci su testimonianze di inviati speciali in alberghi a cinque stelle, né ci fidiamo delle “gole profonde” di Washington), ma possiamo affermare che le immagini dei civili uccisi dal gas diffuse dai “ribelli”, secondo esperti seri e imparziali, escludono che si tratti di gas nervino (afferma, ad esempio, il generale Piero Laporta: «Non c’è un solo fotogramma, che sia uno, che mostri un morto ammazzato da gas nervino…La bugia diventa ancora più evidente osservando che manca la proporzione fra i morti e i sopravvissuti intossicati») (2). Inoltre, non solo Assad non ha usato armi chimiche quando era in difficoltà, ma le avrebbe usate adesso che l’esercito siriano sta riconquistando terreno, ordinando un attacco del tutto inutile sotto il profilo piano militare e perfino controproducente dal punto di vista politico. Comunque sia, Washington ha subito reagito senza nemmeno aspettare di conoscere la relazione degli ispettori dell’Onu, sostenendo che si tratta di un atto gravissimo e che Assad deve essere punito per questo, anche nel caso che non vi sia una risoluzione dell’Onu (invero assai improbabile dato che pare scontato il veto della Russia e della Cina, non affatto convinte delle “prove” fornite dai “ribelli”, già ritenuti responsabili di aver usato armi chimiche da Carla Del Ponte – ex procuratore del Tribunale penale internazionale e membro della Commissione d’inchiesta dell’Onu sulle violazioni di diritti umani in Siria).
 
Eppure risalgono solo a pochi giorni fa le dichiarazioni del generale Martin Dempsey, capo degli stati maggiori riuniti, secondo cui un intervento degli Usa non sarebbe decisivo sul piano militare dato che non eliminerebbe le tensioni religiose, tribali ed etniche che sono presenti in Siria. Vero che i nordamericani possono facilmente impiegare missili (lanciati da navi, sottomarini o aerei, anche a distanze tali che sarebbero oltre il raggio d’azione dell’apparato di difesa aerea e navale siriano, che in effetti è piuttosto obsoleto, anche se potrebbe mettere a segno qualche colpo) e aerei (droni inclusi). Non si capisce però come gli Usa potrebbero raggiungere il loro scopo politico. Infatti, per rovesciare il regime di Assad, nemmeno una no fly zone potrebbe essere sufficiente. Per piegare la resistenza di Assad. occorrerebbe un intervento di ingenti forze terrestri, ma ciò non è possibile per motivi evidenti a chiunque. Attaccando, gli Usa rischiano di “impantanarsi” in un altro conflitto e di moltiplicare pure il numero delle vittime civili (che ha già superato la spaventosa cifra di centomila morti, un dato che rafforza la convinzione di chi pensa che l’uso – vero o falso che sia – di armi chimiche serva a Washington solo come pretesto per intervenire), ma soprattutto rischiano di incendiare una polveriera, non solo per le ragioni evidenziate dallo stesso generale Dempsey, ma per la netta presa di posizione degli stessi alleati della Siria. Al riguardo non lasciano dubbi le intenzioni dell’Iran, che ha già minacciato ritorsioni contro Israele, (3) ma anche l’”orso russo” questa volta non pare affatto un “orso di cartone”. Del resto, sbaglia chi scrive che gli Usa finora si sono limitati a dare un appoggio politico e logistico ai “ribelli”, giacché l’aiuto di gran lunga più importante fornito dagli Usa ai “ribelli” concerne invece l’intelligence. Gli Usa controllano con i satelliti (e non solo) l’intero territorio della Siria, informando (tramite ufficiali di collegamento presenti in Giordania e Turchia, ove si trova un potentissimo apparato della Nato), i “ribelli” sui movimenti dell’esercito siriano (e probabilmente ne “intossicano” anche le comunicazioni). Perché allora gli Usa dovrebbero sferrare un attacco limitato contro la Siria se è palese che, per così dire, il “gioco non vale la candela”?
 
Posto che l’intervento per motivi umanitari è solo bolsa e melensa retorica (e lo è a maggior ragione se si tiene conto che gli Usa sono il Paese che ha usato le armi atomiche, il napalm, i defolianti, le bombe all’uranio impoverito ed al fosforo, che ha sterminato milioni di civili dopo la Seconda guerra mondiale – dalla Corea del Nord al Vietnam, dal Laos alla Cambogia, dall’Iraq all’Afghanistan – , che ha praticato la tortura nelle famigerate prigioni della Cia – e continua a farlo nel campo di concentramento di Guantanamo – , che finanzia e appoggia da decenni gli squadroni della morte nell’America Latina e che – last but not least – ha già mentito pubblicamente riguardo alle armi chimiche degli iracheni), non è difficile rispondere se si tiene presente quanto si è detto riguardo al fallimento della strategia statunitense. E’ la mancanza di una “vera” strategia che contrassegna ormai la politica dell’amministrazione Obama, che non può permettersi di tornare alla politica delle cannoniere, senza pagare un prezzo troppo alto per gli Stati Uniti, ma che non può nemmeno più lasciare che siano altri a fare la guerra per conto di Washington. Osserva, al riguardo, Stefano Vernole che «Obama si trova alle prese con un dilemma tutt’altro che facile: essere un nuovo Gorbaciov e traghettare in maniera pacifica l’inevitabile ridimensionamento statunitense o sognare di essere un nuovo Roosevelt, nell’illusione che una rinnovata “economia di guerra” possa rilanciare un paese ormai industrialmente destrutturato e finanziariamente fallito». (4) E’ proprio la difficoltà, se non addirittura l’impossibilità, per gli Usa di risolvere questo dilemma che pare all’origine dei dubbi e delle “oscillazioni” di Obama e spingerlo verso scelte che contribuiscono a rendere ancor più ingarbugliata la “matassa” che gli Usa dovrebbero sbrogliare.
 
Ma non si deve neppure dimenticare che la “macchina bellica” statunitense continua ad “arricchirsi” di nuove basi e installazioni nell’Europa meridionale e orientale, di modo che si rafforza viepiù il “vincolo di dipendenza” di Paesi come l’Italia da Washington (non ci si lasci neanche ingannare dalla presa di posizione della Bonino, che sa benissimo che vi è un contingente militare italiano in Libano – contingente che in caso di guerra verrebbe a trovarsi in una posizione tutt’altro che invidiabile – e che agli Usa non servono le basi italiane per sferrare una attacco contro la Siria, dato che quelle in Turchia, a Cipro e in Giordania sono più che sufficienti alla bisogna). Né il comportamento della Gran Bretagna e della Francia, che inseguono “sogni di gloria neocoloniale” illudendosi di essere ancora delle grandi potenze, aiuta a far sì che la “comunità internazionale” si opponga alla prepotenza degli Stati Uniti, incapaci di far coincidere obiettivi militari e scopi politici. Naturalmente non si può nemmeno contare su Israele, anche se, in verità, sulle vicende siriane Israele sembra diviso tra il desiderio di vedere cadere Assad e il timore che terroristi jihadisti prendano il sopravvento, tanto che non sono pochi gli analisti che ritengono che ad Israele, tutto sommato, non dispiaccia una “situazione di stallo”. E’ evidente però che una tale situazione, ove si verificasse, non potrebbe essere che temporanea.
 
In definitiva, si deve riconoscere che ai siriani è affidato «il difficile e gravoso compito di resistere, per consentire l’emergere definitivo del nuovo sistema multipolare non più a guida angloamericana e nel quale le controversie internazionali potrebbero non essere più risolte a colpi di cannoniere», (6) purché non si pensi che il “corso della storia” vada necessariamente in questa direzione né che la “geopolitica del caos” sia destinata a scomparire rapidamente. Proprio perché, come si è già sottolineato, gli Usa sono in primo luogo un Warfare State (e lo sono in quanto sono la potenza capitalistica predominante) non ci si deve aspettare che una alternativa multipolare, la si possa realizzare senza conflitti (non solo di natura bellica). Pertanto, sia che Obama decida di attaccare la Siria sia che si renda conto dell’assurdità e della pericolosità di una tale scelta, la questione veramente decisiva è quella di trovare il modo di “limitare” la volontà di potenza degli Usa, affinché sia possibile risolvere “positivamente” quel dilemma che gli Stati Uniti non possono risolvere senza che, in qualche modo, siano costretti a farlo. Per questo motivo difendere oggi la sovranità nazionale della Siria, nonostante si possano avere idee assai diverse sulla politica di Assad (che indubbiamente non è una “mammoletta”, ma dopo circa trenta mesi di guerra civile è da insipienti o da ipocriti pretendere di tracciare una linea che separi nettamente i “buoni” dai “cattivi”), significa prendere una posizione che equivale a fare una scelta a favore di un sistema policentrico, cioè un autentico sistema multipolare, che, se fondato su un equilibrato realismo geopolitico, potrebbe mettere fine all’aberrante politica di potenza degli Stati Uniti.

 
 

1.Vedi Noel Barber The war of the running dogs: how Malaya defeated the communist guerrillas, 1948-60, Collins, Londra, 1971.
 
2.http://www.pierolaporta.it/la-vittima-dei-nervini-la-verita/.
 
3.http://italian.irib.ir/notizie/mondo/item/130790 .
 
4.http://www.eurasia-rivista.org/siria-il-bluff-delloccidente-rischia-di-trascinare-il-mondo-nel-baratro/19971/ .
 
5.Oggi pare quasi impossibile che la Francia sia la nazione che diede i natali a De Gaulle, ossia un uomo politico che (sebbene non si debbano dimenticare i suoi “errori”) se fosse stato presente negli anni Novanta, con la scomparsa dell’Unione Sovietica e la riunificazione della Germania, probabilmente avrebbe impedito che il “Vecchio continente” diventasse una sorta di “appendice europea” degli Usa.
 
6. Vedi nota 4.

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INTERVENTO IN SIRIA: IL VOTO DEL CONGRESSO “CONTRO” GLI ALLEATI USA?

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Molto ha fatto discutere il discorso di Obama contenente due affermazioni sulla “questione siriana”: volontà di intervento Usa, ma con precedente approvazione da parte del Congresso (ossia il Parlamento statunitense).

Queste dichiarazioni sono state seguite da tutta una serie di precisazioni da parte dello stesso Obama e del ministro degli esteri Kerry, in cui si esprime la necessità dell’azione nord americana.

Quindi allo stesso tempo Washington ha preso tempo ed ha deciso di intervenire. Questo tergiversare ha prodotto dubbi, critiche e anche scherno sia da parte di chi vorrebbe un intervento immediato sia da chi invece si oppone a questo.

E’ possibile leggere invece il percorso che ha scelto il Presidente Usa in maniera coerente e volto a raggiungere due obiettivi: il primo è il solito consenso internazionale, spina dorsale della politica statunitense; si pensa che una discussione e quindi un’approvazione (alquanto probabile) da parte del Congresso dia un manto di legittimità all’intervento. Il secondo è più profondo e importante: in questo modo l’amministrazione Usa potrebbe volersi mettere al riparo dai propri stessi alleati, che spingono costantemente per trascinare la potenza americana nel conflitto (ma vale anche per altri conflitti). Ponendo la prassi di un’approvazione del Parlamento, Obama potrebbe voler mandare un messaggio proprio a questi: da oggi non è così semplice e scontato un intervento statunitense a copertura di avventati alleati, perché c’è la società civile americana da ascoltare.

Il primo obiettivo ha senso solo da un punto di vista propagandistico, perché il voto di un parlamento nazionale non ha nessuna influenza e importanza nel diritto internazionale o meglio ancora nel diritto interno di altre organizzazioni statali; il Congresso non è il parlamento globale e il suo voto non dà nessuna legittimità a nessuna azione internazionale.

Il secondo invece potrebbe avere una certa importanza: sebbene l’assemblea di Capitol Hill non sia l’esempio della rappresentatività e sia molto frequentata da lobbisti di ogni tipo (quelli dell’industria militare spiccano), il ricorso a questa pone dei dubbi per gli alleati (in questo caso nell’area interessata) spesso citati da Obama: Israele, Turchia, Giordania e anche quelli spesso taciuti come Arabia Saudita, Qatar. Tali Paesi, che spesso attivano crisi sapendo di contare successivamente sulla copertura statunitense, potrebbero d’ora in avanti avere un’incertezza in più, dovendo far riferimento anche al voto parlamentare e non alla sola decisione del comandante in capo ossia del Presidente degli Stati Uniti.

La crisi siriana ha posto per Washington seri problemi, giunti principalmente dai propri alleati nella zona che hanno avuto e continuano ad avere un ruolo diretto nelle atrocità della guerra. Staremo a vedere se Obama, spinto da alcuni ambienti statunitensi, stia cercando di liberarsi di una zavorra che ha spesso affossato gli stessi interessi nordamericani.

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LA CRISI NEL VICINO ORIENTE. INTERVISTA AL DIRETTORE DI “EURASIA” CLAUDIO MUTTI

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Intervista al direttore Claudio Mutti sulla situazione in Turchia, Egitto, Siria e sul nuovo numero della rivista “Eurasia”, in uscita a metà settembre, dedicato alla geolinguistica.

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La geopolitica delle lingue

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SOMMARIO

 

Editoriale 

C. Mutti, La geopolitica delle lingue

Geofilosofia
Platone, Geografia e virtù
Fabio Falchi, Immaginazione geofilosofica e realismo geopolitico
Davide Ragnolini, Carl Schmitt e l’anomia talassica

Dossario – La geopolitica delle lingue
Renato Pallavidini, Lingua e nazione, da Fichte a Stalin
Vittoria Squillacioti, Plurilinguismo e identità
Cristiano Procentese, La politica linguistica. Il caso spagnolo
Leonid Savin, Geopolitica della lingua russa
Giuseppe Cappelluti, La lingua russa nell’ex URSS: Kazakhstan e Stati baltici
Elena Premoli, Il futuro parlerà cinese?
Carmela Crescenti, La lingua sacra dell’Islam
Ermanno Visintainer, La turco fonia, fattore d’identità culturale e di raccordo politico
Alberto Buela, La lingua più parlata al mondo
Fabrizio Boscaglia, Cenni sulla lusofonia
Giuseppe Cappelluti, Inglese e “valori asiatici”: Malaysia e Singapore
Francesco Viaro, L’italiano nel mondo
Giovanni Armillotta, Breve storia recente dell’idioma di Dante
Lorenzo Salimbeni, La difesa della lingua degli “Italiani d’Austria”

Interviste
Claudio Mutti, La controversia sull’ungherese. Intervista a Borbála Obrusánszky
Claudio Mutti, Dietro lo scenario delle primavere. Intervista a Shaykh Imran Hosein

Continenti
Francisco de la Torre Freire, Il mito dell’Impero nell’America indio latina (seconda parte)

Recensioni
Rutilio Sermonti, Il linguaggio della lingua (C. Mutti)
Antonio Vallisneri, Che ogni Italiano debba scrivere in lingua purgata italiana (C. Mutti)

 

 

 

Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto per ciascuno di essi.


 

 

 

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