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STRAGE DI LAMPEDUSA: COMUNICATO DELL’AMBASCIATA DELLO STATO D’ERITREA

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Roma, 09/10/2013

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In questo particolare momento, a seguito del tragico incidente accaduto nel mare di Lampedusa in cui hanno perso la vita centinaia di nostri fratelli, molte famiglie eritree in particolare, e tutto il popolo eritreo in generale, stanno vivendo giorni di grave lutto.
Quello che impressiona maggiormente è che la perdita di tutte queste giovani vite sia accaduta in un unico momento, che potrebbe essere paragonato solamente agli esiti di una battaglia.
L’Ambasciata Eritrea, con la collaborazione della sua comunità, fornirà a tutti i superstiti di questa tragedia l’assistenza necessaria. Inoltre fa sapere che, per quanto riguarda il rimpatrio delle salme, affinchè siano sepolte nel proprio paese, il governo eritreo provvederà alle spese di trasporto e a quanto altro sia necessario. A tale proposito è stato attivato un canale diplomatico con le competenti autorità italiane.

Ambasciata dello Stato di Eritrea
Roma, Italia

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ROBERT MUGABE: EROE NAZIONALE O DITTATORE?

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Sono passati oltre trent’anni da quando Robert Mugabe, dopo anni di lotta contro l’apartheid e lo sfruttamento coloniale, si è instaurato per la prima volta alla guida dello Zimbabwe, fresco di indipendenza. Dal 1980 ad oggi la vita politica del Paese è dominata esclusivamente dalla sua persona, sette mandati consecutivi, l’ultimo ottenuto pochi mesi fa in seguito a contestate elezioni da parte del suo rivale e dei Paesi occidentali. Ciò che lo porta ad essere amato da alcuni lo rende inviso ad altri: è infatti malvisto da buona parte del mondo occidentale, il quale non digerisce le politiche anti-imperialiste – riforma agraria in primis – ma soprattutto il fatto di aver rivolto lo sguardo a est, verso la Cina, per aiuti economici e accordi commerciali, in particolare per quanto concerne lo sfruttamento delle miniere. Eroe nazionale o dittatore? Il dibattito è aperto.

 

 

 

Le origini: la lotta politica per l’indipendenza. Era il 1980 quando il regime di apartheid di Ian Smith veniva smantellato e l’ex colonia britannica della Rhodesia del Sud otteneva l’indipendenza, divenendo Zimbabwe. Uno dei grandi leader della rivolta anti-colonialista era l’allora 66enne Robert Mugabe, che divenne il primo capo di governo dello Stato africano. In un Paese in cui vigeva una segregazione razziale non diversa da quella sudafricana, Robert Mugabe venne incarcerato dal 1964 al 1974 per le sue azioni anti-governative. Una volta libero, emigrò per poi tornare in patria per combattere ancora una volta l’abolizione dell’apartheid, divenendo un vero e proprio eroe nazionale. Nonostante i numerosi anni al potere e le forti critiche che circondano la sua figura, l’affetto di una buona parte del popolo zimbabwese è ancora saldo proprio in virtù del ruolo decisivo e determinante che Mugabe ebbe per l’indipendenza nazionale, tanto da essere considerato un simbolo della lotta contro l’apartheid.

 

I primi anni di potere. Dopo un primo decennio di potere segnato dalla prudenza, dove nonostante l’ideologia socialista di Mugabe non ci furono né nazionalizzazioni né esperimenti socialisti in campo economico, la situazione cominciò a cambiare durante gli anni ‘90. Prima di allora Mugabe aveva lasciato inalterato l’inquadramento bianco dell’esercito, mantenendo al loro posto gli agenti bianchi dei servizi di informazione e di sicurezza. Inoltre, accettò di inserire dei ministri bianchi nel suo governo e venti seggi parlamentari vennero riservati ai bianchi.

Nonostante tutto questo, però, il tentativo di riconciliazione fallì miseramente, anche di fronte all’ostilità inglese. I britannici, infatti, finanziati dalla comunità del Sudafrica, tentarono più volte di togliere di mezzo Mugabe. Non riuscendoci con vari attentati, alimentarono le ostilità all’interno del governo, finanziando fino ai giorni nostri i suoi oppositori: Nkomo, Edgar Tekere e, più recentemente, Morgan Tsvangirai e il suo Movimento per il cambiamento democratico, uscito sconfitto dalle elezioni di luglio.

 

La riforma agraria. A partire dalla riforma costituzionale del 2000 cominciò la temuta, da parte dei coloni bianchi, riforma agraria. Dopo aver atteso diversi anni poiché gli accordi di Lancaster House impedivano di modificare lo status quo, il governo zimbabwese cercò la mediazione, proponendo ai latifondisti britannici di acquistare lui stesso le fattorie ad un prezzo negoziato. Di fronte al rifiuto di questi ultimi, Mugabe irrigidì poco a poco le sue posizioni e alla fine decise di mandarli via rimborsando niente altro che le infrastrutture che avevano costruito loro stessi.

All’epoca dell’indipendenza, nel 1980, più del 70% delle terre coltivabili era in mano a poche migliaia di proprietari terrieri bianchi. Per correggere questa stortura derivante dal periodo coloniale, il nuovo governo di Mugabe redistribuì le terre a favore della popolazione locale, a fronte di circa 6 mila precedenti proprietari bianchi si sostituirono circa 245 mila zimbabwesi1.

Da questo momento le relazioni fra Gran Bretagna e lo Zimbabwe non saranno più le stesse. Una sorta di guerra fredda, nella quale Mugabe sentiva di farsi promotore non solo delle rivendicazioni nazionali, ma di tutto il continente: “La nostra causa – disse – è la causa di tutta l’Africa e di ogni Africano”.

Se questa riforma abbia avuto ripercussioni favorevoli o meno sull’economia nazionale non c’è accordo fra gli studiosi: da una parte chi sostiene che essa si sarebbe rivelata come uno spinoff positivo per il settore primario, come sostenuto in un recente libro da parte di alcuni analisti2,  dall’altra chi invece sostiene che i benefici derivanti dalla redistribuzione terriera sarebbero limitati ai soli fedelissimi di Mugabe, che si sarebbero dunque sostituiti ai vecchi coloni bianchi. Inoltre, si ribatte soprattutto che i nuovi proprietari terrieri non abbiano né mezzi né capitali per potersi veramente sostituire ai vecchi, avendo come effetto diretto non un miglioramento, bensì una sensibile crisi del settore agricolo.

Quello che è certo è che la riforma agraria era necessaria. La situazione latifondistica di epoca coloniale era diventata insostenibile, bisognava riorganizzare e redistribuire le terre in modo da permettere anche alla popolazione nera di avere accesso al settore primario e al cibo. Discutibile resta però l’organizzazione di essa, tanto che la produzione sul breve periodo crollò in maniera significativa.

 

I rapporti con le potenze occidentali: le sanzioni economiche. In seguito alla nazionalizzazione delle terre agricole, i rapporti con l’Occidente subiranno un ulteriore inasprimento.

I rapporti tesi con il Regno Unito risalgono già all’indomani dell’indipendenza del Paese africano nel 1980, quando, in base agli accordi di Lancaster, infatti, i britannici avrebbero dovuto contribuire economicamente alla riforma agraria3e alla riprogrammazione economica di uno Stato in cui la minoranza bianca aveva in mano gran parte delle ricchezze. Tutto ciò non è mai avvenuto e, anzi, a nel 2002 il Consiglio dell’Unione Europea ha deciso per delle misure restrittive nei confronti dello Zimbabwe e della sua leadership4; a breve distanza – nel 2003 – anche gli Stati Uniti adottarono un provvedimento analogo. Questi provvedimenti, se da un lato hanno l’obiettivo di indebolire il governo e la sua leadership, dall’altra hanno avuto un effetto diretto nei confronti dell’intera popolazione, già allo stremo a causa dell’insufficienza alimentare e hanno impedito al Paese di risollevare un’economia disastrata, in cui il tasso di disoccupazione raggiunge picchi elevatissimi – intorno al 70% nel 20115– e quello di occupazione è inferiore al 1980.

Solo di recente queste sanzioni sembrano allentarsi: alcune settimane fa, infatti, l’embargo UE nei confronti dei diamanti – di cui lo Zimbabwe possiede molti giacimenti – è stato rimosso6, e ciò permetterà al Paese di riprendere il commercio delle pietre preziose sul mercato più grande del mondo di questo settore, ad Anversa, Belgio.

 

Sguardo verso est. Viste le difficoltà con l’Occidente, Robert Mugabe ha scelto di rivolgere il proprio sguardo in cerca d’aiuto a est, alla Cina in particolare, ma anche verso le cosiddette “tigri asiatiche”, economie in forte crescita e desiderose di mercati in cui espandersi per aumentare la propria egemonia. Già nel 2005, l’attuale 89enne presidente zimbabwese riferì: “Ci siamo girati ad Est, dove sorge il sole, dando le spalle all’Ovest  dove il sole tramonta”7, un’affermazione dura che rende manifesta la sua intenzione di guardare al mercato asiatico per le future collaborazioni economiche. La Cina, Paese che non mette bocca, al contrario dei suoi omologhi europei e degli Stati Uniti, in materia di rispetto di diritti civili e politici, è diventato in pochi anni il primo partner economico dello Zimbabwe, ricco di risorse naturali.

 

Il settimo mandato. Nelle recenti elezioni presidenziali del 31 luglio, Robert Mugabe ha ottenuto la riconferma per il settimo mandato consecutivo alla guida dello Zimbabwe. Un risultato, però, messo in dubbio sia dal suo avversario politico, Morgan Tsvangirai, che dalle potenze occidentali, in particolare da Stati Uniti e Regno Unito che “auspicano” un’indagine indipendente per chiarire e confermare la credibilità del processo elettorale8. Numerose le critiche avanzate da parte del mondo occidentale – e in particolare dagli inglesi – circa la credibilità e la validità delle elezioni. Il presidente è stato molto chiaro circa l’ingerenza straniera negli affari interni: “Tu punisci me. Io punisco te. Abbiamo una nazione da guidare e dobbiamo essere liberi di farlo”9.

Oggi, dopo sette mandati consecutivi, Robert Mugabe prosegue nella sua politica anti-imperialista spingendo per l’indigenisation, nel tentativo di costringere le aziende straniere a cedere le loro quote ai neri africani. Questa scelta, se da un lato lo rende popolare fra la popolazione – in modo che il Paese possa riappropriarsi di ciò che in passato era stato perso a causa della colonizzazione – non è vista di buon grado dalle potenze straniere che in Zimbabwe fanno affari. Ed è perciò in quest’ottica che devono essere lette le condanne verso la leadership del Paese africano che a più riprese sono giunte da Paesi europei e dagli Stati Uniti alle quali l’eterno presidente Mugabe risponde per le rime. Nel giorno del giuramento per l’inizio del settimo mandato, Mugabe ha infatti sottolineato che non accetterà critiche da parte della Gran Bretagna e dei suoi domini Canada e Australia, nè tanto meno dagli Stati Uniti e dalla loro “storia di schiavitù”10 ,chiedendo di rispettare “la voce dell’Africa che ha parlato”.

 

Il futuro. Dopo aver ottenuto nuovamente la conferma alla guida del Paese, Mugabe è chiamato a far fronte a importanti questioni che riguardano il suo popolo: oltre alla già ricordata disoccupazione e alle varie storture economiche che attanagliano il Paese, vi è un’altra, ancor più grande problematica che deve essere affrontata.

Secondo recenti stime da parte dell’ONU e del WFP, infatti, oltre 2,2 milioni di zimbabwiani non avranno accesso a sufficiente cibo nel primo semestre del 201411. Una crisi alimentare dovuta sia all’instabilità climatica, ma soprattutto a scelte – economiche e politiche – che sono state prese negli ultimi decenni.

 

Eroe nazionale o dittatore? Trarre un giudizio finale sulla discussa figura di Robert Mugabe non è semplice. Se da una parte la sua persona si è legata indissolubilmente alla lotta per l’indipendenza dalla Gran Bretagna e soprattutto contro l’apartheid, dall’altra, una volta acquisito il potere, questo è sfociato troppe volte in abusi e violenze contro dissidenti e personaggi scomodi. Una realtà che l’Occidente non ha mancato di sottolineare e che ha condannato ripetutamente, evidenziando però a sua volta una lettura delle vicende zimbabwesi eccessivamente occidentalizzata, spingendo affinché il processo democratico portasse verso l’elezione di un candidato – in questo caso l’avversario politico di Mugabe, Morgan Tsvangirai – decisamente più ben disposto nei loro confronti.

Una buona parte degli zimbabwiani crede ancora molto nel suo eroe nazionale, in cui colui che li ha portati all’indipendenza e che si è battuto contro i soprusi di epoca coloniale. Sono ancora tanti gli africani che lo difendono a spada tratta. Secondo loro, non è tollerabile che l’Occidente si arroghi il diritto di dettare le sue condizioni imperialiste e di imporre i loro dirigenti per depredare il sottosuolo africano.  E l’Unione Africana e il Southern African Development Community (SADC), infatti, a fronte di una linea dura e intransigente da parte di Stati Uniti e Unione Europea,  portano avanti una politica più tollerante: fra i sostenitori maggiori di Mugabe troviamo il Sudafrica, importante partner economico, ma soprattutto la Cina, il cui veto al Consiglio di Sicurezza ONU ha permesso al Paese di evitare sanzioni ancora più pesanti di quelle già messe in atto nel 2003 12.

 

 

 

* Carlomaria Bottacini ha conseguito la laurea triennale in Scienze Internazionali e Istituzioni Europee presso l’Università degli Studi di Milano ed è attualmente studente in Sciences Politiques, orientation Relations Internationales presso l’Universitè Libre de Bruxelles.

 

 

Note Bibliografiche e Riferimenti Multimediali

 

1  http://www.cairn.info/article.php?ID_ARTICLE=PE_083_0653#no15 , ultimo accesso ottobre 2013

2  Zimbabwe takes back its land, Joseph Hanlon, Jeanette Manjengwa e Teresa Smart, Kumarian Press, Sterling,    Virginian, 2013

3 http://www.monde-diplomatique.fr/carnet/2008-04-03-Tournant-au-Zimbabwe, ultimo accesso ottobre 2013

4 http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2002:050:0001:0003:FR:PDF, ultimo accesso ottobre 2013

5 http://www.bloomberg.com/news/2011-04-18/zimbabwe-s-unemployment-rate-estimated-at-70-daily-news-says.html , ultimo accesso settembre 2013

6 http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2013:252:0023:0024:IT:PDF, ultimo accesso ottobre 2013

7 http://www.worldsecuritynetwork.com/Africa/no_author/Mugabe-turns-back-on-West-and-looks-East, ultimo accesso settembre 2013

8 http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/africaandindianocean/zimbabwe/10259014/Britain-calls-for-investigation-into-Zimbabwe-vote-as-Robert-Mugabe-is-sworn-in.html , ultimo accesso settembre 2013

9 http://www.theguardian.com/world/2013/aug/25/robert-mugabe-foreign-firms-zimbabwe , ultimo accesso settembre 2013

10 http://www.liberation.fr/monde/2013/08/22/zimbabwe-mugabe-investi-pour-un-sixieme-mandat_926307 , ultimo accesso settembre 2013

11 http://www.wfp.org/countries/zimbabwe/overview , ultimo accesso settembre 2013

12 http://www.cairn.info/article.php?ID_ARTICLE=PE_083_0653#no15 , ultimo accesso ottobre 2013

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GLI UNGARI DAL BRENTA AL PANARO

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“Gli Ungari dal Brenta al Panaro”, conferenza venerdì 18 ottobre con la partecipazione del direttore di “Eurasia” Claudio Mutti.

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GUERRA BIOLOGICA CONTRO LA RUSSIA?

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Gennady Onishenko, capo del sevizio sanitario russo (Rospotrebnadzor), ha intimato alla Georgia di chiudere un laboratorio batteriologico statunitense, accusando gli USA di aver iniziato una guerra biologica contro la Russia.

Secondo la massima autorità sanitaria russa, gli Stati Uniti stanno violando i propri impegni internazionali, ossia la “Convenzione per le armi biologiche”. Il laboratorio statunitense in Georgia è una parte importante del potenziale biologico offensivo degli USA.

“Il fine di questo laboratorio è di studiare la situazione relativa ai focolai naturali dei virus e la loro diffusione nel territorio della Federazione Russa e della regione Transcaucasica” (ossia la regione in cui si trovano Georgia, Armenia e Azerbaigian), secondo quanto detto da Onishenko, riportato dall’agenzia di stampa russa Interfax.

Nel giugno 2013 Onishenko accusò la Georgia di aver realizzato azioni sovversive contro la Russia. Secondo la massima autorità russa, la peste porcina africana è arrivata alle regioni meridionali della Russia e al Caucaso del Nord attraverso la Georgia, per mezzo di un’azione premeditata. Ha commentato: “Si tratta di un’azione ben pianificata, il cui proposito è quello di minare le economie delle regioni del sud, del Caucaso del Nord e della Russia”.

Secondo il ministero dell’agricoltura russo, il danno causato al paese dalla peste porcina africana nel 2008, superò i 2.000 milioni di rubli (62 milioni di dollari), obbligando i fattori russi a sopprimere più di 400.000 maiali.

Secondo alcune teorie, l’agente causale della patologia venne introdotto in Russia nell’autunno 2007 per mezzo dei cinghiali selvatici che giungevano dai territori georgiani.

(Traduzione di: Marco Nocera) 

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ALDO BRACCIO, REDATTORE DI “EURASIA”, INTERVISTATO DA IRIB SULLE TRAGEDIA DI LAMPEDUSA

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“Le tragedie avvenute di recente a Lampedusa sono infatti conseguenze tremende di un sistema generale basato sulla deportazione degli schiavi moderni ispirata dalla globalizzazione. Questo sistema cancella infatti identità di popoli. Purtroppo la situazione degli immigrati è molto difficile in Italia. I centri di accoglienza, per esempio quello di lampedusa, che dovrebbe contenere circa 250 persone, attualmente ne contiene quasi mille. Quindi si potrà capire le condizioni disumane in cui gli immigrati vengono tenute…”.

Queste sono le parole di Aldo Braccio, redattore di “Eurasia” in un colloquio telefonico all’IRIB, sulla tragedia di Lampedusa.

Intervista integrale: http://italian.irib.ir/analisi/interviste/item/133008-aldo-braccio-all’irib-la-situazione-disuamana-di-immigrati-nei-centri-di-accoglienza-di-lampedusa-audio

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STEFANO VERNOLE, REDATTORE DI “EURASIA”, INTERVISTATO DA IRIB SULLO SHUTDOWN USA

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Le ragioni principali di shutdown americana sono da ricercare nell’incredibile indebitamento degli Stati Uniti. Oggi ormai e’ previsto che entro il 17 ottobre gli Usa hanno raggiunto il 16 000.700 miliardi di dollari di indebitamento, il che vorrebbe dire che il governo americano non potrebbe indebitarsi oltre e quindi rispettando i pagamenti gia’ previntivati rimarrebbero in cassa circa 30 miliardi di dollari per far fronte a spese certe…. Queste sono le parole di Stefano vernole, redattore della rivista Euroasia, che e’ intervenuto in un’intervista telefonica con la redazione della Radio Italia IRIB.

Intervista integrale: http://italian.irib.ir/analisi/interviste/item/132964-stefano-vernole-all-irib-shutdown-usa-dovuta-a-un-indebitamento-senza-precedenti-audio

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DIFESA, DRONI SPIA: UN PROGETTO DI INTELLIGENCE EUROPEA?

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La Commissione europea, stando alle prime indiscrezioni, risalenti allo scorso 29 luglio, ha manifestato l’ intenzione di dar vita ad una nuova agenzia di sicurezza e di intelligence, retta sotto il controllo del capo della politica estera dell’Unione Europea, la Signora Catherine Ashton, “l’Europa necessita di sue proprie capacità autonome di difesa e questa proposta è un passaggio cruciale verso l’integrazione”, ha dichiarato un ufficiale di Bruxelles, per poter garantire una maggiore cooperazione nella difesa, attraverso l’istituzione di propri droni spia, satelliti di sorveglianza ed una propria flotta aerea. L’uso di nuovi droni spia e satelliti per politiche di “sicurezza interna ed esterna”, consisterà in informazioni di polizia, sorveglianza ed internet, protezione delle frontiere esterne e la sorveglianza marittima, lasciando trapelare l’obiettivo di voler dar vita ad una versione “europea” della NSA (National Security Agency) statunitense; un modus operandi verso la creazione di una effettiva struttura militare e di analisi dell’Unione Europea con attrezzature proprie per gestire le operazioni europee. I droni spia e sistemi di comando sarebbero connessi al progetto di satelliti spia Copernico, utilizzate in questo contesto per fornire «capacità di creare immagini volte a sostenere la sicurezza comune e la politica di difesa nelle sue missioni e operazioni»; un progetto che risulta essere parte integrante del sistema Sentinel, operato dall’Agenzia spaziale.  Tale piano d’azione, di una presumibile “agenzia di sicurezza europea” simboleggia la risposta al recente scandalo angloamericano Snowden, stando a quanto affermato da alti funzionari europei; per tale motivi si è resa necessaria lo sviluppo delle capacità militari, un’attività complessa, facente parte dell’ampia gamma di discipline e settori di interesse della Difesa.

Sebbene la caratterizzazione dei rischi per la stabilità e delle minacce per la sicurezza tende ad ampliarsi e ad affacciarsi con ritmo incalzante sulla scena internazionale, rendendo indispensabile e quindi necessario lo spostamento verso una struttura indirizzata ad un contenimento dei conflitti con un carattere fortemente politico di componimento preventivo dell’azione; tale processo risulta essere articolato proprio sulla base  di determinati obiettivi politici (Level of ambition). Ciò richiederà l’ individuazione delle esigenze necessarie per conseguire tali obiettivi, la verifica del livello di soddisfacimento delle capacità esistenti e determinazione delle carenze; la ricerca di soluzioni per le carenze evidenziate; il meccanismo di attualizzazione e stabilizzazione del processo, in linea con le tendenze evolutive globali (fattori geopolitici, economici, socio-culturali, tecnologici). L’obiettivo finale del processo sarà di armonizzare gli sforzi compiuti in vari settori, per conseguire al meglio gli obiettivi prefissati, tenendo in considerazione le risorse rese disponibili dai bilanci della Difesa.

Ripercorrendo i passaggi più salienti, su tali presupposti, nonostante nel passato ci siano stati tentativi di sviluppo di una capacità militare europea integrata, nel dicembre del 1999, ad Helsinki, il Consiglio europeo diede vita allo Headline goal, dalla quale risultava che l’Unione Europea, entro il 2003, doveva dotarsi di uno strumento militare capace di assolvere tutte le cosiddette missioni di Petersberg (1992) recepite nel successivo Trattato di Amsterdam (1997).

Successivamente, nel maggio 2003, l’Unione Europea dichiarò che, nonostante permanessero alcune carenze di capacità, gli obiettivi prefissati (ossia il conseguimento di una operational capability) erano stati raggiunti;  nel dicembre 2003, con la European Security Strategy venne delineata la strategia che l’Unione Europea avrebbe adottato nel futuro per garantirsi un ruolo primario nell’ambito dei nuovi scenari geopolitici mondiali. In realtà, nelle attività relative all’iniziativa European Capabilities Action Plan (ECAP), nonostante l’ingente impegno espresso in termini di risorse umane e finanziarie), sono rimaste irrisolte le problematiche legate alle carenze capacitive. Attraverso la formulazione dell’Headline Goal 2010 (HLG 2010), l’Unione Europea decise di darsi nuovi obiettivi con l’intento di soddisfare le mutate esigenze della European Security and Defence Policy (ESDP), “disporre cioè di forze più flessibili, caratterizzate da elevata prontezza, altamente proiettabili ed interoperabili”[1].

Ed infine, nel corso del semestre di Presidenza italiana dell’Unione, il Consiglio europeo approvò il documento per la costituzione dell’European Defence Agency: la Joint Action del 12 luglio 2004, responsabile della promozione di una ricerca di individuazione della leadership nelle tecnologie strategiche per le future capacità di difesa e di sicurezza. Per tali motivi poi, si rese necessario mettere a punto proposte per accrescere l’efficacia della politica europea di sicurezza e difesa comune (PSDC) e rafforzare le capacità di difesa e l’industria della difesa.

Tale iniziativa non è stata esente da critiche né tanto meno da polemiche, considerando  quelle già in atto per la creazione di un quartier generale militare dell’Ue a Bruxelles. La Ashton, la Commissione e la Francia, sostenuta da Germania, Italia, Spagna e Polonia, risultano favorevoli a questo progetto “ideal tipo”, che darà luogo ad un vivo dibattito nel corso del vertice Ue del prossimo dicembre.

 

Conclusioni

La sicurezza europea del nostro collettivo immaginario ci rimanda ad un ideale di Stati democratici,  retti da una “good governance globale”, perdendo di vista il processo di globalizzazione, che irrompe e destabilizza i rapporti ed i giochi di forza, mettendo a repentaglio ed in crisi le differenze, i valori e l’intero scacchiere internazionale. L’emergere di un mondo multipolare e disomogeneo, in cui emergono nuovi elementi, identificati da nuove minacce: sicurezza informatica, proliferazione nucleare, terrorismo, criminalità, sicurezza energetica, cambiamenti climatici, nonché con l’affermarsi di nuovi attori, che chiedono di dare nuova sostanza al multilateralismo europeo ed il proliferarsi di un multipolarismo asimmetrico; tutto ciò ha influenzato le strategie dell’ Unione Europea e gli strumenti per attuarle, “il potere normativo dell’Ue e la volontà di proiettare i propri valori democratici non sono scomparsi, ma vengono ricondotti ai concetti di sicurezza umana e della responsability to protect ad essa collegata”[2]. La revisione di questo modo di considerare la sicurezza europea rappresenta il punto di inizio e di svolta per un lungo processo di trasformazione dell’Europa “da consumatore a produttore di sicurezza[3], ed è nel quadro di questo processo che dovrebbe essere interpretata e che molto probabilmente è già stato interpretato il “progetto di una intelligence europea”.

 

Caterina Gallo

 

Fonti:

http://www.agccommunication.eu/geopolitica/regoledingaggio/4517-ue-nsa-copernico-sentinel?highlight=WyJkcm9uaSIsInNwaWEiLCJkcm9uaSBzcGlhIl0=;

 

http://www.lantidiplomatico.it/dettnews.php?idx=11&pg=5236



[1] Agenzia Europea di Difesa, Vincenzo Camporini (Capo di Stato Maggiore della Difesa), Affari esteri, p. 124 – n. 161, 2009

[2] Riguardo alla responsability to protect si veda E. Greppi, Crisi in Zimbawe e “responsability to protect” della comunità internazionale, ISPI Policy Brief, 91 luglio 2008

[3] V. E. PARSI, La vera sfida dell’Europa. Da consumatore a produttore di sicurezza, in M. TELO’, L’Europa nel sistema internazionale. sfide, ostacoli e dilemmi nello sviluppo di una potenza civile?, Bologna 2008.

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LA CRISI SIRIANA EVIDENZIA CHE IL MAR MEDITERRANEO È ANCORA CRUCIALE NELLE AMBIZIONI GEOPOLITICHE

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Il seguente articolo è stato originariamente pubblicato nell’edizione del 17/10/2013 del quotidiano cinese in lingua inglese “Global Times”

La crisi siriana e le sue ripercussioni dimostrano che i politici e gli analisti non possono ignorare il Mediterraneo se vogliono affrontare seriamente le sfide globali. Dopo il colpo di Stato militare in Egitto contro l’ex presidente Mohammed Morsi, il parere dei media sulla Siria è cambiato e molte persone hanno cominciato ad avere più consapevolezza del pericoloso ruolo dell’estremismo islamista annidato tra gli elementi dei gruppi ribelli siriani.

Così anche l’opinione pubblica si è pronunciata fortemente contro il coinvolgimento occidentale in un’ennesima guerra. Sebbene con alcune ambiguità, i governi dell’Italia e della Germania restano contrari a qualunque intervento militare in Siria al di fuori dell’approvazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Anche se Roma e Berlino non hanno mai messo seriamente in discussione le loro politiche atlantiste, non possono permettersi di intervenire militarmente in Siria. Dopo l’avvio delle sanzioni contro il governo siriano da parte dell’Unione Europea, la bilancia commerciale italiana ha perso circa 2 miliardi di euro. Se gli Stati Uniti e la Francia dovessero muovere guerra contro la Siria, le perdite commerciali per l’Italia aumenterebbero e la sicurezza collettiva sarebbe notevolmente compromessa. Anche la cancelliera tedesca Angela Merkel ha espresso le sue forti preoccupazioni per un’escalation militare in Medio Oriente.

Dieci anni dopo l’invasione statunitense dell’Iraq, nella regione sembra prendere piede una nuova coscienza politica secondo cui gli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna non dovrebbero decidere unilateralmente di aggredire un Paese sovrano. I Paesi dell’Europa meridionale, come l’Italia, la Spagna e la Grecia stanno vivendo una dura crisi economica e attualmente non hanno sufficienti mezzi e credibilità per proporre una politica comune mediterranea tesa alla stabilizzazione della regione.

Tuttavia Washington, Parigi e Londra non possono capire e rappresentare appieno gli interessi dei popoli mediterranei. Secondo le voci critiche dell’Europa meridionale, queste tre potenze mondiali stanno soltanto riadattando alle circostanze il vecchio schema coloniale dell’accordo Sykes-Picot e costruendo nuove sfere d’influenza, senza alcuna considerazione per le popolazioni locali, per i loro diritti e per la loro sovranità. Il territorio siriano sembra costituire il pivot di questo nuovo Grande Gioco mediorientale.

Sin dall’inizio della crisi siriana, il Mediterraneo meridionale è diventato un inferno geopolitico. Le violente rivolte hanno lasciato sul terreno migliaia di vittime. Le economie di molti Paesi mediorientali sono state sconvolte. Mentre il terrorismo islamista ha generato paura e violenza non solo nei Paesi musulmani ma anche in Europa, non solo contro i musulmani pacifici ma anche contro i cristiani.
Un anno fa, l’allora segretario di Stato americano Hillary Clinton disse che il Pacifico sarebbe stato il più importante teatro marittimo del XXI secolo. Questo è senz’altro vero, ma solo in parte perché l’ultima escalation in Siria evidenzia anche l’enorme importanza del Mediterraneo. “Cos’è il Mediterraneo?”, si chiedeva molti anni fa lo storico francese Ferdinand Braudel nella sua celebre ricostruzione storica della regione, rispondendo che “È mille cose insieme. Non soltanto un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare ma una successione di mari. Non una civiltà ma una serie di civiltà accatastate l’una sull’altra. Per migliaia di anni tutto è confluito verso questo mare, scompigliando e arricchendo la sua storia”.

Il futuro di questa regione dovrà essere costruito attraverso lo sviluppo, il dialogo interreligioso e la comprensione reciproca, non certo attraverso l’imperialismo e il fanatismo religioso.

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LA STRATEGIA D’IMPIEGO DELLA MARINA MILITARE ITALIANA

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L’operazione Mare Nostrum rappresenta l’ultimo intervento, in ordine di tempo, della Marina Militare Italiana. Sono cinque le unità di altura coinvolte nella missione, oltre all’appoggio aereo con elicotteri, velivoli Piaggio, i Breguet Atlantic ed i droni. In ordine economico, l’impegno è abbastanza gravoso, e la cifre sono oggetto di contendere fra la stampa specializzata, come il Sole 24 ore, ed i dati resi dal Ministero della Difesa, dove la differenza oscilla dai quattro ai dieci milioni al mese. Il punto di partenza per calcolare l’importo, lo si potrebbe desumere dal costo giornaliero della fregata Maestrale, impiegata in Mare Nostrum, che sembra si avvicini ai 60.000 euro.

L’operazione dovrebbe svolgersi congiuntamente con il sistema di pattugliamento europeo Frontex e con quello di rilevamento dell’Unione Europea Eurosur, ma il primo non ha unità nel canale di Sicilia ed il secondo sarà pienamente operativo solo a dicembre. Il Ministro della Difesa Mario Mauro ha definito questa iniziativa come un rafforzamento del dispositivo di sorveglianza e soccorso in alto mare, ma l’invio di due fregate, con capacità antiaree ed antisommergibile, lascia trasparire un impiego diverso della flotta italiana, la quale con tutta probabilità sarà chiamata ad operazioni militari, forse congiuntamente con la marina libica.

Di fatto, la collaborazione fra i paesi che si affacciano sul Mediterraneo torna ad essere oggetto di approfondimento. La tecnologia industriale europea della difesa è imperniata sulle capacità operative poste all’implementazione ed alla produzione di beni a servizio delle Forze Armate appartenenti alla UE, una peculiarità per lo sviluppo economico e per la proiezione militare e diplomatica dell’intero sistema continentale. Gli attori partecipanti sono tra loro difformi sul piano finanziario, ma tutti rappresentano un valore aggiunto in questo contesto; alcuni sono strutturati per la produzione e l’integrazione di piattaforme e sistemi d’arma, altri sono specializzati nei sistemi e sottosistemi sia nell’ambito motoristico quanto nell’ingegneria meccanica. Le alleanze politiche, strategiche ed economiche dell’Industria Europea della Difesa, l’European Defence Technological and Industrial Base, ha iniziato dal 2000 un percorso di aggregazione verso nuove aziende con accordi di cooperazione imperniate sull’export. La crisi finanziaria internazionale ha ingenerato un profondo impatto negativo in ordine di domande, sicché i Governi dell’EDTIB sono stati costretti a rivedere al ribasso i programmi di investimento sulla difesa, andando a ledere significativamente la capacità militare congiunta nell’ambito delle cooperazioni NATO, in particolare nel distaccamento delle unità di altura per la Forza di intervento rapido e per la missione Active Endeavour a prevenzione di terrorismo e traffico d’armi. Sotto il profilo economico, l’EDTIB ha tentato di contenere l’effetto della crisi sul comparto industriale continentale, promuovendo l’iniziativa di esportare beni verso i paesi emergenti extraeuropei, senza però riuscire ad arginare completamente le ricadute dei tagli alle spese sulla competitività finanziaria, ed in particolare sui livelli occupazionali.

Un tentativo di impulso al mercato è giunto dalla fusione di aziende protagoniste nel settore, ad esempio il trattato franco-italiano siglato nel novembre 2005, ma i risultati sono stati variabili in termini finanziari, dunque non risolutivi. La sfida che gli Stati Membri dell’UE si sono posti, è quella di arginare la crisi identificando nuove aree di sviluppo come i segmenti di mercato dell’elettronica e della sicurezza, finalizzando le risorse ed ottimizzando le iniziative verso accordi bilaterali fra gruppi anche di diversa nazionalità, ma sempre in ambito dell’EDTIB. In questo insieme si colloca in controtendenza l’implementazione della flotta italiana, con il varo delle modernissime fregate FREMM, i sommergibili a propulsione AIP ed otto pattugliatori. Per le prime è previsto un ulteriore stanziamento di 749 milioni di euro per la realizzazione di ulteriori due unità, oltre le quattro già finanziate dalle legge di stabilità 2013. La decisione finale dovrà concretizzarsi tra il 2014 ed il 2015.

“Milano Finanza” ha riportato un costo unitario di 300 milioni per ogni singolo pattugliatore, che dovrebbero essere inseriti nel bilancio a seguito di una indagine del Centro Studi e Ricerche del Mezzogiorno, della Banca d’Italia ed Assoporti. Alcuni economisti hanno ipotizzato che su una base di 100 euro investiti, il sistema finanziario nazionale dovrebbe trarne 249, dunque un impatto positivo sul prodotto interno lordo che potrebbe agevolare un impulso nella dinamica economica italiana. Una ulteriore ricaduta al sistema Italia, arriverebbe dai proventi dell’export, secondo la valutazione del Capo di Stato Maggiore della Marina: su tre unità prodotte una sarebbe esportata. I ricavati delle vendite saranno diretti a sostenere l’industria della Difesa ed entro i prossimi 5 anni dovrebbero essere dismesse 26 unità. Le fregate FREMM, rappresentano il più importante programma militare congiunto in ambito europeo, con un investimento complessivo di 11 miliardi di euro ripartiti fra Francia, 6,5 miliardi, ed Italia, 4,5. I fondi verranno stanziati dal Ministero per lo Sviluppo Economico e da quello della Difesa nel prossimo biennio per un importo pari a 261 milioni nel 2014 e 268 nel 2015, che si sommano ai 321 erogati nel 2013. Le aziende partecipanti al progetto sono la Orizzonte Sistemi Navali, costituita da Fincantieri e Finmeccanica, e la francese Armaris. In particolare, nel programma di sviluppo sono interessate: la Selex Sistemi Integrati, la Oto Melara e la Wass, un comparto produttivo di grande valenza per l’economia e per l’alta tecnologia nazionale, con importanti capitali sociali ed un alto livello occupazionale; la sola Finmeccanica ne conta oltre 39.000. Quello della cantieristica navale, si attesta come settore in crescita: i ricavi della Finmeccanica nel 2012 hanno superato i 17 milioni di euro, che si associano ai 15 di Fincantieri. Quelli relativi al primo semestre del 2013, analizzati nel settore Difesa e Sicurezza, mostrano segnali positivi, seppur in calo rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, ma sono migliori nei confronti degli introiti previsti in sede di bilancio dalla Finmeccanica. La curva dei guadagni è favorevole a quelli stimati nel comparto Aerospazio e Difesa e dunque nel complesso il risultato è migliore se confrontato con le aspettative. La consegna delle unità di superficie è già in essere, con l’ultima che dovrebbe prendere il mare nel 2021. Un investimento notevole, in ragione del momento di crisi, ma recuperabile nel corso della vita minima di attesa operativa delle unità navali, stimata a circa 30 anni. Tale limite è imposto dalla fatica delle strutture e dal deterioramento degli apparati, che ingenerano una significativa lievitazione dei costi relativi alla manutenzione. Attualmente, le fregate Grecale, Libeccio e Maestrale hanno superato la soglia critica, rendendole pertanto obsolete, ma mantenerle operative è un preciso intento del Governo allo scopo di recuperare il ritardato rinnovamento dell’intero sistema aeronavale. L’industria della difesa italiana in materia di vendite ed a livello occupazionale, è uno dei comparti produttivi più attivi dell’intero sistema del paese, infatti annovera quasi 64 mila addetti. L’Italia è al settimo posto nel mondo tra i produttori di sistemi d’arma, sia di seconda fascia che complessi, e la Finmeccanica è fra le prime dieci aziende nel settore. In termini di volume di affari nel campo tecnologico, riferito all’integrazione dei sistemi, ai singoli apparati o sottosistemi, partecipano attivamente gruppi come l’Avio e l’Iveco. La scelta del Governo italiano di approvare la costruzione delle nuove fregate, ha un fondamento preciso: lo scenario futuro avrà la Marina Militare come attore protagonista a garanzia della libera navigazione per favorire le opportunità economiche e commerciali, non solo in aree come quello del Pacifico o dell’Oceano Indiano, quanto nel Mediterraneo stesso, perché dal Golfo Persico transita il 40 per cento dei beni sia come merce importata che esportata dell’intera Europa. L’economia è condizionata dalla possibilità di importare a costi competitivi l’energia e le materie prime; attraverso il mare l’Italia scambia il 54% delle merci, importa il 75% del petrolio ed il 45% del gas per il fabbisogno energetico interno.

Altro ruolo sarà l’apporto marittimo alle politiche dell’UE e della NATO, perché in Europa sono quattro le marine di rilievo: Francia, Spagna, Inghilterra ed Italia. L’esigenza di una maggiore cooperazione, si palesò durante la crisi Libica, dove si rese necessaria una rapidità di reazione al di fuori del Paese africano, senza coinvolgere le truppe terrestri. Il compito venne svolto con successo sulla base della velocità di intervento, della sorveglianza e deterrenza, le quali sono possibili solo con elevate capacità operative. Quest’ultime sono fondamentali anche per opporsi alla pirateria, al terrorismo ed alla guerra asimmetrica, ossia dal confronto fra Nazioni dalla forte capacità militare ed economica. Dunque, è necessario garantire la difesa e la sorveglianza integrata marittima, non solo nelle acque nazionali, ma la si deve estendere dal Golfo di Aden all’Oceano Indiano con il preciso scopo di limitare le ripercussioni sulla terra ferma delle attività criminose provenienti dal mare, sostenendo la legalità ed il libero scambio economico. Le unità della MMI, incrociano continuamente nello Stretto di Sicilia con la consegna di monitorare i flussi migratori e per tutelare i pescherecci. Sono nel Corno d’Africa nell’operazione antipirateria Atlanta, nell’Oceano Indiano a protezione delle navi mercantili e nel Golfo di Aden nell’ambito del progetto Ocean Shield. La flotta italiana dovrà proiettarsi verso una flessibilità di impiego a supporto di attività diverse, spaziando dalla cooperazione militare a quella umanitaria, dove le forze armate italiane si sono già distinte. Il contributo nel ruolo interforze tattico della MMI in ambito UE e NATO, è di appoggio alle forze di terra in quelle aeree oppresse dalle guerre civili, dalle calamità naturali e più in generale da situazioni di emergenza, come in Libano, in Libia e Haiti, dove sono stati tratti in salvo sia cittadini italiani sia stranieri con la flessibilità dei mezzi, come l’utilizzo della portaerei Cavour trasmutata a ruolo di nave ospedale e non più di proiezione di forza. Nell’attuale contesto di crisi economica e nel quadro di risanamento delle finanze, probabilmente si renderà necessario uno snellimento ed una ristrutturazione delle unità sia di superficie quanto di quelle sottomarine. In questo ambito si colloca la nuova classe FREMM, di cui è stato impostato il sesto esemplare con la consegna stimata per il 2017.

Tali fregate hanno un dislocamento di 6000 tonnellate e sono propulse da due motori elettrici alimentati da quattro generatori diesel da 2100 KW. Possono raggiungere i 29 nodi ed a 15 nodi sono in grado di una autonomia di 11.000 Km o 55 giorni di crociera. I sistemi di bordo, principalmente sono composti dal radar di navigazione a bassa probabilità di intercettazione LPI SPN-730 / Selex SPN 753, dal radar di scoperta IR SASS Galileo, da due sistemi di puntamento multi sensore, sia infrarosso che radar MSTIS NA 25X, radar per appontaggio elicotteri e l’IFF SIR-M5 PA. Le unità dispongono inoltre della tecnologia per la comunicazione Datalink Link 11,16 e 22 M-DLP e della satellitare SATCOM. Il sonar attivo è montato sul bulbo Thales 4110CL, dotato anche di telefono subacqueo, con trasduttore WASS composto da 500 idrofoni. Le FREMM ASW montano un sonar rimorchiato a profondità variabile attivo a bassa frequenza Thales 4249 ed un sonar antimine WASS SNA-2000-I. La difesa antinave ed antisommergibile è affidata ai missili a lungo raggio del tipo MBDA Teseo Mk2 Block IV, al sistema combinato missile/siluro a medio raggio tipo MBDA Milas ed a due sistemi lanciasiluri con caricamento semi-automatico da 324 mm per gli MU 90 Impact. Quest’ultimo è un siluro ad alta velocità, che sembra essere in grado di eludere le contromisure, oltre alla peculiarità di una versatilità d’impiego, sia a quote elevate che su bassi fondali, in ambienti acustici perturbati e molto severi. Tra il 2007 ad oggi, le fregate FREMM classe Bergamini, hanno ricevuto alcune modifiche, innanzi tutto con un allungamento della poppa, sembra per bilanciare un appruamento evidenziatosi durante le prove in mare, ma ufficialmente a permettere un più agevole appontaggio per gli elicotteri EH-101. Altra implementazione ha riguardato le scorte di carburante e la dotazione dei lanciatori verticali Sylver, con una cadenza di tiro pari ad 8 missili al secondo, accoppiato al sistema missilistico antiaereo SAAM-ESD per migliorare la difesa aerea con i vettori Aster 15 e 30, ed antinave Scalp. A questo è associato il radar multifunzione 3D EMPAR SPY-790, il quale è in grado di svolgere contemporaneamente compiti di sorveglianza aerea a medio raggio e guida missili. Dispone del rilevamento tridimensionale, tracciamento fino a 12 bersagli multipli e 300 tracce simultanee. E’ del tipo passivo a singola faccia rotante ed opera in banda C e G, con una portata di oltre 100 Km ad una velocità di rotazione dell’antenna pari a 60 giri al minuto. L’antenna inclinabile, è in grado di generare un fascio elettronico con una scansione compresa nell’arco di +/- 45° in profondità e di +/- 60° in elevazione. La scoperta di superficie è affidata al sistema RASS che opera in banda E ed F. La versione FREMM multiruolo disporrà di depositi automatici per le munizioni dei due cannoni a tiro super rapido da 120 colpi al minuto Oto Melara 76/62, usato come protezione anti-aerea, anti-missile e per la difesa di punto. Agevolato dal calibro, può essere impiegato anche in altri ruoli, come il bombardamento navale e costiero. Il cannone è controllabile da remoto ed è armato con munizioni convenzionali, dalle incendiarie alle perforanti, fino ai proiettili a frammentazione con spoletta di prossimità.

Nel progetto di acquisizione della classe Bergamini, sei fregate avranno compiti multiruolo e quattro saranno configurate per l’ASW. Se la crisi inciderà in modo negativo sullo stato di avanzamento del programma, è plausibile supporre che sarà bloccato proprio a quest’ultima appena impostata. In tal caso, probabilmente, tutte le unità della classe Bergamini dovranno essere configurate come multiruolo per la difesa antinave, antiaerea, per l’attacco al suolo in profondità, il bombardamento contro costa ed antisommergibile. Per raggiungere un compromesso, il Ministero della Difesa potrebbe valutare di ridurre le FREMM ad otto e destinarne due alla guerra antisommergibile. Tale analisi è nel computo di una condizione più ampia che coinvolge l’intera flotta, destinata ad essere ridotta a sole 22 unità, almeno secondo una stima del Ministero della Marina Militare. La Francia, ha disposto la costruzione di nove FREMM in versione ASW, e due per la difesa aerea. L’ultimo varo è previsto per il 2022. L’accordo fra Italia e Francia non è limitato alla sola produzione congiunta delle fregate, ma le due Nazioni hanno istituito un comitato bilaterale che ha la finalità di favorire una visione di insieme sui futuri progetti, sia in materia di difesa quanto di sicurezza europea, oltre che di cooperazione per lo sviluppo di sistemi d’arma, con lo scopo di coordinare ed ottimizzare le capacità tecniche. L’Italia è il primo paese compartecipante per gli armamenti con la Francia, in particolare sui sistemi missilistici contraerei, aria-terra e lanciarazzi.

La cooperazione continua nell’ambito elicotteristico, UCAV ed aerospaziale. Quest’ultimo è imperniato sui satelliti radar ed ottici, i quali agevoleranno un punto di vista attualizzato della situazione tattica relativa alle missioni di prevenzione e risoluzioni delle crisi, ed in campo civile soddisferà i bisogni crescenti nelle telecomunicazioni dei principali attori istituzionali. Dismesso l’ultimo incrociatore e con la Garibaldi che sarà probabilmente rinnovata e convertita in portaelicotteri, la nave di maggior valore resterà la Cavour, ma la forza navale ha nelle fregate il suo punto di forza. Alla precedente classe Maestrale ora sono affiancate proprio le FREMM. Per versatilità d’impiego, però, i cacciatorpedinieri recitano la parte dei protagonisti: fra questi i recenti Andrea Doria e Caio Duilio, che sono delle ottime piattaforme di lancio, con dotazioni all’avanguardia in tutti i compartimenti delle unità. La componente subacquea è formata da sei battelli, in particolare con i due formidabili 212A propulsi dai silenziosissimi motori AIP a celle di combustibile, che hanno consentito alla MMI una innovazione sia in termini tecnologici che di impiego. In definitiva, la scelta di abbandonare o proseguire nell’assemblaggio delle FREMM, decreterà la continuità della Marina Militare Italiana nell’assolvere o meno i compiti istituzionali e le collaborazioni internazionali, per confermare la presenza dell’Italia nell’ambito delle alleanze geopolitiche e strategiche, nelle operazioni umanitarie ed a garanzia della sicurezza dei mari.

 

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INCURSIONI UNGARE IN EMILIA

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Nella foto a destra: il “Ponte d’Attila” a Parma

 

Da Parma a Reggio

 

Nel 1988, quando Parma venne gemellata con Szeged, nessuno ricordò che il re Attila, sepolto nel letto del Tibisco nei pressi della città ungherese, era l’eponimo di un ponte sul torrente Parma.

Infatti il più meridionale dei ponti che a Parma attraversano il torrente omonimo, al di fuori delle antiche mura, almeno dal XIII secolo è chiamato Ponte Dattaro: “pons, qui est super flumen Parmae, qui dicitur Datari“, si legge negli statuti comunali del 1266. La tesi che collega il nome ad una ipotetica famiglia Dataro non è documentata, mentre la denominazione può essere spiegata solo se si considera che il ponte venne anche indicato come Pons Atilae, “Ponte di Attila”.

Il re unno però non fu mai a Parma; anzi, non risulta che sia mai sceso a sud del Po. Dopo avere espugnato Aquileia il 18 luglio 452 e dopo averla distrutta, egli si diresse verso il grande fiume e, seguendone la riva sinistra, avanzò fino a Pavia e fino a Milano, saccheggiando anche queste città, una dopo l’altra. Alla fine dell’estate le forze unne si erano spostate di 130 chilometri a sud-est di Milano, in direzione di Mantova. Fu lì, nei pressi del Mincio, che Attila ricevette la famosa ambasceria inviatagli dall’imperatore Valentiniano III e guidata da papa Leone Magno in persona, dopo di che fece ritorno nel bacino dei Carpazi.

La denominazione di Pons Atilae, sfuggita all’attenzione dei linguisti che hanno indagato sulla presenza del nome di Attila nella toponomastica (1), costituisce verosimilmente una delle tante tracce lasciate nella nomenclatura toponimica dalle incursioni degli Ungari, i quali, essendo correntemente identificati con gli Unni, rinverdirono mezzo millennio più tardi la fama leggendaria del “flagello di Dio”.

Finora si è ritenuto, sulla scorta di quanto scrive Ireneo Affò (2), che l’unico indizio del passaggio degli Ungari nel territorio di Parma fosse rappresentato dalla “traslazione delle reliquie di San Nicomede da Fontanabroccola a Parma, ben protetta dalle sue mura” (3) e che un altro probabile segno del loro passaggio fosse “la desolazione di una chiesa a Guastalla” (4), che apparteneva alla diocesi di Reggio.

Ciò dovette avvenire all’epoca dell’incursione iniziata nell’898, quando gli Ungari, che erano entrati in Emilia nei pressi di Piacenza e ne avevano devastati i sobborghi, nell’anno 900 infuriarono nel Reggiano danneggiando gravemente San Tommaso e probabilmente la cattedrale stessa.

Nel Catalogo dei vescovi di Reggio (5) si legge che in quella circostanza gli Ungari trucidarono, insieme con molti chierici, anche il vescovo Azzone (Azzo, qui interfectus est a paganis).

Benché la notizia dell’uccisione del vescovo di Reggio non sia del tutto certa e sia stata contestata già nel sec. XVIII (6), tuttavia i danni riportati dalla Chiesa reggiana furono così ingenti, che Berengario dovette intervenire elargendo beni di proprietà regia, “providens – come si legge testualmente in un diploma dell’anno 904 – eiusdem ecclesiae necessitates vel depredationes atque incendia quae a ferocissima gente Hungarorum passa est” (7).

Il monastero di San Tommaso poté così essere ricostruito: “coenobium Sancti Thomae (…) reaedificatum, olim ab infidelibus funditus destructum“, secondo quanto si legge in un documento (8).

Il vescovo di Reggio succeduto ad Azzone, subito dopo l’incursione che probabilmente era costata la vita al suo predecessore, nell’ottobre dell’anno 900 ottenne da Ludovico III il diritto di fortificare la sua chiesa con un giro di mura: “licentiam circundandi iam dictam ecclesiam per girum suae potestatis (…) excelsa munitione undique ad perpetuam ecclesiae suae defensionem” (9).

Undici anni dopo, imitando altri vescovi e signori feudali che si affrettavano a costruire fortificazioni atte a difendere le popolazioni dalle incursioni ungare, il vescovo di Reggio costruì un castello in una località chiamata Vicolongo (10). La ricostruzione delle chiese e dei conventi devastati dagli Ungari si protrasse fino al sec. XI; nell’anno 1000 venne fondato a Reggio un nuovo monastero, dedicato a San Pietro e a San Prospero.

 

 

Da Modena a Bologna

 

Proseguendo dunque la loro cavalcata lungo la via Emilia, gli Ungari arrivarono a Modena, probabilmente verso la fine di gennaio.

La leggenda di S. Geminiano, la sola fonte di questo episodio, racconta che all’arrivo dei barbari il vescovo, il suo clero e i fedeli si diedero alla fuga, abbandonando al proprio destino sia la chiesa in cui era sepolto San Geminiano sia gran parte del tesoro della chiesa. Entrati furibondi nella città deserta, gli Ungari sarebbero rimasti per qualche ora nella chiesa di San Geminiano e poi avrebbero lasciato la città senza torcere un capello a nessuno (sine alicuius laesione), grazie all’intercessione del Santo (obtentu gloriosissimi et saepe nominandi patris) (11).

Gina Fasoli, nel vecchio ma ancor fondamentale studio su Le incursioni ungare in Europa nel secolo X, ha sollevato una serie di irriverenti obiezioni alla versione agiografica dell’evento.

“Ci si domanda infatti – scrive la Fasoli – a che cosa servivano le mura innalzate dal vescovo Liduino, se i barbari entrarono così facilmente senza combattere (…) e ci si domanda anche a che cosa servivano quelle scolte modenesi che vigilavano dall’alto delle mura invocando contro gli Ungari la protezione di S. Geminiano (…) come mai i Modenesi fuggirono dalla loro città così ben fortificata e dove fuggirono, se scapparono così in fretta che non presero con sé nemmeno le sacre reliquie di S. Geminiano e tutto il tesoro della sua chiesa? (…) Sembra insomma storicamente molto più prudente – conclude la Fasoli – respingere la narrazione dell’Anonimo, anche se è stata finora tradizionalmente accettata, e ritenere che Modena, protetta come Parma e tante altre città dalla cerchia delle sue solide mura, vigilata dai cittadini, non ebbe a patire alcun danno dagli invasori” (12). 

Sicuramente gli Ungari devastarono il contado modenese ed assalirono l’abbazia di Nonantola, uno dei più importanti monasteri dell’Italia settentrionale. A quanto si legge nel Catalogo dell’Abbazia di Nonantola, alcuni monaci, tra cui l’abate Leopardo, trovarono scampo nella fuga, ma la maggior parte di loro fu trucidata e l’edificio venne dato alle fiamme, insieme con la preziosa biblioteca (Venerunt usque ad Nonantulam et occiderunt monachos et incenderunt monasterium et codices multos concremaverunt (…) abbas Leopardus cum certis aliis monachis fugierunt et aliquanto latuerunt). In seguito tuttavia la comunità monastica si ricostituì e l’abbazia fu ricostruita: “Postea vero recongregati sunt et recondiderunt monasterium et ecclesiam” (13).

Mentre si può attribuire agli Ungari “la scomparsa di altri piccoli monasteri nell’agro persicetano che dipendevano dal monastero di Montecassino e di cui si perdono le tracce” (14), risultò invece vano il tentativo dei barbari di appiccare il fuoco alla chiesa di Santo Stefano, situata ad est di Bologna, fuori dalla cinta muraria; un insuccesso, questo, che fu attribuito all’intercessione di San Petronio.

Quanto alla via d’Ungheria, nome portato ancora nel 1294 dall’attuale via Schiavonia a Bologna, Giovan Battista Pellegrini, che si è occupato dei numerosi toponimi italiani relativi agli Ungari, dichiara di non sapere “quale fondamento abbia qui tale nome in rapporto con le incursioni” (15).

Non è escluso, invece, che risalga alle scorrerie di quel periodo la denominazione di strada Ungarista o via Ungaresca data alla strada che presso Forlì correva parallela alla via Emilia.

In ogni caso, da Bologna le schiere ungare tornarono verso il Po e lo passarono “probabilmente ad Ostiglia, nodo stradale frequentatissimo in tutti i tempi” (16).

In giugno, un contingente di truppe ungare attraversò la laguna di Venezia, con cavalli e barchette fatte di pelli, e devastò Chioggia ed altri centri minori; ma il 29 giugno si trovò davanti la flotta veneziana e fu costretto a ritirarsi.

 

 

Il Ritmo Modenese

 

Quel vero e proprio gioiello di poesia latina medioevale che va sotto il nome di Ritmo Modenese fu trovato in un codice del secolo XI della Cattedrale di Modena da Lodovico Antonio Muratori, il quale lo pubblicò inizialmente nelle Antiquitates Italicae Medii Aevi (17) facendolo risalire all’anno 924.

Il carme fu successivamente pubblicato nei Monumenta Germaniae Historica tra i componimenti poetici dell’età carolina (18) da Ludwig Traube, il quale invece lo anticipò al biennio 899-900, cioè all’epoca in cui Modena poté resistere alle incursioni ungare grazie alle sue forti mura ricostruite sul finire del sec. IX dal vescovo Liduino, grazie alla vigilanza delle sue scolte e soprattutto, secondo quanto attestato dal carme, grazie all’intercessione del santo patrono della città.

Il carme esordisce raccomandando agli uomini di guardia sulle mura di vigilare contro il pericolo di un improvviso attacco nemico:

 

O tu, qui servas armis ista moenia, 

noli dormire, moneo, sed vigila !

 

Come exempla di vigilanza, vengono citati due celebri episodi: il primo è quello dell’espugnazione di Troia, addebitata al fatto che le sentinelle si erano abbandonate al sonno e non si erano accorte che dal ventre del cavallo di legno uscivano i guerrieri greci, mentre il secondo episodio è quello delle oche del Campidoglio che misero in fuga i Galli invasori.

Dopo avere invocato Cristo affinché vigili su Modena e ne difenda la cinta muraria con la sua lancia e dopo aver invocato la Santa Vergine e l’Apostolo Giovanni, il carme fa appello ai giovani della città (fortis iuventus, virtus audax bellica) perché si avvicendino nei turni di guardia sulle mura.

A questo punto ci si rivolge a San Geminiano, chiedendogli di pregare il Re dei Cieli affinché salvi Modena dal flagello presente, che pure non sarebbe immeritato:

 

Confessor Christi, pie Dei famule, 

Geminiane, exorando supplica,

ut hoc flagellum, quod meremur miseri,

celorum regis evadamus gratia.

 

D’altronde già “ai tempi di Attila” (Attile temporibus) il santo patrono aveva salvato la città da un pericolo analogo. Infatti, secondo una pia leggenda, per salvare Modena dagli Unni di Attila San Geminiano (che era morto mezzo secolo prima, nel 397) avvolse la città entro una fitta coltre nebbiosa, inducendo i barbari invasori a passare oltre. Si tratta di un miracolo analogo a quello che viene attribuito a San Prospero, vescovo di Reggio Emilia nel V secolo, il quale avrebbe salvato la città da una non meglio identificata incursione di Unni producendo il miracolo della nebbia.

Nel Ritmo Modenese, dunque, la rievocazione della figura di Attila introduce la menzione dei barbari nepoti, che costituiscono la minaccia presente.

Contro le frecce degli Ungari, temibili arcieri, i Modenesi invocano la difesa del santo patrono, anche se per i loro peccati riconoscono di non esserne degni:

 

Nunc te rogamus, licet servi pessimi,

ab Hungarorum nos defendas iaculis.

 

Ed è sempre San Geminiano ad essere ringraziato con questa strofe di ottonari trocaici rimati:

 

Tandem urit Hungarorum 

gens nefanda et cunctorum

loca perdit: sed suorum

Sanctus servat moenia.

 

“Infine la gente nefanda degli Ungari incendia e distrugge gl’insediamenti di tutti; ma il Santo salva le mura dei suoi”, cioè dei suoi Modenesi.

Un altro testo liturgico (19), stilisticamente più elaborato, dice:

 

Stella fulget in nebula,

dum fugit Ungarorum

gens furens, visa cellula,

Flos, in qua confessorum

Geminianus parvula

lux humatus, quam horum

sic mox illaesa singula

liquit gens perfidorum.

 

“Mentre la furente gente degli Ungari fugge, una stella risplende nella nebbia. La celletta in cui è sepolto il Fiore dei Martiri, Geminiano, è una piccola luce, l’unica che l’orda di questi infedeli lascia intatta”.

 

 

La vittoria ungara sul fiume Brenta

 

Cerchiamo adesso di delineare sinteticamente il contesto storico degli eventi che ispirarono l’autore (o gli autori) del Ritmo Modenese.

Il 21 febbraio 896 Arnolfo di Carinzia, re dei Franchi orientali, riceveva in San Pietro la corona imperiale. Già nell’892 il sovrano aveva stretto con gli Ungari un patto per averli alleati contro le popolazioni della Moravia; in pochi anni, gli Ungari annientarono il principato moravo, sul territorio del quale fu creata una zona di confine corrispondente grosso modo all’Austria odierna. Fu così che gli Ungari si resero conto dell’opulenza dei territori occidentali e delle opportunità di bottino che questi presentavano. D’altronde già a partire dall’862, quando erano ancora stanziati oltre il Dnepr, essi avevano effettuato sporadiche incursioni contro i territori orientali del Sacro Romano Impero.

Perciò nell’899, tre anni dopo l'”occupazione della patria” nel bacino danubiano, gli Ungari accolsero ben volentieri la nuova richiesta d’aiuto di Arnolfo, che dopo essere stato incoronato a Roma doveva sistemare i conti col suo rivale, Berengario I.

In primavera (in agosto secondo altre fonti) arrivò dunque nella Pianura Padana un esercito di cinquemila cavalieri ungari che cominciò a devastare e saccheggiare la regione.

Liutprando (915-972) così registra l’evento nell’Antapodosis (20) da lui scritta fra il 959 e il 962, anno in cui diventò vescovo di Cremona.

“Il Sole non aveva ancora lasciato il segno dei Pesci per occupare quello dell’Ariete, quando, dopo aver radunato un immenso e innumerevole esercito (immenso atque innumerabili collecto exercitu) [gli Ungari, ndr] si dirigono in Italia; oltrepassano Aquileia e Verona, città molto ben fortificate (munitissimas civitates), e giungono a Ticinum – che ora con altro termine più insigne viene chiamata Pavia (Papia) – senza che nessuno opponga resistenza (nullis resistentibus). Re Berengario non poté stupirsi abbastanza per un evento così straordinario e senza precedenti (tam praeclarum novumque facinus); prima d’allora, infatti, non aveva nemmeno udito il nome di questo popolo” (21). 

Trovandosi nella necessità di difendere i suoi sudditi dall’invasione barbarica, Berengario, che si trovava nell’Italia centrale, raccolse un esercito di circa 15.000 uomini, 25.000 secondo qualcuno, in ogni caso un numero almeno triplo di quello dei nemici (exercitus triplo Hungariorum validior, dice Liutprando), e marciò verso il Po.

Gli Ungari disponevano di un’intelligenza tattica e di una tecnica militare che consentì loro di infliggere numerose sconfitte ad avversari più numerosi. Ciascuno di loro montava un cavallo, erano addestrati nell’uso dell’arco, della lancia e della spada, cosicché potevano adoperare le armi a seconda delle necessità. La loro cavalleria era in grado di suddividersi in unità militari più piccole, veri e propri “corpi tattici” che ubbidivano disciplinatamente ciascuno al proprio comandante, puntavano tutto sulla rapidità delle operazioni e sull’effetto sorpresa. Prima dell’attacco tempestavano il nemico con una fitta grandine di frecce, provocando lo scompiglio della cavalleria avversaria e investendola subito dopo con i loro cavalli. Maestri nelle astuzie belliche, simulavano la fuga per attirare il nemico in un agguato già predisposto. Diventavano vulnerabili, invece, quando dovevano trascinare pesanti carri carichi di bottino, perché ciò li privava della loro caratteristica mobilità. Le loro incursioni erano sempre precedute dalle attività degli esploratori, i quali si procuravano informazioni sulla natura e sulla situazione politica del paese da attaccare.

Stavolta però gli Ungari si trovano davanti a un esercito che è almeno il triplo del loro. Anzi, siccome Berengario sta per passare il Po, essi, che sono già arrivati a Pavia, temono di vedersi tagliare la via del ritorno; perciò decidono di rinunciare all’impresa e si ritirano a est dell’Adda, ma in tanta fretta e furia che molti vi muoiono annegati.

Ecco come Liutprando descrive la situazione.

“Appena gli Ungari videro una moltitudine così grande, costernati nell’animo, non riuscivano a deliberare circa il da farsi. Avevano un gran timore di combattere, ma non potevano assolutamente fuggire (preliari penitus formidabant, fugere omnino nequibant). Però, ondeggiando nel dubbio, ritengono che sia meglio fuggire anziché combattere; e, sotto l’incalzare dei Cristiani, attraversano a nuoto il fiume Adda, cosicché per la fretta eccessiva moltissimi morivano annegati (persequentibusque Christianis Adduam fluvium natando, ita ut nimia festinatione plurimi necti submergerentur, pertranseunt)” (22).

Vista la mala parata, “gli Ungari prendono la saggia decisione di inviare dei messaggeri a chieder la pace ai Cristiani, al fine di poter ritornare incolumi, restituendo tutta la preda e il bottino (praeda omni cum lucro reddita). I Cristiani respinsero totalmente questa richiesta e, ahimé (pro dolor), – così si lamenta Liutprando – li insultavano, e cercavano catene con cui legare gli Ungari, piuttosto che armi con cui ucciderli. I pagani, non potendo addolcire gli animi dei Cristiani con questa proposta, ritenendo che fosse migliore la vecchia decisione, cercano di liberarsi iniziando la fuga e così fuggendo giungono nelle vastissime campagne veronesi (in Veronenses latissimos campos perveniunt)”(23).

Qui, fra l’avanguardia degl’inseguitori e la retroguardia degl’inseguiti, avviene una prima scaramuccia, che si risolve a vantaggio dei barbari (“in quo victoriam habuere pagani“) (24).Poi, siccome si avvicina l’esercito italico, gli Ungari proseguono la ritirata. Ma, siccome i cavalli ormai sono sfiancati, sono costretti a fermarsi sulla riva orientale del Brenta, sempre incalzati dagli Italici, che si fermano sull’altra sponda.

Ancora una volta gli Ungari si dichiarano disposti a consegnare il bottino, i prigionieri, le armi e i cavalli, tranne quelli necessari per proseguire nella ritirata. Anzi, promettono che, se verranno risparmiati e potranno andarsene sani e salvi, non metteranno mai più piede in Italia, lasciando in ostaggio i loro figli a garanzia dell’impegno assunto. La proposta però viene respinta. “Ma, ahimé, – si lamenta ancora il cronista – i Cristiani, accecati dalla superbia (superbiae tumore decepti), continuano a minacciare i pagani come se li avessero già vinti” (25).  

Il 24 settembre 899 gli Ungari decidono di passare all’attacco, dividendosi in tre gruppi che attraversano il Brenta e aggrediscono su tre lati gl’Italici, che sono scesi da cavallo e si stanno ristorando di cibo e di riposo. L’azione è fulminea: “gli Ungari – scrive Liutprando – li trafissero con così grande rapidità, che ad alcuni infilzarono il cibo in gola (quos tanta Hungarii celeritate confoderant, ut in gula cibum transfigerent), ad altri portarono via i cavalli, impedendo loro la fuga e tanto più facilmente li uccidevano, in quanto avevano visto che erano senza cavalli”.

“Ad accrescere infine la rovina dei Cristiani – prosegue il cronista – vi era tra loro una discordia non piccola. Alcuni, addirittura, non solo non combattevano contro gli Ungari, ma desideravano che i loro vicini cadessero; e questi perversi lo facevano in maniera perversa (perversi ipsi perverse fecerant), al fine di regnare da soli, più liberamente, purché cadessero i vicini. Mentre trascurano di soccorrere alle necessità dei vicini e ne desiderano la morte, corrono essi stessi incontro alla propria. Pertanto i Cristiani fuggono e i pagani infieriscono (fugiunt itaque Christiani, saeviuntque pagani); e quelli che prima non erano riusciti a supplicare coi doni, non sapevano poi risparmiare i supplici” (26).

 

 

Le devastazioni in Emilia

 

In seguito alla sconfitta, Berengario si rinchiuse in Pavia coi resti del suo esercito, ormai praticamente dissolto. La durissima disfatta lo indebolì di fronte all’aristocrazia, che ben presto gli oppose Ludovico di Provenza, e di fronte alle popolazioni, che rimasero esposte alle scorrerie degli Ungari.

Questi infatti ripresero a saccheggiare la Valle Padana, finché alla metà di dicembre una parte di loro da Vercelli si avviava verso il Gran San Bernardo, mentre un’altra parte passava il Po, probabilmente presso Pavia, nel luogo che da loro prese il nome di Popula Pagana, e procedendo sulla riva destra arrivò sotto le mura di Piacenza. Imboccata la Via Emilia, si diressero verso Parma e iniziarono quella serie di devastazioni di cui si è detto più sopra.

Successivamente, fra il 903 e il 904, l’Italia fu obiettivo di un’altra incursione ungara, della quale le fonti non consentono di determinare l’area in maniera precisa.

Probabilmente la nuova scorreria si limitò alle zone a nord del Po; sicuramente coinvolse Aquileia e Piacenza e indusse i bergamaschi a rafforzare le fortificazioni cittadine.

Berengario, che nel frattempo aveva prevalso sul rivale Ludovico III ed aveva ripreso Pavia, stavolta preferì venire a patti con gli Ungari e instaurare con loro relazioni di amicizia, “datis obsidibus ac donis” (27), ossia elargendo donativi e consegnando anche degli ostaggi come pegno di alleanza.

Gli studiosi ungheresi sostengono che nel 904 venne conclusa una vera e propria tregua, la quale fu osservata fino al 919, poiché per quindici anni gli Ungari rivolsero le loro attenzioni a Baviera, Turingia e Sassonia.

Ciò consentì alle popolazioni italiche di predisporre opportune fortificazioni in previsione della fine della tregua. Mentre il vescovo di Reggio succeduto ad Azzone, come già si è detto, erige un castello a Vicolongo, “il Vescovo di Modena, che ha costruito insieme con gli abitanti il castello di Cittanuova [sic] concedendo degli appezzamenti presso le mura, fa ai concessionari obbligo di costruirvi una casa e di abitarvi, di provvedere alla difesa e alla manutenzione del castello, esigendo un censo che varia dall’uno all’altro e senza impegnarsi a non pretendere altri tributi” (28). Tra il 916 e il 922 anche il borgo di Carpi viene rifondato come roccaforte (castrum Carpi).

Nel 919, dopo aver ottenuto la corona imperiale, Berengario dovette far fronte ad alcuni vassalli che gli opponevano Rodolfo di Borgogna; per liberarsi degli avversari, pensò bene di assoldare due contingenti di cavalieri ungari, comandati da due capi di cui Liutprando ci ha trasmesso i nomi: Dursac e Bugat.

Tuttavia, per quanto fossero – sempre secondo Liutprando – “grandi amici” di Berengario, i contingenti ungari si comportarono come in un territorio di conquista. Una parte di questi gruppi si unì ad altre schiere sopraggiunte dall’Ungheria e nel 922 scese per la costa adriatica fino alla Puglia sotto il comando di un Salardo (Szovárd) che probabilmente è da identificarsi con lo Zoard delle tarde cronache ungheresi.

Dopo la battaglia di Fiorenzuola, nella quale Rodolfo di Borgogna si scontrò con Berengario e coi suoi alleati ungari, questi ultimi, comandati da Salardo, il 12 marzo 924 strinsero d’assedio Pavia e la incendiarono con le loro frecce infuocate.

Un mese più tardi, il 7 aprile 924, Berengario cadde vittima di una congiura ordita dai fautori di Rodolfo. I capi ungari, non più legati dal patto col sovrano, nel 927 misero a ferro e fuoco la Toscana e il Lazio, anche qui inserendosi nelle lotte intestine dei signori italiani.

“Particolarmente notevole per la sua estensione territoriale – scrive uno storico delle invasioni barbariche – fu però soprattutto la grande spedizione del 937, che vide gli ungari entrare nella penisola da nordovest, attraverso il Moncenisio e il Monginevro, e spingersi progressivamente sempre più a sud, lungo il tradizionale percorso che conduceva dalle Alpi occidentali a Roma, fino a giungere in Campania, per poi risalire da qui lentamente, uscendo infine, con ogni probabilità, dalla frontiera nordorientale. Proprio nel viaggio di ritorno gli ungari subirono una dura sconfitta per mano degli abitanti della Marsica, i quali sorpresero dentro un’impervia gola montana i nemici, rallentati nella marcia dal cospicuo bottino raccolto nella lunga scorribanda, e inflissero loro una severa punizione” (29).

Una successiva apparizione di Ungari sotto le mura di Roma ebbe luogo nel 942, ma gl’invasori furono affrontati e respinti; e nei pressi di Rieti dovettero subire un’altra sconfitta.

Le ultime scorrerie nella penisola ebbero luogo tra il 952 e il 954, quando vennero attaccate Torino e Susa.

Le incursioni ungare, che tra l’898 e il 955 avevano superato la trentina in tutta l’Europa occidentale, si erano ridotte nel tempo “sia per la maggior capacità di resistenza degli aggrediti sia, forse, per una diminuzione della spinta propulsiva dello stesso mondo ungarico” (30).

Esse cessarono definitivamente dopo la sonora sconfitta che nel 955 Ottone I inflisse agli Ungari a Lechfeld presso Augusta. Da allora gli Ungari si stabilizzarono nel bacino carpato-danubiano, si convertirono al cristianesimo romano e costruirono un regno che costituì un’antemurale contro altri popoli di cavalieri nomadi, come i Peceneghi o i Cumani.

Sei secoli dopo la battaglia di Lechfeld, un documento custodito presso l’Archivio di Stato di Parma e datato 19 febbraio 1559 attesta un giuramento di fedeltà agli Statuti parmensi sottoscritto dai maggiorenti delle Valli dei Cavalieri, tra i quali figurano tre esponenti di una famiglia d’origine ungherese: Magiarus, Hillarius e Bartholomeus de Magiaris.

I de Magiaris, che si estinsero nel XVII secolo, erano probabilmente “discendenti di qualche disertore magiaro, già appartenente allo sconfitto corpo di spedizione ungaro mandato dall’Albornoz ad assalire Parma, durante il periodo della signoria viscontea” (31).

Cessato il periodo delle incursioni, era dunque iniziata nella storia del popolo magiaro una nuova era, nel corso della quale esso era diventato membro della famiglia europea, a pieno titolo e con pari dignità.

 

 

 

1. G. Serra, Da Altino alle Antille. Appunti sulla fortuna e sul mito del nome ‘Altilia’, ‘Attilia’, ‘Antilia’, in Lineamenti di una storia linguistica dell’Italia medioevale, I, Liguori, Napoli 1954, pp. 1-66.

2. I. Affò, Storia della città di Parma, Parma 1792, p. 203.

3. G. Fasoli, Le incursioni ungare in Europa nel secolo X, Sansoni, Firenze 1945, p. 105.

4. G. Fasoli, ibidem. Cfr. I Affò, Istoria di Guastalla, Guastalla 1785, p. 57.

5. Rerum Italicarum Scriptores, VIII, 1170.

6. G.. Tiraboschi, Memorie storiche modenesi, Modena 1798, I, p. 48.

7. I Diplomi di Berengario I, a cura di L. Schiaparelli, F.S.I., Roma 1903, XLII, 904, gennaio 4.

8. G. Bisoni, Gli Ungheri in Italia, in La scuola cattolica e il pensiero scientifico, S. III, 18, 1899, pp. 314-330, 486-502, vol. 19, 1900, pp. 269-295.

9. Dipl. Ludovico III, IV, 900, Ott. 31.

10. Dipl. Bereng. I, LXXV, a. 911.

11. Vita II di S. Geminiano, in Mon. Storia Patria delle province modenesi, XIV, 1, a cura di P. Bortolotti, p. 103.

12. G. Fasoli, op. cit., pp. 107-109.

13. Catal. Abb. Nonant., p. 572; cit. da G. Fasoli, op. cit., p. 109.

14. G. Fasoli, op. cit., pp. 109-110.

15. G. B. Pellegrini, Tracce degli Ungari nella toponomastica italiana ed occidentale, in: C.I.S.A.M. Atti delle settimane di studio. XXXV Popoli delle steppe: Unni, Avari, Ungari (23-29 aprile 1987), Spoleto 1989, p. 323).

16. G. Fasoli, op. cit., 96.

17. Antiquitates Italicae Medii Aevi, vol. III, col. 703.

18. Poëtae aevi Carolini, vol. III, pp. 703-706.

19. G. Cappelletti, Le chiese d’Italia dalle loro origini fino ai giorni nostri, Venezia 1844, XI, p. 213.

20. Liutprandi Ticinensis Ecclesiae Levitae Rerum ab Europae Imperatoribus ac Regibus gestarum, in A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II, pp. 425-476.

21. Liutprando, Antapodosis, II, 9.

22. Antapodosis, II, 10.

23. Antapodosis, II, 11.

24. Antapodosis, II, 12.

25. Antapodosis, II, 13.

26. Antapodosis, II, 15.

27. Giovanni Diacono, Chronicon venetum, F.S.I., G. Monticolo, Roma 1890, p. 22.

28. G. Fasoli, op. cit., p. 217.

29. C. Azzara, Le invasioni barbariche, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 135-136.

30. C. Azzara, op. cit., p. 137.

31. G. Capacchi, Storia, leggenda e araldica “minore” nelle Valli dei Cavalieri, “Aurea Parma”, 1963, p. 76.

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