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IL RAPPORTO TRA ISLAM E POLITICA NELLO SPAZIO POSTSOVIETICO

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Il processo di rinascita islamica nell’Urss prima, nella Federazione russa e Csi (Comunità di Stati Indipendenti) poi, è stato un fenomeno oggettivamente rilevante che si è manifestato a partire dagli inizi degli anni ‘90. Più precisamente, spiegano i curatori russi del volume Islam e politica nello spazio post-sovietico, si dovrebbe parlare di «restaurazione del ruolo dell’islam nella comunità»[1] perché l’islam in quest’area non sarebbe mai morto, nonostante la forte campagna di ateizzazione promossa dal governo sovietico nella sua settantennale esistenza. A partire dal decreto “Separazione della religione dallo Stato e dalla scuola” del 1918, infatti, il sistema di educazione religioso e le strutture cultuali furono destituite di legittimità, limitate nella loro attività, e migliaia di moschee furono distrutte.[2] I contribuiti pubblicati in questo studio offrono materiale di analisi sufficiente per comprendere la portata di tale fenomeno in aree dell’Asia Centrale come quella caucasica e quella del Turkestan comprendente  paesi come Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Turkmenistan. I due autori, Sergej Filatov e Aleksej V. Malashenko, datano l’inizio di tale processo generale di rivitalizzazione dei movimenti religiosi nel 1988, data in cui si festeggiò il millennio del battesimo della Rus’ con la conversione del principe Vladimir I di Kiev (958-1015 d.C.) e in seguito alla quale tutto il popolo russo venne convertito. Tale circostanza eccezionale avrebbe segnato da un punto di vista cronologico un allentamento delle persecuzioni religiose con un cambiamento della posizione del governo sull’ortodossia che si rifletté anche sulla situazione dei musulmani presenti sul grande suolo sovietico.[3] Una tale spiegazione evenemenziale di un processo così imponente si mostra insufficiente se non correlata ad almeno due fenomeni determinanti l’autocoscienza dei musulmani di area sovietica e post-sovietica. Da un lato il periodo della perestrojka gorbacioviana avrebbe determinato da un punto di vista politico-culturale la rinuncia all’ateizzazione forzata (e quest’aspetto è riconosciuto dagli autori); dall’altro tale processo di rinascita islamica si deve inscrivere all’interno di un più vasto quadro politico-culturale di rivalorizzazione ideologica dell’identità religiosa musulmana all’interno dell’Oriente in generale. A tale ultimo processo si può attribuire il nome di Rinascita islamica, le cui cause non possono essere ascritte a fattori religiosi immanenti al mondo musulmano, quanto piuttosto alla situazione ideologica e geopolitica mondiale. Secondo il politologo statunitense Samuel Huntington «ignorare le conseguenze della Rinascita islamica sul quadro politico dell’emisfero orientale di fine XX secolo significa ignorare l’impatto avuto dalla Riforma protestante sulla politica europea del tardo XVI secolo».[4]

Relativamente all’area postsovietica le cause di tale fermento religioso non sono solo di ordine demografico.[5] Da non sottovalutare è il fenomeno di «liberalizzazione ideologica nel paese»[6] dopo il 1989 attraverso la quale organizzazioni di islamisti non conformisti, cioè ostili al regime, percepirono se stessi come soggetti politici legittimati a promuovere rivendicazioni islamiche. A questo tipo di rivendicazioni di carattere culturale-religioso si sovrappose un aspetto etnico che poté manifestarsi talvolta in modo pacifico, come le moschee kazake e kirghise che operano per l’uno o l’altro dei gruppi etnici della popolazione,[7] oppure in modo destabilizzante scatenando processi in cui il separatismo etnico coincide con il settarismo confessionale, come nella prima e seconda guerra cecena (rispettivamente 1994-96, e 1999-2009). Fondamentale presupposto geopolitico dell’analisi degli autori è che «la rinascita islamica in Asia centrale è anche un fattore centrifugo e di tensione verso un consolidamento etnico».[8] Alla luce di questi aspetti non si può che rimanere stupiti dall’opinione dello storico dell’Europa Orientale Andreas Kappeler, secondo cui durante la fase della perestrojka «nell’Asia Centrale non apparvero movimenti nazionali o islamici».[9] Il fenomeno di rinascita islamica nell’area post-sovietica sarebbe infatti già stato attestato dall’orientalista Gilles Kepel nel suo noto La Revanche de Dieu (1991), in cui si trovava scritto che «gli anni Settanta hanno portato alla ribalta i movimenti islamici, dalla Malesia al Senegal, dalle repubbliche musulmane sovietiche alle periferie europee popolate da milioni di musulmani immigrati».[10]

La rinascita islamica nello spazio post-sovietico ricostruita dagli autori si svolge attraverso momenti e dinamiche diversi relativamente alla configurazione storico-politica peculiare delle regioni sovietiche. Da un punto di vista più unitario il fenomeno si caratterizza per una prima fase, databile in modo indicativo dal 1988 al 1991, che consiste nella riattivazione dell’islam sommerso favorito dal processo di democratizzazione. In questa prima fase ha inizio la restituzione delle moschee, la fondazione di associazioni musulmane, di scuole domenicali presso le quali si poteva studiare il Corano e una riabilitazione delle ricorrenze religiose pubbliche. In questa fase la rinascita avvenne certamente a causa di un allentamento della politica ideologica sovietica, ma rimase ancora estranea alla politica ufficiale.

La seconda fase avrebbe inizio proprio con la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991. La trasformazione dell’Urss in Federazione Russa portò alla nascita di una pluralità di realtà regionali in cui l’islam venne assunto come parte integrante, e in alcuni casi determinante, degli elementi ideologici di indipendentismo politico. In questa fase l’islam poté ricevere una legittimazione formale perché ebbe una funzione strumentale e al contempo palingenetica rispetto al rafforzamento delle identità nazionali. All’interno di questa legalizzazione della partecipazione dell’islam alla vita politica iniziarono ad emergere anche gruppi fondamentalisti che avrebbero avuto sempre più manifestamente lo scopo di fondare uno stato islamico all’interno della Csi. Questo fu il fine ultimo di numerosi movimenti islamisti e indipendentisti come il gruppo armato indipendentista ceceno Jama’at assieme al programma presentato da Maskhadov alle elezioni presidenziali del 1997 che prevedeva la costituzione di uno «stato ceceno islamico»,[11] oppure la sezione tagika del Partito islamico della Rinascita (Ipv), i wahabiti penetrati nel Daghestan o l’associazione Badiozman in Uzbekistan. In questa fase di cooptazione dell’islam più moderato all’interno delle ideologie ufficiali, le classi dirigenti post-sovietiche agli inizi degli anni ‘90 scoprirono nell’islam un «potenziale di stabilizzazione della società».[12] Tra il 1989 e il 1990 in Uzbekistan, per esempio, il numero delle moschee aumentò da 84 a 250, le feste religiose tra il 1990-91 vennero dichiarate festività ufficiali e la “luna di miele” tra l’islam e il governo uzbeko in seguito all’efficacia delle dimostrazioni di piazza nella capitale Taškent per chiedere le dimissioni del muftī Babachanov, che presiedeva la Dum (Direzione spirituale dei musulmani dell’Asia Centrale), accusato di essere filo-russo.[13] In seguito la “luna di miele” finì con un dualismo in seno alla comunità musulmana provocato dalla scissione all’interno della Direzione dei musulmani dell’Uzbekistan, che operava un controllo degli ulema volto a saldarli al potere, di musulmani non conformisti che rivendicarono una propria posizione politica contro le autorità laiche. Questo conflitto porterà all’estromissione del muftī Muhammad-Yusuf con l’imam Abdullaev, ligio al presidente Karimov. In particolare la guerra civile tagika fu un segnale che destò numerose preoccupazioni circa l’apertura e l’istituzionalizzazione di organizzazioni islamiche. Come mostra il caso tagiko, la distensione dei rapporti tra governi e organizzazioni islamiche lasciò ben presto spazio ad una terza fase in cui il “fattore islam” si rovesciò in un potenziale di destabilizzazione. Nel maggio del 1992 il governo tagiko diede inizio a persecuzioni contro il Partito della rinascita islamica del Tagikistan (Pivt) che, pur avendo un programma economico di tipo «capitalista allo stato puro»,[14] godeva dell’appoggio di gruppi fondamentalisti della regione del Kuljab.[15] Il conflitto si risolse a favore del governo a causa della scissione in seno al blocco islamico-moderato relativamente a questioni di politica estera: se gli islamisti tagiki erano legati ai confratelli islamisti uzbeki attraverso il legame sovranazionale della umma, l’ala nazionalista del blocco di opposizione tagiko non favorì l’unità con gli islamisti uzbeki. L’interesse geopolitico russo per la regione tagika a forte rischio di instabilità fu determinante per l’intervento della 201esima divisione della fanteria russa.

La terza fase di questo fenomeno di Rinascita islamica, che è scaturita da drammatiche crisi come quella tagika, è definita dagli autori come fase di “delusione” per l’islam ed è collocata tra la fine del 1992 e il 1996. Si fece crescente il timore che all’interno delle regioni post-sovietiche potesse avere inizio «una nuova perestrojka, ma questa volta orientata verso i regimi musulmani conservatori del vicino Oriente».[16] È bene ricordare che all’interno del sunnitismo, comprendente circa il 90% dell’intero insieme di musulmani, vi sono quattro scuole giuridico-religiose (madhhab) che si caratterizzano per diversi orientamenti rispetto alla sharīʿah e alla giurisprudenza islamica (fiq): Malikismo, Sciafeismo, Hanafismo e Hanbalismo. Se infatti è vero che la parte assolutamente maggioritaria dei musulmani nella regione centroasiatica del Turkestan ha professato per parecchi secoli l’islam sunnita di scuola hanafita, tradizionalmente più aperto a possibilità di innovazione, la studiosa Marija Malashenko osserva che «i predicatori del Vicino Oriente, dell’Arabia Saudita, degli Emirati arabi cercano di diffondere in Uzbekistan l’islam del madhhab più radicale, quello hanbalita».[17] In queste aree post-sovietiche l’islamismo, in particolare quello wahabita e hanbalita, costituisce un fattore destabilizzante per i governi che si caratterizzano per un élite politica educata secondo una forma mentis sovietica, e da un punto di vista culturale-religioso esso si presenta come un elemento allogeno rispetto alle forme sincretiche di religione musulmana.

Nell’area kazaka e kirghisa, per esempio, si conservano credenze preislamiche e culti locali talvolta ereditati dall’antica religione protomonoteistica;[18] «in tutte le regioni del Tagikistan – scrive Aziz Nijazi – si conservano riti preislamici, venerazione di santi e di sante, fede nella magia e nei prodigi».[19] Questo insieme di ragioni politico-culturali giustificavano la preoccupazione degli ulema kazaki e kirghisi verso la predicazione di imam stranieri, soprattutto degli Stati arabi, distinta per un forte radicalismo.[20] Già alla fine degli anni ‘80 in Tagikistan, a seguito di una lettera contenente osservazioni su problemi religiosi e socio-politici inviata dal mullah S. A. Nuri al XXVII congresso del Pcus, il governo decise di intervenire con misure repressive contro gruppi islamisti e proibendo pubblicazioni sovversive come quelle dei loro teorici: Sayyid Qutb in primis assieme a suo fratello Muhhammad, ma anche al-Qardawi, Mawdudi, al-Banna e al-Afgani.[21] Indicativo di tale potenziale di destabilizzazione dei gruppi islamisti fu per esempio la posizione del presidente ceceno Maskhadov che, un anno dopo il suo annuncio di creazione di uno “stato ceceno islamico”, si dovette render protagonista, insieme al muftī della repubblica cecena, di una «massiccia campagna di discredito dei wahhabiti, come portatori di un’ideologia estranea al popolo, agenti di servizi segreti e avventurieri politici, orientati a portare la Cecenia ad una nuova guerra con la Russia».[22] All’interno delle repubbliche postsovietiche i governi, in questa terza fase di “delusione” del processo di Rinascita islamica, dovettero reagire a forme di proselitismo proveniente da aree sunnite e fomentato dal capitale saudita di quelli che Kepel definì come «banchieri della reislamizzazione».[23]

Ai fini di una comprensione del carattere potenzialmente destabilizzante dell’islamismo e della sua strumentalità rispetto a rivendicazioni etniche, particolare attenzione in questo volume merita il secondo capitolo di Aleskey Kudrjavcev dedicato alla situazione caucasica e alla genesi della prima guerra cecena. Lo studioso rileva come nell’attuazione di una politica unilateralmente separatista del generale ceceno Dudaev «il fattore islamico giocò un ruolo primario».[24] Dudaev nel 1993 rilanciò l’appello all’islam come strumento di coesione nazionale cecena e per questo fu perfino difeso dai suoi sostenitori come imam,[25] all’interno di una regione dove il processo di islamizzazione dal basso era già in atto. Nel giugno del 1990, infatti, venne fondato il Partito islamico della Rinascita (Ipv) composta da membri musulmani di varie etnie del Caucaso settentrionale e nello stesso anno comparve il partito “La via dell’islam” dell’imprenditore ceceno Gantamirov. I due partiti erano uniti nel fine dell’instaurazione di uno stato islamico indipendente e della lotta contro il governo ateo sovietico: la lotta contro Mosca venne intesa come jihad.[26] Quella “internazionale islamica” che preconizzava una umma fondata sul riconoscimento di uno jus religionis e sul disconoscimento dei confini etnico-territoriali aveva un unico obbiettivo in aree diverse o, per dirla con ‘Abd al-Salam Faraj, ideologo del gruppo egiziano al-jihad, un unico “imperativo occultato”:[27] combattere il Faraone nei paesi arabi socialisti e l’«Impero»[28] nemico dell’islam nello spazio sovietico, cioè le manifestazioni politiche della jahiliyya contemporanea (l’”ignoranza” dell’insegnamento del Profeta, paragonabile a quella preislamica). In questa fase di lotta dell’islamismo vale quanto scrisse Vatikiotis a proposito dell’aprioristica illegittimità di ogni Stato non fondato sulla hakimiyya (sovranità) di Allah dal punto di vista islamista: «finché i propugnatori dell’islam sosterranno che esiste un ordinamento politico specificamente islamico, essi non riconosceranno mai l’autorità di uno Stato che non si basi sui principi della fede».[29]

La quarta e ultima fase analizzata dagli autori di Islam e politica nello spazio post-sovietico è collocata temporalmente nella seconda metà degli anni ’90 e si caratterizza per la nascita di una prima generazione di «musulmani non sovietici».[30] Alla nascita di questa nuova generazione di credenti corrisponde anche l’emersione di una nuova generazione di ulema che vanno dai 22 ai 27-28 anni e che in questo periodo sono già diverse migliaia. Ciò non implica solo un conflitto generazionale con i vecchi ulama cresciuti e  conformatisi al sistema sovietico, ma avrà anche conseguenze sulle nuove forme di islamizzazione delle società post-sovietiche, orientate verso un islam politicizzato e sempre meno conciliato con le autorità. Uno sguardo panoramico sugli sviluppi politico-religiosi dell’islam nello spazio post-sovietico negli anni ’90 ci consente di individuare in Cecenia e Daghestan il focolaio dell’attivismo islamico russo, in Tagikistan e in Uzbekistan (con particolare riferimento all’area del Fergana ad est) quello dell’Asia Centrale. Significativa in questa dinamica era la tattica politica espressa D. Usmon, ideologo dell’opposizione islamista tagika ed ex membro della direzione del Partito islamico della rinascita (Ipv) dell’Urss, secondo cui nell’impossibilità di costituire una repubblica islamica agli inizi degli anni ’90 si sarebbe resa necessaria la creazione di un sistema multipartitico da impiegare per eliminare il monopolio del Partito comunista nella gestione del potere. Lo stato democratico di diritto, per quanto teologicamente impuro per definizione rispetto al concetto di hakimiyya, svolgerebbe in questo modo una funzione strumentale alla causa islamica per una ragione che fu già individuata da Huntington: nei sistemi elettivi parlamentari non occidentali «la competizione elettorale può portare al potere forze nazionaliste e fondamentaliste antioccidentali».[31] Se il nesso tra fondamentalismo e anti-occidentalismo non è affatto pacifico, come dimostra la prassi politica delle petromonarchie saudite, tale tattica ha però risvolti interessanti per la comprensione della recente ascesa delle forze politiche islamico moderate e capitaliste nel nord Africa e Medio Oriente in lotta contro i regimi socialisti e baathisti. In questo modo le rivendicazioni islamico-democratiche tese alla creazione di sistemi liberali multipartitici farebbero pressione per la creazione di un sistema che diviene vittima di sé stesso: l’islamizzazione dal basso alleata delle forze più liberali troverebbe poi nello stesso “Stato di diritto” un limite alla sua politica. L’oscillazione tra orientamento estero ed economico di tipo occidentale e l’inizio di un’interna islamizzazione dall’alto incapace di controllare quei fenomeni di islamizzazione scatenati dal basso, sarebbe pertanto un indice di tale difficoltà.

In questo volume pubblicato in Italia ormai nel 2000, sono compresi sette saggi dedicati alle aree centroasiatiche e a questioni diverse, come per esempio al rapporto tra islam e forze armate nella Russia contemporanea. Lo studio delle fasi successive dello sviluppo dell’islamismo nello spazio post-sovietico non può quindi essere qui incluso, ma alcune linee di tale sviluppo sono già tracciate e certamente meritano nuovi studi approfonditi.

 

 




[1] FILATOV S. – MALASHENKO A. V., Introduzione, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, a cura di Filatov S. – A. V. Malashenko, Fondazione Agnelli, Torino, 200, p. XII.
 

[2] MALASHENKO M., Islam e politica in Uzbekistan, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 132.

[3] FILATOV S. – A. V. MALASHENKO, Conclusioni, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 173.

[4] HUNTINGTON S. P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997, p. 157.

[5] Ivi, p. 172: «Negli anni settanta, ad esempio, gli equilibri demografici nell’ex Unione Sovietica ha subìto un drastico mutamento, con una crescita del 24 per cento dei musulmani rispetto al 6,5 per cento dei russi, il che ha suscitato grossi timori tra i dirigenti comunisti dell’Asia Centrale».

[6] NIJAZI A., L’islam in Tagikistan, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 109.

[7] MALASHENKO A. V., L’islam in Kazakhstan e Kirghisia, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 85.

[8] Ivi, p. 79.

[9] KAPPELER A., La Russia. Storia di un impero multietnico, Edizioni Lavoro, Roma, 2006, p. 353.

[10] KEPEL G., La rivincita di Dio, Rizzoli, Milano, 1991, pp. 18-19.

[11] Lo stesso orientamento ebbero anche i predecessori D. Dudaev, e Z. Yandarbiyev, che nel settembre del 1996 introdusse per decreto il codice penale islamico e proclamò l’islam religione di stato. Già con Dudaev nell’aprile dell’anno precedente vennero introdotti per decreto degli istituti tribunali islamici nelle provincie meridionali della neonata Repubblica cecena di Ichkeria. Vedi KUDRJAVCEV A., L’islam nel Caucaso settentrionale dopo la divisione dell’Urss, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., pp. 41-42.

[12] FILATOV S. – A. V. MALASHENKO, Conclusioni, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 176.

[13] MALASHENKO M., Islam e politica in Uzbekistan, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., pp. 134-135.

[14] NIJAZI A., L’islam in Tagikistan, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 116.

[15] Ivi, p. 118.

[16] FILATOV S. – A. V. MALASHENKO, Conclusioni, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., pp. 176-177.

[17] MALASHENKO M., Islam e politica in Uzbekistan, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 148.

[18] MALASHENKO A. V., L’islam in Kazakhstan e Kirghisia, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 77.

[19] NIJAZI A., L’islam in Tagikistan, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 105.

[20] MALASHENKO A. V., L’islam in Kazakhstan e Kirghisia, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 88.

[21] NIJAZI A., L’islam in Tagikistan, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., pp. 109-110.

[22] KUDRJAVCEV A., L’islam nel Caucaso settentrionale dopo la divisione dell’Urss, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., pp. 43-44.

[23] KEPEL G., La rivincita di Dio, Rizzoli, Milano, 1991, p. 38.

[24] KUDRJAVCEV A., L’islam nel Caucaso settentrionale dopo la divisione dell’Urss, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 30.

[25] Ivi, p. 40.

[26] FILATOV S. – A. V. MALASHENKO, Conclusioni, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 176.

[27] KEPEL G., Il profeta e il faraone. I Fratelli musulmani alle origini del movimento islamista, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 171.

[28] KUDRJAVCEV A., L’islam nel Caucaso settentrionale dopo la divisione dell’Urss, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 31.

[29] VATIKIOTIS P. J., Islam: stati senza nazioni, Il Saggiatore, Milano, 1993, p. 155.

[30] FILATOV S. – A. V. MALASHENKO, Conclusioni, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 179.

[31] HUNTINGTON S. P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997, p. 289.

 

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LA COREA DEL NORD METTE ALLA PROVA I LIMITI DELLA TOLLERANZA

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Stando al “London Telegraph”, un appartamento nel blocco residenziale di Dandong, la più grande città cinese sul confine sino-coreano, è stato chiuso dalle autorità cinesi lo scorso mese di marzo. Quell’appartamento è stato definito come un “nodo chiave finanziario nell’apparato delle armi di distruzione di massa della Corea del Nord”. Alcuni organi di informazione sono quasi sicuri che tutto ciò mostri come la Cina non può tollerare ancora a lungo le iniziative belliche della Corea del Nord. Il governo di Pyongyang ha ripetutamente rivendicato iniziative di guerra di recente. In quanto membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e principale vicino della Corea del Nord, le iniziative intraprese dalla Cina nel merito della questione attireranno l’attenzione mondiale, soprattutto dal momento che Pechino ha recentemente imposto alcune sanzioni ai danni della Corea del Nord per punire le sue crescenti azioni ostili verso la Cina e altre iniziative attuate dopo che il leader nordcoreano Kim Jong-un ha assunto il suo incarico, che potrebbero minacciare la pace nella Penisola Coreana.

Pechino ha votato a favore delle sanzioni ONU a marzo, e ha già controllato con solerzia le banche illegali della Corea del Nord in Cina. La Cina ha le sue difficoltà nella risoluzione della questione nordcoreana. Gli Stati Uniti e i loro alleati militari hanno intensificato il loro impiego strategico attorno alla penisola. Tale dispiegamento militare esercita un enorme impatto negativo sugli interessi della Cina in relazione ai temi della sicurezza. Tuttavia, la Cina non può accusare gli Stati Uniti per queste azioni di impiego geostrategico perché, secondo gli Stati Uniti, queste contromisure sono indirizzate contro la Corea del Nord. La Cina dovrebbe dunque redarguire la Corea del Nord per aver messo a rischio la stabilità regionale. Ma la Cina non può interrompere definitivamente il suo sostegno militare alla Corea del Nord come l’Occidente vorrebbe convincerla a fare.

In breve, non possiamo brutalmente “abbandonare” la Corea del Nord. Al di là della natura del regime politico in Corea, la Cina avrà sempre suoi interessi nella penisola in merito ai temi della sicurezza. Pechino ha già riadattato le sue politiche verso la Corea del Nord. Colpendo le sue azioni ostili, che hanno minacciato la pace nella penisola, la Cina ha stabilito avvertimenti e ammonimenti. Le relazioni diplomatiche tra Pechino e Pyongyang hanno raggiunto il loro livello più basso dal 1953. Tuttavia, questo non significa che la Cina vuole abbandonare del tutto la Corea del Nord. Essa non deve considerarsi come uno Stato satellite della Cina. Non è per tanto possibile “abbandonarla”. L’ammonimento e il sanzionamento cinesi contro il vicino sono finalizzati a preservare gli interessi della nostra stessa sicurezza.

In precedenza, la Cina si è sempre dimostrata amichevole nei confronti della Corea del Nord, ricevendo soltanto risposte positive. Il problema odierno è costituto dal fatto che da quando Kim Jong-un è salito al potere, la Cina ha ricevuto dal suo vicino quasi nessuna risposta positiva. Ma anche di fronte a questo, non possiamo trarre la conclusione in base alla quale l’amministrazione di Kim Jong-un non risponderà mai positivamente alla Cina.

Tuttavia, la scelta di non abbandonare la Corea del Nord non può essere ricondotta ad un riconoscimento cinese dello status nucleare della Corea del Nord. La denuclearizzazione è sempre stata uno dei principi della Cina sulla questione nordcoreana. Nessun Paese crede che la Corea del Nord voglia perseguire la pace costruendo un arsenale nucleare. Alcuni analisti hanno avanzato l’ipotesi secondo la quale se la Cina non ammettesse lo status di nazione nucleare della Corea del Nord e non venisse incontro alle richieste nordcoreane, e Washington poi dovesse inviare segnali di apertura a Pyongyang, una Corea del Nord in possesso di armi nucleari potrebbe esercitare una pressione sulla Cina per ritorsione.

Per quanto mi riguarda, c’è soltanto una possibilità. La sfiducia della Corea del Nord nei confronti degli Stati Uniti è profondamente risaputa, esattamente come la sua dipendenza dalla Cina. Se il regime di Pyongyang chiudesse del tutto le sue relazioni diplomatiche con la Cina e si rivolgesse agli Stati Uniti, sarà continuamente in allarme in relazione alla futura integrità del suo regime. Ad ogni modo, una tale situazione potrebbe realizzarsi sul piano strettamente strategico. La Corea del Nord è stata a lungo un attore in gioco nel confronto tra la Cina e gli Stati Uniti. Possiamo prendere in conto questa possibilità, ma sarà opportuno non preoccuparsi più di tanto a questo proposito.

 

L’articolo è stato compilato dalla redattrice del “Global Times” Shu Meng sulla base di un’intervista a Shi Yinhong, direttore del Centro di Studi Statunitensi presso l’Università Renmin di Pechino.

 

FONTE

Shu Meng, North Korea testing limits of tolerance, “Global Times” del 6/5/2013, p. 11

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IL “FILM GEOPOLITICO” DELLA CRISI

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A differenza di molti commentatori, interessati in particolar modo ad evidenziare gli squilibri del sistema finanziario internazionale per comprendere l’attuale crisi del capitalismo occidentale, noi abbiamo sempre cercato di comprendere tali squilibri alla luce del conflitto geopolitico. Per questo motivo, siamo convinti che anche un libro, indubbiamente utile e prezioso, come Il film della crisi, di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini, (1) non colga appieno il significato di quella mutazione del capitalismo che Luciano Gallino definisce come “finanzcapitalismo”. (2) Ovverosia quell’enorme espansione del capitalismo finanziario, favorita dalla deregolamentazione dei movimenti internazionali dei capitali che si iniziò negli anni Ottanta con la Thatcher e Reagan e che portò, nel 1999, all’abolizione della legge bancaria del 1933, nota come Glass-Steagall Act, da parte dell’amministrazione Clinton.

Vero che anche Ruffolo e Sylos Labini hanno ben presente l’importanza dalla controffensiva capitalistica sferrata dalla “élite del potere” statunitense allo scopo di porre rimedio al declino dell’economia americana. Una controffensiva che segna la fine dell’Età dell’Oro (espressione che Ruffolo e Sylos Labini riprendono dallo storico Eric Hobswam e che designa il periodo compreso tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e i primi anni Settanta) e l’avvio di una nuova fase storica, che Ruffolo e Sylos Labini denominano l’Età del Capitalismo Finanziario e che potrebbe portare ad una nuova Età dei Torbidi (la prima essendo il periodo compreso tra l’inizio del Novecento e la Seconda Guerra Mondiale). Nondimeno, in questo “film della crisi”, rimangono quasi del tutto “fuori campo” non solo le ragioni della lotta politica del capitalismo occidentale “a guida” statunitense contro il socialismo sovietico (e ancora prima contro la Germania nazionalsocialista – la cui sconfitta, insieme a quella del Giappone, permise agli Stati Uniti di liquidare definitivamente la potenza inglese e di diventare, di fatto, i padroni del mondo dal punto di vista economico), ma anche e soprattutto quelle strategie politico-militari ed economiche tramite le quali gli Stati Uniti, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, hanno cercato (e continuano a cercare) di realizzare il loro disegno di dominio globale. In altri termini, ci sembra che Ruffolo e Sylos Labini, nel prendere in esame il processo di globalizzazione, non tengano sufficientemente conto delle ragioni geopolitiche del “soggetto” che globalizza.

L’alleanza medesima tra capitalismo e democrazia liberale che avrebbe contraddistinto gli anni dell’Età dell’Oro, in effetti, non pare comprensibile senza tener conto della necessità per gli Stati Uniti, nel secondo dopoguerra, di piantare stabilmente le tende in Europa onde mantenere salda la “presa” sull’intera aerea occidentale. Né fu certo per generosità che gli Stati Uniti si impegnarono in un programma di aiuti economici ai Paesi europei, ma naturalmente per interesse politico ed economico, dacché la domanda interna non poteva da sola “alimentare” il gigantesco sistema produttivo statunitense. La ripresa dell’Europa, anche se non v’è alcun dubbio che sia stata favorita dagli Stati Uniti, dipese da vari fattori (e non si deve nemmeno dimenticare che ebbe a trarre notevole vantaggio sia dalla guerra di Corea sia dalla creazione della Ceca, ossia la “Comunità europea del carbone e dell’acciaio”), compresa una situazione internazionale che vedeva gli Stati Uniti svolgere la funzione di “centro regolatore” dell’economia mondiale, come si era stabilito, nell’estate del 1944, a Bretton Woods, ove, com’è noto, si gettarono le basi di un nuovo ordine mondiale che riservava agli Stati Uniti sia la funzione politico-strategica sia quella economico-finanziaria. Agli Stati Uniti si riconosceva cioè una funzione di indirizzo e di controllo dell’intera vita politica ed economica dell’Occidente, anche per garantire l’istituzionalizzazione del conflitto sociale e impedire così la crescita di movimenti rivoluzionari, comunisti e socialisti, in specie nell’Europa Occidentale.

D’altra parte è significativo (pur dovendo tener presenti tutti i distinguo, le varianti e le sottovarianti possibili) che l’alleanza tra capitalismo e democrazia liberale (che tramite il Welfare assicurò sviluppo sociale e benessere economico negli anni del secondo dopoguerra) non sia mai venuta meno, in Occidente, neanche dopo la fine dell’Età dell’Oro. E’ evidente quindi, anche sotto questo aspetto, che è semplicistico e fuorviante considerare il “finanzcapitalismo” (che pure è fenomeno di fondamentale importanza) come la “variante cattiva” del capitalismo. Invero, si dovrebbero abbandonare degli schemi concettuali basati su una visione meramente “economicistica” del capitalismo e comprendere che il sistema capitalistico (che, a nostro avviso, si fonda su quella che Karl Polanyi definisce come “società di mercato”) ha necessariamente bisogno di un “centro regolatore” per la risoluzione dei conflitti internazionali e sociali. Un ruolo svolto appunto dagli Stati Uniti a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, avvalendosi anche di organizzazioni “internazionali” (come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e così via), benché insieme con altri centri potere “subdominanti” (si pensi alla cosiddetta “Trilaterale” – Usa, Ue, o meglio l’Europa Settentrionale, e  Giappone – ma anche alle particolari relazioni tra gli Usa e Israele e tra gli Usa e le petromonarchie del Golfo). Fu questa “rete di potere” che consentì agli Stati Uniti di ristrutturare l’intero sistema internazionale, grazie anche ad una innovazione strategica e tecnologica che condusse, nel giro di un decennio, alla scomparsa dell’Unione Sovietica (la cui “spinta propulsiva” si deve ritenere già esaurita, grosso modo, alla fine degli anni Cinquanta, dato che l’Unione Sovietica era pressoché del tutto dipendente dall’industria pesante – che conobbe una formidabile espansione durante la Seconda Guerra Mondiale, allorché gli americani diedero ai russi tutti quei materiali che solo un’industria leggera e una media e piccola impresa privata possono produrre con efficienza – e “soffocata” dalla burocrazia, dall’ideologia e da una nomenklatura tanto ottusa quanto dispotica). E si trattò di una innovazione che, profittando della debolezza e poi del crollo dell’Urss, portò pure ad una trasformazione del modo di produzione e dei rapporti sociali su base radicalmente nuova, eliminando in un batter d’occhio decenni di “retorica democratica”.

E’ innegabile, del resto, che lotta per la supremazia geopolitica, crisi del Welfare e abolizione di fondamentali diritti sociali ed economici siano aspetti essenziali di un unico “processo geopolitico” teso a consolidare l’egemonia atlantista e la struttura di potere della “società di mercato” occidentale. E’ affatto logico pertanto che l’economico venga usato come un mezzo per imporre delle strategie politiche (concernenti le regole del sistema – quelle cioè in base a cui è possibile scegliere tra diverse opzioni) miranti a rafforzare la potenza statunitense come centro egemonico mondiale, in quanto unica potenza che può effettivamente tutelare gli interessi dei gruppi dominanti nei singoli Paesi occidentali. E questo ovviamente vale sia nei confronti dei ceti popolari e dei “grossi” ceti medi (che, pur se di solito definiti ceti produttivi o riflessivi, sono ceti “subalterni” sia sotto il profilo economico che sotto quello culturale), sia, sul piano internazionale, nei confronti di altre potenze, tanto più se caratterizzate da un diverso sistema politico e socio-economico.

Di conseguenza, è naturale che anche il palese fallimento del capitalismo finanziario (che, anziché garantire la crescita, ha dato origine ad una crisi economica che ha aggravato enormemente il divario tra ricchi e poveri nello stesso mondo occidentale) assuma un significato del tutto particolare. Vale a dire che la crisi seguita al fallimento della Lehman Brothers si rivela essere prima di tutto una crisi geopolitica, nel senso che è, ad un tempo, effetto della controffensiva statunitense iniziatasi nella seconda metà del secolo scorso e del fatto che tale controffensiva non ha avuto quel pieno successo che invece dopo il crollo dell’Unione Sovietica sembrava a portata di mano. E ciò non solo per l’emergere di nuove potenze, quali la Cina o l’India, per gli insuccessi degli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan o per il nuovo corso “socialista” di alcuni Paesi dell’America Latina, ma anche per la politica della Russia di Putin che ha impedito che la bandiera a stelle e strisce sventolasse su  quasi tutta l’Eurasia (e si può immaginare che cosa sarebbe accaduto se gli Stati Uniti, ovvero i “mercati”, si fossero impadroniti – come stavano per fare – delle immense risorse della Russia).

Da qui la necessità di una ulteriore ridefinizione della strategia globale statunitense imperniata, sull’alleanza (indipendentemente dai rapporti, tutt’altro che chiari, tra i servizi statunitensi e al-Qaeda) tra gli Stati Uniti e le forze islamiste al soldo delle petromonarchie del Golfo, protagoniste della cosiddetta “primavera araba”, che di fatto è consistita in una serie di “operazioni colorate”, che hanno sfruttato il malcontento popolare nei confronti del regime tunisino e di quello egiziano per fare spazio a gruppi di potere ritenuti più capaci di controllare il conflitto politico e sociale in funzione degli interessi delle “forze (filo)occidentali”, nonché per liquidare nell’area mediterranea ogni ostacolo alla politica di potenza degli Stati Uniti – Siria compresa, benché il regime di Assad si stia rivelando un “osso troppo duro” per le bande islamiste, appoggiate e finanziate dalle “forze (filo)occidentali”. Peraltro, non dovrebbe nemmeno stupire che anche l’offensiva dei “mercati” contro il “ventre molle” di Eurolandia sia parte integrante di tale strategia. Un’offensiva favorita da una classe dirigente europea il cui scopo principale pare essere quello di impedire che la Germania abbia la possibilità di “allontanarsi” dall’Unione Europea – e ciò nonostante che la Germania ancora non capisca (o faccia finta di non capire) che non è (solo) per virtù propria ma soprattutto per la situazione geopolitica generale che la sua economia (e in primo luogo la sua bilancia commerciale) può crescere a danno (ma ancora per quanto tempo?) dei Paesi europei più deboli.

Comunque sia, è alla luce di questo contesto geopolitico che si deve prendere in considerazione la tesi di Ruffolo e Sylos Labyni secondo cui è necessario «il ritorno non al disegno di Bretton Woods, ma al suo progetto rivale, quello proposto nella stessa sede da John M. Keynes, non basato sull’egemonia americana e che preveda un pari responsabilità dei Paesi creditori e dei Paesi debitori». (3) Non a caso è proprio la strategia statunitense nei confronti della Gran Bretagna subito dopo la fine della Seconda Guerra mondiale (strategia che i liberali tendono a dimenticare o a sottovalutare) che conferma appieno che il sistema capitalistico sarebbe un specie di hobbesiana “guerra di tutti contro tutti” qualora non vi fosse un unico centro di potenza (altro che mercato autoregolantesi!) a regolare il conflitto sia tra (sub)dominanti che tra (sub)dominanti e dominati (per spiegarsi in termini semplici ma chiari a tutti).

L’8 maggio del 1945, infatti, gli Stati Uniti non esitarono ad interrompere, di punto in bianco, gli aiuti concessi alla Gran Bretagna (tranne gli aiuti per la guerra del Pacifico che continuarono fino al 21 agosto) in base alla legge “Affitti e Prestiti” del marzo 1941. Londra fu subito costretta ad inviare a Washington una delegazione di cui faceva parte lo stesso John M. Keynes, ma senza ottenere alcun risultato. Gli Stati Uniti erano decisi a liquidare definitivamente l’impero britannico, perfettamente consapevoli di interpretare la parte più dinamica e aggressiva del sistema capitalistico. Le condizioni durissime imposte dagli Stati Uniti per un nuovo prestito (che prevedevano tra l’altro la ratifica degli accordi di Bretton Woods e la convertibilità della sterlina entro il luglio del 1947, con conseguenze pesantissime per la bilancia dei pagamenti inglese), aggravarono considerevolmente la già precaria situazione della Gran Bretagna (impegnata pure, dopo la vittoria del laburisti, nell’estate del 1945, nella costruzione del Welfare State), tanto che, durante il terribile inverno del ’46-’47, il governo dovette perfino razionare, oltre al pane, la corrente elettrica e sospendere la pubblicazione dei settimanali. L’economia inglese in seguito riuscì lentamente a risalire la china, anche grazie al Piano Marshall, ma i costi politici dello scontro gli Stati Uniti furono salatissimi. E il ridimensionamento della potenza inglese fu chiaro a chiunque allorché Londra prese la decisione di abbandonare la Grecia per l’impossibilità di rifornire il corpo di spedizione di 16000 soldati britannici e di appoggiare l’esercito greco contro i partigiani comunisti di Markos. (4)

Eppure sarebbe decisamente errato vedere in questo solo l’arroganza di una particolare amministrazione statunitense, anziché un modo di procedere del  tutto “normale” per la potenza capitalistica predominante. Ne è ulteriore e decisiva conferma la politica di potenza statunitense subito dopo il crollo dell’Unione Sovietica, che invece secondo i sostenitori dell’alleanza tra capitalismo e democrazia liberale avrebbe dovuto portare ad una sorta di sistema occidentale multipolare (mentre era proprio la presenza del “blocco sovietico” a garantire un certo margine d’azione ai singoli Stati del “blocco occidentale” ed alle forze popolari e socialdemocratiche europee). Inoltre è particolarmente significativo che, negli anni Ottanta, un obiettivo di primaria importanza per i circoli (filo)atlantisti sia stato quello di spazzare via l’ostacolo rappresentato dalla socialdemocrazia scandinava (un’operazione che probabilmente costò la vita ad Olof Palme). Al riguardo, scrive Bruno Amoroso che «tolti di mezzo gli scomodi scandinavi la campagna di destabilizzazione si estende al Regno Unito, muove verso il Sud dell’Europa, passando per la Germania e la Francia. Fatto crollare il sistema dei Paesi socialisti e dei Paesi del “terzo mondo”, che ad essi si appoggiavano, nel corso degli anni ’80-’90 venne il momento dei Paesi del Sud, l’Italia e la Spagna in particolare. Inizia cioè l’operazione “mani pulite” che consegnerà il sistema politico italiano e spagnolo […] alle nuove strategie del capitalismo e cioè alla loro adesione acritica e servile alla globalizzazione e a una Europa “occidentalizzata”». (5)

Si tratta appunto di quella strategia imperniata sul cosiddetto “unipolarismo statunitense” e che, come si è già ricordato, è entrata in crisi in questi ultimi anni, ma che non può essere seguita da una “fase multipolare” senza che gli Stati Uniti vi si oppongano in ogni modo. A tale proposito, si dovrebbe pure nettamente distinguere la questione di un sistema internazionale multipolare da quella concernente la possibilità di dar vita ad un sistema capitalistico policentrico. Se le considerazioni fin qui svolte sono corrette, è certo possibile che si formi un “polo geopolitico alternativo” (come potrebbe essere quello dei Brics) rispetto a quello occidentale, ma non è possibile che vi sia un sistema (liberal)capitalistico policentrico. Il sistema capitalistico occidentale può tollerare che via sia un certo equilibrio geopolitico multipolare (ossia che esista anche un sistema non capitalistico, o perlomeno non liberalcapitalistico, socialista o “dirigista” che sia), almeno fino a quando non sia in grado di eliminare il “polo antagonista” (e quindi tenterà in ogni modo di creare le condizioni perché ciò sia possibile), ma non può esso stesso essere un sistema multipolare senza rischiare di essere distrutto da “lotte intestine”. In sostanza, è inevitabile che vi sia una sola potenza capitalistica predominante e che la sua “sfera di potenza” sia tendenzialmente illimitata sotto ogni punto di vista (politico, militare, economico e culturale). Sicché, non sorprende che gli Stati Uniti, in specie con la cosiddetta “geopolitica del caos”, tentino di impedire con ogni mezzo che si possa dare origine ad un autentico sistema internazionale multipolare, né che già dagli anni Ottanta la strategia statunitense fosse attenta a “riformare” gli equilibri europei, per evitare che si potesse costituire un “polo geopolitico” europeo, che necessariamente si sarebbe scontrato con gli Stati Uniti.

D’altronde, si deve tener pure presente che nessun’altra potenza rappresenta una “società di mercato” meglio di quella statunitense, che si potrebbe definire una sorta di “talassocrazia assoluta” che mira al dominio della terra, e la cui caratteristica principale consiste in una volontà di potenza che si vuole “libera” «dalla natura, dal tempo e dalla storia» (6) per esportare ovunque la “religione” dell’homo oeconomicus. Va da sé che lo stesso Warfare State, l’immenso apparato militare statunitense – che ha permesso tra l’altro di finanziare con il denaro pubblico (nella patria del liberismo!) settori strategici come il settore della tecnologia aerospaziale, quello dell’elettronica e quello dell’informatica – (7) svolge un ruolo che ha ben poco a che vedere con la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, benché indubbiamente il “sistema occidentale” preferisca agire tramite i media mainstream (di cui il “grande capitale” detiene l’effettivo controllo) e la guerra economica per destabilizzare un Paese e/o distruggerne la base produttiva. (8) Ma si tratta di “cose note” su cui non occorre insistere.

Ciò su cui è invece necessario insistere è che il secolo da poco trascorso ben difficilmente lo si può comprendere senza prendere in esame il declino della potenza inglese (cominciato alla fine dell’Ottocento), la talassocrazia europea che svolse la funzione di “centro regolatore” del sistema capitalistico mondiale fino all’ascesa della Germania e degli stessi Stati Uniti. (9) La crisi economica di fine Ottocento e quella del ’29, ciascuna seguita da una guerra mondiale, non possono non essere messe in relazione al venir meno di quell’equilibrio internazionale che poggiava sul dominio dei mari (e dei “mercati”) da parte della potenza inglese. In definitiva, come insegna Gianfranco La Grassa, si deve tener conto che, se in certe fasi storiche una parte riesce a prevalere nettamente sulle altre e si ha un certo equilibrio, vi sono sempre dei conflitti di varia intensità, sì che prima o poi si passa ad una fase fortemente conflittuale tra i diversi centri di potenza. Ma ciò vale principalmente per il sistema capitalistico, in quanto «l’accentuarsi del combattimento interdominanti […] non ha affatto come scopo il profitto bensì quello della supremazia di certi gruppi su altri, uno scopo per il quale il profitto diventa mezzo [di modo che] il profitto non è fine se non per il singolo capitalista, mero portatore soggettivo di un processo oggettivo in corso di svolgimento nel campo di battaglia, eminentemente politico». (10) Si potrebbe allora affermare che il sistema capitalistico tende ad un equilibrio in cui vi sia un “centro regolatore” dei conflitti (cioè una sola potenza predominante, poiché non si può prescindere dalla potenza politico-militare, dagli apparati coercitivi e ideologici di uno Stato). Un equilibro sempre fluido e tale che, se vien meno, è inevitabile che il sistema capitalistico tenda a ripristinarlo anche con un regolamento bellico dei conti (benché possa anche solo trattarsi di una guerra economica, i cui effetti però possono essere perfino più devastanti di una guerra vera e propria).

In questa prospettiva, ci pare ovvio che anche la strategia alternativa proposta da Ruffolo e Sylos Labini, che dovrebbe portare ad una “nuova alleanza” tra capitalismo e democrazia, fondata su un’economia mista, non possa che essere destinata al fallimento. Certo, siamo i primi a riconoscere a Ruffolo e Sylos Labini il merito di aver compreso l’importanza delle obbligazioni Mefo grazie alle quali Hjalmar Schacht «fra il 1933 e il 1936 realizzò uno dei più grandi miracoli economici della storia moderna, persino più significativo del tanto celebrato “New Deal” di Franklin D. Roosevelt». (11) Tuttavia, è chiaro che nuovi strumenti finanziari e riconversione ecologica dell’economia perché non siano una mera “operazione di cosmesi” presuppongono un mutamento di “orientamento geopolitico”, che nessuna amministrazione statunitense né alcun centro di potere euroatlantista potranno mai promuovere. La riforma del sistema finanziario mondiale, ancora basato sull’egemonia del complesso “politico-militare-industriale-finanziario-culturale” degli Stati Uniti e di quei centri di potere che da questo “complesso” dipendono, sembra quindi presupporre quello che tale riforma dovrebbe ottenere, ovverosia la fine della potenza statunitense come “centro regolatore” del sistema capitalistico occidentale. D’altra parte, la lezione che si deve trarre dal fallimento del progetto di Olof Palme, che intendeva creare un “polo geopolitico socialista” nel cuore dell’Europa (e che, con ogni probabilità, avrebbe rappresentato anche una eccezionale chance per realizzare un “polo geopolitico mediterraneo”) è che la “forma Stato” liberale non può “incastonare” il mercato se non in circostanze geopolitiche particolari, derivanti dal conflitto tra “blocchi di potere” di contrapposti. Ragion per cui ogni Paese che si contrapponga alla politica capitalistica predominante dovrebbe necessariamente essere capace di difendersi dagli attacchi sferrati dai “mercati”, dai media mainstream e dalle “quinte colonne” che possono sempre contare sull’appoggio di gruppi di potere e organizzazioni “internazionali”.

Ciò non significa che l’Europa non abbia altra scelta che seguire i diktat dei “mercati”, ma se è necessario ridefinire l’architettura politica dell’Unione europea per sottrarre l’Europa alla morsa dei “mercati”, come sostengono gli stessi autori del Film della crisi, bisognerebbe ridefinire anche il sistema politico occidentale (pur dovendo evitare gli errori e gli orrori dei regimi totalitari; il problema, si badi, non è la democrazia, intesa come partecipazione del popolo alla vita politica – partecipazione però che può essere garantita in modi assai diversi – , bensì come sia possibile restituire lo scettro al “principe”, come sia cioè possibile interpretare e difendere l’interesse della collettività evitando che “sovrani” siano i “mercati”). (12) Né ciò sarebbe sufficiente, poiché, in ogni caso, sarebbe necessario mutare l’”orientamento geopolitico” dell’Europa, perlomeno intensificando le relazioni politiche ed economiche con le potenze dell’Eurasia (senza le quali ogni riforma del sistema finanziario internazionale è pura fantasia), di modo da poter indebolire la “presa” statunitense e dei “mercati” sulla politica europea. Peraltro, è scontato che una “economia mista” raggiungerebbe appieno il proprio scopo – quello di porre l’economico (il mercato) al servizio dell’intera società e non viceversa come accade in una “società di mercato” – se (secondo la nota tesi di Karl Polanyi) lavoro, terra e moneta non venissero più considerati merci. Il che però sarebbe possibile solo se si creassero anche le condizioni geopolitiche e culturali per un definitivo superamento (ed era ciò cui mirava anche il progetto di Olof Palme) di un sistema internazionale basato sulla crescita illimitata della volontà di potenza economica del centro di potere predominante. Una “dismisura” che concerne l’essenza stessa del capitalismo, in quanto “ideologia e prassi” dell’homo oeconmicus. Facile dunque concludere che, rebus sic stantibus, è assai difficile che vi possa essere una Unione Europea realmente capace di sfidare o almeno di contrastare l’egemonia statunitense.

 

 

 

1) Giorgio Ruffolo e Sylos Labini, Il film della crisi, Einaudi, Torino, 2012.

2) Luciano Gallino, Finanazcapitalismo, Einaudi, Torino, 2011.

3) Giorgio Ruffolo e Sylos Labini, op. cit., p. 117. Per un’analisi geopolitica della controffensiva statunitense, a partire dall’inizio degli anni Settanta (esattamente dal 15 agosto 1971, ossia dalla dichiarazione di Nixon sullo sganciamento del dollaro dall’oro, che segna la fine del sistema internazionale cui si era dato inizio con gli accordi di Bretton Woods) fino ai nostri giorni, si veda Giacomo Gabellini, Shock, Anteo Edizioni, 2013.

4) Si veda Giuseppe Mammarella, Storia d’Europa dal 1945 a oggi, Laterza, Roma-Bari, 1980, pp. 53-62.

5) Bruno Amoroso, L’apartheid globale, Lavoro, Roma, 1999, citato in Giacomo Gabellini, op. cit., p. 42.

6) Harold Bloom, La religione americana, Milano, Garzanti, 1994, p. 52

7) Si pensi che cosa sarebbe stata l’Olivetti se avesse potuto contare su tali finanziamenti allorquando, alla fine degli Sessanta, era all’avanguardia nel settore dell’informatica (su questo tema si veda l’intervista a Giorgio Panattoni di Giuseppe Germinario http: //www. Conflittiestrategie. it/lolivetti-vista-da-un-suo-protagonista-giorgio-panattoni-2 ).

8) Su questo argomento è veramente prezioso il già citato libro di Gabellini. Per quanto concerne il mondo dell’informazione, mai come oggi sarebbe necessario distinguere tra libertà della stampa e libertà di stampa e di espressione (garantita soprattutto da Internet e dalla piccola editoria e minacciata invece dal potere dei media mainstream).

9) Ovviamente, qui non intendiamo tentare alcuna ricostruzione storica di eventi estremamente complessi, ma cercare solo di comprendere l’attuale fase storica sotto l’aspetto geopolitico, nonché, in un certo  senso, sotto quello “metapolitico”.

10) Gianfranco La Grassa, Oltre l’orizzonte, Besa, Lecce, 2011, pp. 62 e 109.

11) Gorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini, op. cit., pp. 78-79. Per la strategia alternativa proposta di Ruffolo e Sylos Labini si veda Ivi, pp. 85-111.

12) Che il sistema politico liberale sia sempre più dipendente da altri centri di potere, crediamo che non possa essere messo seriamente in discussione da nessuno. Perfino il pluralismo della società occidentale è in larga misura in funzione della struttura dell’apparato tecnico-produttivo.

 

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RIVOLUZIONE NAZIONALE O “PRIMAVERA” TURCA ?

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Il n. 2/2013 di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” (in distribuzione a partire dalla metà di giugno) è dedicato alla Turchia. Il direttore della rivista, Claudio Mutti, è stato intervistato sugli avvenimenti turchi da Natella Speranskaja (Mosca) per il sito www.granews.info

 

D. – In Turchia è cominciata la rivoluzione nazionale. Che forze ci sono dietro di essa? Chi combatte e contro chi?

R. – Le giaculatorie sui “diritti umani” e la “democrazia”, l’esibizione delle Femen, la solidarietà di Madonna e di alter celebrità di Hollywood, la stucchevole retorica antifa con tanto di “Bella ciao” mi sembrano più I sintomi di una “rivoluzione colorata” o di una “primavera turca”, che non una rivoluzione nazionale. Per il momento non è possibile sapere se le proteste siano scoppiate in maniera spontanea o se davvero siano state provocate da agenti stranieri, come pretende Erdogan. Dobbiamo però tener presente che l’ambasciatore statunitense ad Ankara, Francis Ricciardone, ha ripetuto due volte in due giorni il suo messaggio in favore dei manifestanti e che John Kerry ha rilasciato una dichiarazione sul diritto di protestare.  Certo, fra i manifestanti vi sono anche gli attivisti di gruppi e movimenti non atlantisti ed anche filoeurasiatisti (come ad esempio il Partito dei Lavoratori, İşçi Partisi); tuttavia non mi sembra che questi militanti siano in grado di dirigere una massa così eterogenea sui binari di una rivoluzione nazionale.

 

 

D. – In che modo la rivoluzione turca si colloca nei confronti dell’opposizione geopolitica eurasiatica (Russia, Iran, Siria) e dell’atlantismo (NATO, USA, UE)?

R. – È vero che in Turchia molta gente si preoccupa per il coinvolgimento del Paese nel conflitto siriano. Ma quando i dimostranti proclamano “Siamo i figli di Ataturk”, essi esprimono la loro adesione ai principi del secolarismo e del laicismo, non una posizione eurasiatista. Purtroppo non riesco a vedere nella rivolta una significativa tendenza antiatlantica.

 

 

D. – Qual è la Sua prognosi circa lo sviluppo degli eventi in Turchia e quali saranno gli effetti sulla situazione siriana? 

R. – È probabile che la rivolta induca Erdogan a riflettere sulla saggezza del proverbio “Chi semina vento, raccoglie tempesta” e ad occuparsi più degli affari turchi che non di quelli siriani; probabilmente si renderà conto del fatto che gli Statunitensi sono sempre pronto a licenziare i loro collaboratori, dopo averne fatto uso. Due mesi fa il suo Ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, ha firmato un protocollo d’intesa che fa della Turchia un “membro dialogante” dell’Organizzazione per la Collaborazione di Shanghai. Se il governo turco vuole essere coerente con questo passo, deve archiviare quella sorta di “neoottomanismo” che maschera una funzione sub imperialista funzionale agl’interessi egemonici occidentali. Anzi, se la Turchia vuole essere davvero un punto di riferimento per i popoli musulmani del Mediterraneo e del Vicino Oriente, è necessario che essa rescinda i legami con la NATO e col regime sionista. È da schizofrenici destabilizzare la Siria e allo stesso tempo accusare il sionismo di essere (parole di Erdogan) “un crimine contro l’umanità” e l’entità sionista di rappresentare “una minaccia per la pace della regione”.

 

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LA RIVOLTA IN TURCHIA

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Intervista rilasciata il 3 giugno da Aldo Braccio, redattore di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a Radio Città Futura

 

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LA PIRATERIA AL LARGO DELLE COSTE SOMALE: L’OPERAZIONE ATALANTA

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La pirateria marittima, dopo aver conosciuto un grande periodo d’oro tra il XVII e il XVIII secolo, subì un netto declino già dalla fine dell’800, apparendo pressoché scomparsa nel ‘900. Nel corso dell’ultimo decennio, però, tale fenomeno è tornato d’attualità: a partire dal 2003, infatti, gli attacchi da parte dei pirati sono andati moltiplicandosi anno dopo anno, esplodendo a cavallo tra il 2008 e il 2009, segnando un incremento del 75% in un solo anno. Un problema diffuso a livello mondiale, che anche a causa dell’enorme crescita e importanza dei collegamenti marittimi impone agli Stati il compito di trovare una soluzione. Da un lato ONU e NATO hanno messo in piedi task force speciali con il compito di prevenire eventuali attacchi, dall’altro lato anche l’Unione Europea si è mossa, avviando l’operazione Atalanta, il cui raggio d’azione copre il golfo di Aden e le coste al largo della Somalia fino alle isole Seychelles.

 

 

La pirateria marittima è un fenomeno tornato drammaticamente d’attualità. Nell’ultimo decennio, gli attacchi dei pirati si sono moltiplicati, causando non pochi fastidi alla comunità internazionale. Il fenomeno è stato a lungo studiato alla luce dell’articolo 15 della Convenzione di Ginevra e degli articoli 100 al 107 della Convenzione sul Diritto del Mare di Montego Bay del 1982. In particolare, secondo l’articolo 101 di quest’ultima, con atto di pirateria si intende qualsiasi atto illecito di violenza o sequestro commesso dall’equipaggio o da passeggeri di una nave privata contro un altro equipaggio o altri beni trasportati da un’altra nave. Una definizione giuridica chiara che è servita a dirimere qualsiasi dubbio circa l’interpretazione di un atto di pirateria e a fornire un fondamento giuridico alle operazione di controllo e prevenzione degli attacchi in mare, quale la stessa operazione Atalanta, lanciata da parte dell’Unione Europea nel dicembre 2008. 

Le modalità di abbordaggio e gli obiettivi della pirateria moderna differiscono rispetto a pirati e corsari che agivano nei secoli scorsi. Al giorno d’oggi, infatti, essa prende di mira navi di qualsiasi bandiera e di qualsiasi natura esse siano – petroliere, da pesca, commerciali, o semplicemente da diporto. L’unica caratteristica a cui i pirati moderni badano è il fatto che esse siano particolarmente lente e quindi vulnerabili, perché poco agili nelle manovre strette e rapide.

Una volta attaccato l’obiettivo – il più delle volte l’abbordaggio avviene in maniera violenta, anche tramite l’utilizzo di lanciarazzi – i pirati sequestrano nave e equipaggio per il tempo necessario a ottenerne un riscatto da parte dell’armatore.

Geograficamente la pirateria si sviluppa in quelle porzioni di oceano in prossimità di passaggi obbligati per la navigazione, non è un caso che le regioni che oggi sono più interessate dalla recrudescenza della pirateria marittima siano stretti, golfi o zone chiuse, come il mar dei Caraibi, dove la pirateria è collegata anche al traffico di droga; il golfo di Guinea, lungo le coste di Benin, Nigeria e Togo, dove i pirati vengono mossi anche da rivendicazioni territoriali; lo stretto di Malacca, tra Malesia e Indonesia, a causa della miseria delle popolazioni locali e all’incapacità del governo indonesiano di garantire la sicurezza delle sue acque; e in particolar modo nel Golfo di Aden e al largo della Somalia, Stato in cui, a causa della mancanza di un governo dal 1991, è in corso una sanguinaria guerra.

Situazione dalla quale gli occidentali  – e gli Stati Uniti in particolare – traggono vantaggio: innanzitutto in maniera diretta, sfruttando senza limiti le risorse ittiche all’interno delle acque territoriali somale e, sempre approfittando dell’assenza di un’autorità centrale, riversando in mare rifiuti pericolosi come le scorie nucleari. A questo si deve aggiungere un interesse indiretto da parte dei nordamericani (più volte sono intervenuti in Somalia): non deve apparire strano che la situazione di anarchia nella regione sia un vantaggio per loro, dal momento che le considerevoli risorse petrolifere del Paese africano non corrono il rischio di essere vendute a Paesi rivali come la Cina. L’assenza di un governo in grado di stipulare accordi commerciali, quindi, permette di conservare le risorse per un futuro prossimo.

Quest’area geografica risulta essere un punto nevralgico del commercio marittimo internazionale, ponendosi come secondo asse mondiale come flusso di merci e transito di navi. Il golfo di Aden, all’estremità sud del Mar Rosso – la porta d’accesso del Mediterraneo dall’Asia – garantisce il collegamento commerciale marittimo tra il continente europeo e quello asiatico. Inoltre, l’intero export petrolifero dei Paesi del golfo Persico passa attraverso questo stretto per poi raggiungere i porti europei e nordamericani. L’insicurezza di questa zona, quindi, ha costretto molte compagnie a scegliere il periplo dell’Africa, con conseguente aumento dei prezzi e del tempo impiegato per il trasporto. Risulta quindi evidente che la messa in sicurezza di questa area è di fondamentale importanza proprio per evitare che si scelga ancora in futuro di circumnavigare l’Africa dal Capo di Buona Speranza, come avveniva prima dell’apertura del Canale di Suez.

Il considerevole incremento di attacchi di pirateria in questa regione, registrato a partire dal 2003, ha spinto l’Unione Europea  – su iniziativa franco-spagnola – ad agire in modo compatto e deciso per arginare questo fenomeno che danneggia fortemente i commerci marittimi non solo del naviglio europeo, ma mondiale.

L’8 dicembre 2008 è stata infatti lanciata l’operazione Atalanta, che si inserisce all’interno del quadro della Politica di Sicurezza e di Difesa comune (PSDC) e in conformità alle risoluzioni numero 1814, 1816, 1838, 1846 e 1851, adottate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite proprio in risposta all’aggravamento della pirateria nell’Oceano Indiano Occidentale. La NATO stessa ha iniziato nel 2008 a fornire una serie di scorte alle navi che portavano aiuti umanitari alla Somalia all’interno del programma alimentare mondiale dell’ONU, che erano già state oggetto di attacchi da parte dei pirati che miravano ad ottenere un riscatto.

L’operazione Atalanta, che in origine avrebbe dovuto avere una durata di soli dodici mesi, in virtù dei suoi successi è stata di anno in anno prorogata, e nel marzo 2012 si è deciso si rinnovarla per altri due anni supplementari, fino a dicembre 2014. La forza militare collegata alla missione Atalanta –  EU NAVFOR – vede oggi la partecipazione permanente di nove membri (Belgio, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Spagna, Svezia) più altri Paesi che partecipano in maniera ridotta, anche solo con invio di ufficiali, quali Regno Unito, Norvegia, Bulgaria, Croazia.

Gli obiettivi dell’operazione Atalanta sono essenzialmente tre: proteggere le navi che trasportano aiuti umanitari alla Somalia all’interno del programma alimentare mondiale, dissuadere e prevenire eventuali attacchi pirati contro altre navi e difenderle dagli attacchi che si verifichino all’interno della zona di competenza¹. Compiti non facili vista la notevole estensione dell’area in considerazione: dal golfo di Aden, passando al largo delle coste di Somalia, Yemen e Kenya sino a giungere alle isole Seychelles: circa 2 milioni di km². Vale a dire una superficie pari a quella del Mar Mediterraneo e circa sette volte l’estensione della Francia o della Germania. Con il rinnovo fino a dicembre 2014, inoltre, l’area di azione è stata ulteriormente ampliata andando anche a coinvolgere le coste somale, le sue acque territoriali e interne. Si evince, quindi, come l’Unione Europea sia decisa nel contrastare il fenomeno criminale della pirateria e abbia compreso che solo un’azione che vada alla base di esso possa portare risultati a lungo termine. Pattugliando anche le coste somale, infatti, si vanno a colpire le basi logistiche dei pirati stessi, togliendo loro rifugi e possibilità di sottrarsi all’arresto.

A causa della vastità della zona delle operazioni, è difficile che il controllo da parte del contingente europeo – che, a seconda dei periodi, conta non più di una ventina di navi – possa essere capillare e presente in ogni situazione di pericolo. Ciò non toglie che, nel corso di questi quattro anni e mezzo da quando è stata dispiegata per la prima volta, l’operazione Atalanta abbia raggiunto risultati soddisfacenti. A fronte di circa 50 sequestri nel 2010, l’anno successivo il numero si è drasticamente ridotto a 25, per poi attestarsi a quattro nel 2012². Oltre ad una diminuzione dei sequestri, si è registrata anche una sensibile riduzione degli attacchi stessi. Inoltre, nel corso di questi anni, l’operazione Atalanta ha registrato il 100% di successi per quanto concerne la scorta delle navi del programma alimentare mondiale.

Risultati resi possibili dalla cooperazione e dall’interazione delle varie navi europee che si trovavano ad operare nella regione a seconda dei diversi periodi da quando la missione è attiva. In particolar modo, però, l’aiuto della Francia è stato decisivo, sia perché ha offerto – e offre – il maggior numero di effettivi e mezzi, ma anche perché rende disponibile il supporto logistico della propria base militare a Gibuti.

I successi registrati dal contingente europeo NAVFOR non devono illudere circa la situazione ancora critica e pericolosa della regione: proprio per garantire un successo a lungo termine, infatti, è stato deciso il prolungamento della missione.

La perdurante assenza di un governo somalo fin dal 1991 non facilita certo le cose. In un contesto di vera e propria anarchia, in cui il Paese è sconvolto da una sanguinaria guerra (alimentata da alcuni Paesi occidentali, in primis gli Usa), non è facile garantire adeguata sicurezza e protezione alle navi di passaggio al largo dei più di 3 mila chilometri di coste somale. Per questo, è forte la convinzione che finché il problema a terra non sarà risolto e non verrà formato un governo stabile e forte in grado di mantenere ordine sul territorio somalo, la questione in mare non troverà mai soluzione, essendo lo specchio della caotica condizione che si verifica all’interno. Accanto alle operazioni in mare e lungo la costa, per debellare definitivamente la pirateria da questa zona africana è necessario agire sul continente in maniera coordinata e decisa come fatto con l’operazione Atalanta. L’importanza geo-strategica dell’intera regione e delle relazioni che i Paesi europei intrattengono con gli omologhi africani, impone all’Unione Europea la necessità di agire tramite un approccio globale, in modo da porsi come un sicuro interlocutore e garante della sicurezza regionale.

L’UE, grazie a questa missione e ai suoi successi, deve prendere atto della sua forza, derivante dall’aver agito in maniera compatta, e della consapevolezza di potersi sottrarre alla dipendenza militare statunitense. Nella sua prima operazione militare al di fuori dei confini continentali, l’Unione ha dato una buona prova delle sue competenze e della professionalità delle forze armate del contingente.

In assenza di uno stato di diritto somalo, l’Unione Europea, per perseguire i pirati della regione, ha dovuto trovare assistenza giuridica in Paesi terzi: è così che nel 2009 sono stati siglati due accordi di trasferimento di persone che abbiano commesso – o siano sospettate di aver commesso – atti di pirateria: il primo, a marzo, con il Kenya, e il secondo, a novembre, con la Repubblica delle Seychelles. In base a questi accordi, i contraenti africani accettano il trasferimento di persone detenute – e beni sequestrati – da parte dell’EU NAVFOR a sua richiesta, con l’impegno a portare innanzi all’autorità giudiziaria competente i sospettati. Questo tipo di collaborazione, però, nonostante gli sforzi compiuti da questi due Paesi, incontra non poche difficoltà, dal momento che le loro giurisdizioni penali sono ingolfate e la sovrappopolazione carceraria è un problema non indifferente, tanto che ha spinto il Kenya a voler revocare il suo consenso concesso all’Unione Europea in seguito al peggioramento della situazione delle proprie carceri. Questa defezione costringe l’Unione Europa a dover cercare altri Paesi partner nella regione, ben sapendo che per contenere la minaccia della pirateria dovrà fare cercare di fare più affidamento sulle loro capacità e risorse.

 

 

*Carlomaria Bottacini ha conseguito la laurea triennale in Scienze Internazionali e Istituzioni Europee presso l’Università degli Studi di Milano ed è attualmente studente in Relazioni Internazionali presso il medesimo ateneo.

 

 

 

 

Note Bibliografiche e Riferimenti Multimediali

1 -http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/%20LexUriServ.douri=OJ:L:2008:301:0033:0037:EN:PDF, ultimo accesso maggio 2013

2 -http://eunavfor.eu, ultimo accesso maggio 2013

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GLI USA INTRODUCONO UN NUOVO PACCHETTO DI SANZIONI CONTRO L’IRAN

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Secondo quanto riferisce l’ufficio stampa della Casa Bianca, il Presidente Barack Obama ha approvato l’imposizione di sanzioni aggiuntive contro l’Iran in relazione alla moneta nazionale iraniana e all’industria automobilistica.

 

“In data odierna il Presidente ha approvato un nuovo regolamento per inasprire le sanzioni contro l’Iran per l’isolamento del governo iraniano dovuto alla non ottemperanza dei suoi doveri internazionali” è quanto riportato in un comunicato sul sito della Casa Bianca.

Si tratta di sanzioni contro le istituzioni finanziarie straniere che realizzano transizioni con la moneta nazionale iraniana, il Riyal. Gli USA sottolineano che “è la prima volta che vengono introdotte sanzioni contro il commercio in Riyal”.

Verranno sottoposti a sanzioni anche le aziende o le persone che forniscono all’Iran beni e servizi relazionati con la produzione iraniana di veicoli a motore come automobili, camion, autobus, furgoncini, camioncini e motocicli.

La Casa Bianca fa sapere che nel frattempo, non saranno applicate sanzioni alle istituzioni finanziarie iraniane coinvolte nel progetto della fornitura di gas azerbaigiano all’Europa.

Gli USA non permetteranno che l’Iran si doti di armi nucleari

Gli USA non permetteranno che il programma nucleare iraniano diventi realtà. Questa la dichiarazione del segretario di stato americano John Kerry, durante una riunione con la comunità ebraica americana a Washington.

Kerry ha altresì aggiunto: “I timori di Israele per la propria sicurezza devono sparire”; riferendosi in particolare alla minaccia del gruppo islamista libanese Hezbollah, che è “la marionetta nelle mani dell’Iran che attacca Israele”. Secondo il segretario di stato americano “L’Iran è coinvolto in tutto ciò”.

(Traduzione di: Marco Nocera)   

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STEFANO VERNOLE A RADIO ITALIA IRIB: POLITICA ITALIANA SU SIRIA TOTALMENTE SBAGLIATA

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“Il Governo Letta non cambierà le sue direttive nella politica estera e nelle operazioni Nato perchè mancano i mezzi di discontinuita’ tra questo governo e quello precedente, in particolare il ministro degli Esteri Bonino sulla cui fedelta’ alle direttive che provengono da Washington non ci sono dubbi”. Sono le parole di Stefano Vernole, redattore della rivista Eurasia.
 
L’intervista integrale è disponibile al link sottostante:

http://italian.irib.ir/analisi/tavola-rotonda/item/126501-antonella-ricciardi-e-stefano-vernole-all’irib-politica-italiana-sulla-siria-totalmente-sbagliata-e-irrevocabile

 

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TURKISH REVOLUTION ?

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Claudio Mutti interviewed by Natella Speranskaya (Moscow, June 4th, 2013)

http://www.granews.info/content/turkish-revolution-interview-claudio-mutti

 

Q.- The national revolution has started in Turkey. What are the forces behind it? Who is fighting whom?

R. – The slogans about “human rights” and “democracy”, the Femen’s performances, the solidarity expressed by Madonna and other hollywoodian stars, the antifa rhetoric peppered with “Bella ciao” as its soundtrack are the symptoms of an “orange revolution” or a “Turkish spring”, rather than of a national revolution. At present it is impossible to know if the troubles have broken out in a spontaneous way, or if really foreign agents have provoked the troubles, as pretended by Erdogan. But we must consider that US Ambassador Francis Ricciardone has repeated twice in two days his message in favour of protesters and that John Kerry has made a declaration about the right of protesting. Certainly, among the protesters there are also militants and activists of national, anti-Atlantist and also pro-Eurasian movements (as, for example, the Workers’ Party, İşçi Partisi); but I don’t think that they are in the position to direct a so heterogeneous mass towards the goal of a national revolution.

 

 

Q. – How is the Turkish revolution related to the geopolitical opposition of Eurasianism (Russia, Iran, Syria) and atlantism (NATO, USA, EU)?

R. – It is true that many people have been troubled by Turkey’s envolvement in the Syrian conflict. Nevertheless, when the protesters claim “We are the children of Ataturk”, they express a concern related to secularistic and laicistic beliefs, not to a Eurasianistic position. Unfortunately I don’t see a significant anti-Atlantic trend in the present revolt.

 

 

Q. – Your prognosis of the development of events in Turkey and how it will effect the situation in Syria?

R. – It is probable that the Turkish revolt will induce Erdogan to think about the saying “sow the wind and reap the whirlwind” and to devote himself more to Turkish affairs than to Syrian ones; probably he will take note of the fact that Americans are always ready to oust their collaborators, after making use of them. Two months ago his Foreign Minister Ahmet Davutoglu has signed a protocol of agreement with the SCO. If the Turkish government wants to be consistent with this decision, it must drop that kind of “neo-Ottomanism” which conceals a subimperialistic role, useful to North American interests. Even better, if Turkey really wants to be a point of reference for muslim peoples of Mediterranean Sea and Middle East, it must break off its ties with NATO and with the Zionist regime. It is schizofrenic to destabilize Syria and at the same time to accuse Zionism and Israel of being, according Erdogan’s words, “a crime against humanity” and “a threat to regional peace”.

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Il lupo grigio al bivio

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SOMMARIO

 

Editoriale 

C. Mutti, Il lupo grigio al bivio

Geofilosofia

Aristotele, Popolazione e territorio della polis ideale

Dossario – Il lupo grigio al bivio

Aldo Braccio, La Repubblica turca a dieci anni dal centenario
Tancrède Josseran, È duro essere turchi
Davide Ragnolini, Il pensiero geopolitico del Giano turco
Mahdi Darius Nazemroaya, Neoottomanismo e teoria del sistema mondiale
Francesca Manenti, Turchia e Stati Uniti: evoluzione di un’alleanza
Alessandro Lattanzio, Le Forze Armate turche
Federico Donelli, La strategia energetica turca guarda verso il Kurdistan
Giuseppe Cappelluti, La Turchia e il Kazakhstan
Augusto Sinagra, La Repubblica Turca di Cipro del Nord
Lorenzo Salimbeni, Il grande malato
Emanuela Locci Atatürk, e la massoneria

Continenti
Carlo Fanti, Air Sea Battle
Ye Feng, L’esercito cinese: una forza di pace
Andrea Fais, Il ruolo della Bielorussia nel mondo multipolare
Giacomo Gabellini, L’offensiva di Tel Aviv

Documenti
La “Rivoluzione Democratica Nazionale” del Partito dei Lavoratori di Turchia
Jean Thiriart, Criminale nocività del piccolo nazionalismo: Sud Tirolo e Cipro

Interviste
La Turchia vista da Budapest. Intervista a Gábor Vona
Intervista all’ambasciatore tedesco in Italia

Recensioni
Nilüfer Göle, L’Islam e l’Europa. Interpenetrazioni (C. Mutti)
Carlo Frappi, Azerbaigian. Crocevia del Caucaso (C. Mutti)
Giovanni Bensi, Le religioni dell’Azerbaigian (C. Mutti)
Gamal Abd el-Nasser, La filosofia della rivoluzione (D. Ragnolini)
Imam ‘Alî ibn Abî Tâlib, Lettera a Mâlik al-Ashtar. Il governo dal punto di vista islamico (E. Galoppini)
Marco Di Branco, Storie arabe di Greci e di Romani. La Grecia e Roma nella storiografia arabo-islamica medievale (C. Mutti)
Fabio Vender, Kant, Schmitt e la guerra preventiva (D. Ragnolini)

 
 
 
Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto per ciascuno di essi.

 

 

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IL LUPO GRIGIO AL BIVIO

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È uscito il numero XXX (2-2013) della rivista di studi geopolitici “Eurasia” intitolato:

 

IL LUPO GRIGIO AL BIVIO

 

Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto di ciascuno di essi.

 

EDITORIALE

IL LUPO GRIGIO AL BIVIO di Claudio Mutti

 

 

GEOFILOSOFIA

POPOLAZIONE E TERRITORIO DELLA POLIS IDEALE di Aristotele

Considerando i dati fondamentali per l’esistenza della polis, Aristotele premette che la grandezza di uno Stato dipende più dalla potenza che non dal numero degli abitanti, nel quale sono compresi anche schiavi, meteci e stranieri; quindi bisogna evitare la sovrappopolazione, che è ostacolo al buon governo, e osservare il criterio del  giusto limite, poiché ogni cosa ha una misura che è determinata dalla sua funzione. La polis, nella fattispecie, trova la propria norma allorché la sua grandezza consente una visione sinottica della popolazione ed è compatibile con l’autarchia. Quanto al territorio della polis, la configurazione geografica migliore è quella che, corrispondendo alle prescrizioni strategiche, rende ardue le invasioni nemiche e agevola l’eventuale evacuazione. La città propriamente detta dovrà avere facile accesso al mare e a tutte le vie di terra, per poter ricevere tutto ciò che è necessario per la sua industria e per il suo consumo. Aristotele non ignora i pericoli ai quali si trova esposta una polis troppo vicina al mare, ma vede anche i vantaggi militari ed economici di una tale ubicazione ed assume una posizione realisticamente mediana. Quanto alla flotta, la sua importanza dipende dal ruolo politico che la polis intende svolgere nelle relazioni con gli altri Stati.

 

 

DOSSARIO: IL LUPO GRIGIO AL BIVIO

LA REPUBBLICA TURCA A DIECI ANNI DAL CENTENARIO di Aldo Braccio

Il 29 ottobre 2013 la Repubblica turca compirà 90 anni. Nata dalla dissoluzione dell’ecumene imperiale ottomana, essa si è subito caratterizzata per l’assunzione di postulati ideologici e culturali importati dall’Occidente per poi progressivamente allinearsi anche sul piano strategico e militare. La  storia della Repubblica tuttavia presenta una complessità meritevole di attenzione e anche fasi storiche in controtendenza, come per molti versi quella del primo decennio del nostro secolo. In previsione della celebrazione del Centenario, è molto avvertita l’aspirazione a recuperare il senso complessivo di un’esperienza pluridecennale da vivere non più in opposizione ad altre epoche storiche,  ma come parte di un tutto. Rendere effettiva la sovranità nazionale in un contesto geopolitico che sta mutando appare la principale sfida che la Türkiye Cumhuriyeti deve affrontare, in uno spirito di rinnovamento scevro da vecchie incrostazioni ideologiche e da subordinazioni atlantiche.

 

È DURO ESSERE TURCHI di Tancrède Josseran

Dalla fine degli anni Ottanta, in Turchia è emersa una corrente sovranista (ulusalci). Tutta l’originalità di questo movimento risiede nel suo apparente superamento del dualismo destra-sinistra. Esso è il frutto della convergenza di diverse tradizioni politiche. Così, una parte della sinistra kemalista si è avvicinata, grazie alla mediazione dei circoli militari, alla destra radicale. Gli esponenti di questa sintesi coniugano il rifiuto dell’imperialismo occidentale con l’affermazione di un’identità nazionale e statale forte. Ostile al processo di adesione all’Unione Europea, favorevole all’instaurazione di un asse continentale eurasiatico con Mosca, avversaria della mondializzazione liberale, questa corrente fa inoltre appello ai grandi canoni del kemalismo classico: rifiuto delle alleanze militari asimmetriche, insistenza sull’idea di una via specifica del mondo turco. Suat Ilhan è oggi uno dei rappresentanti più noti di questa corrente sovranista. In un libro-manifesto, Ilhan disegna un panorama della storia dei Turchi e delle grandi sfide che essi devono affrontare.

 

IL PENSIERO GEOPOLITICO DEL GIANO TURCO di Davide Ragnolini

Il pensiero geopolitico dell’attuale ministro degli Esteri turco ha svolto un ruolo essenziale per il fenomeno di “rinascita” della nazione anatolica. La sua teoria contiene i lineamenti di una politica estera in cui la storia e il topos del Paese sono elementi essenziali per quella che Schmitt definirebbe una “coscienza della struttura spaziale dell’ordinamento” assunta da un attore geopolitico. Il volto dell’attore geopolitico turco appare duplice come quello di Giano, tra passato prekemalista e futuro, tra Oriente e Occidente; esso contiene la possibilità teorica di una crescita della sovranità geopolitica turca nel Vicino Oriente e sul piano globale, ma anche la genesi delle ambiguità della prassi geopolitica del governo Erdoğan-Davutoğlu. L’apertura geopolitica turca, realizzatasi in modo crescente a partire dalla fine del mondo bipolare, sembra condurre il Paese verso un’egemonia regionale, ma in uno scenario in cui le mosse dell’attore turco appaiono ricche di conseguenze e al contempo imprevedibili.

 

NEOOTTOMANISMO E TEORIA DEL SISTEMA MONDIALE di Mahdi Darius Nazemroaya

Il “neoottomanismo” è il nucleo della politica di “zero problemi coi vicini” del Primo Ministro Recep Tayyip Erdoğan e del Ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu. Questa politica è, in sostanza, un espedientecapitalista finalizzato a sostenere il potere economico turco. In origine, essa mirava a preparare la Turchia per la trasformazione del sistema capitalista mondiale e per lo spostamento del suo centro egemonico. Ma gli Stati Uniti, nel loro declino in quanto centro di accumulazione del sistema capitalista mondiale, sono stati costretti ad attribuire le loro funzioni e il loro potere ad alcuni Paesi legati all’imperialismo americano. Ciò ha indotto la Turchia ad iniziare una competizione per il potere regionale nel quadro di un sistema mondiale che ha Washington nel proprio centro egemonico. Ecco perché Ankara si è orientata verso gli Stati Uniti durante la cosiddetta “Primavera araba”. Ma in questo processo la Turchia ha assunto una posizione inflessibile nei riguardi della crisi della Siria, perché vorrebbe che a Damasco si installasse un regime filoturco.

 

TURCHIA E STATI UNITI: EVOLUZIONE DI UN’ALLEANZA di Francesca Manenti

L’ascesa al governo del Partito della Giustizia e dello Sviluppo ha segnato un momento di grande cambiamento per la politica turca interna e internazionale. La forte assertività che ha da subito contraddistinto le scelte del governo dell’AKP ha indotto molti studiosi ad interrogarsi su un possibile spostamento dell’asse di alleanze della Turchia verso il Vicino Oriente a discapito delle sue alleanze occidentali. In realtà nel decennio appena trascorso si è assistito ad una trasformazione del rapporto tra Ankara e Washington..  

 

LE FORZE ARMATE TURCHE di Alessandro Lattanzio

L’esercito turco, coi suoi quattrocentomila effettivi, è il più numeroso della NATO dopo quello statunitense, mentre l’aviazione militare turca è la terza per dimensioni dopo l’United States Air Force e la Royal Air Force; la marina militare dispone comprende un congruo numero di fregate, corvette, sottomarini, motovedette lanciamissili, cacciamine, navi d’assalto anfibie ecc. L’articolo è una sintetica presentazione dello stato delle Forze Armate turche, sulla base dei dati resi pubblici nel 2010.

 

LA STRATEGIA ENERGETICA TURCA GUARDA VERSO IL KURDISTAN di Federico Donelli

Le risorse che la Turchia ha a disposizione non sono sufficienti a coprire l’aumento del fabbisogno energetico nazionale, che segna una costante crescita parallela all’incessante sviluppo dell’economia. Ciò ha portato il tasso di dipendenza energetica turco dal 51% dei primi anni Novanta all’attuale 71%. L’alto costo dell’importazione di energia rischia però di intaccare la competitività del Paese sul mercato, frenando e frustrando l’aspirazione di un intero popolo e del Primo Ministro Recep Tayyip Erdoğan, desideroso di fare della Turchia un protagonista politico ed economico su scala globale. Per queste ragioni il futuro degli immensi giacimenti delle province curde dell’Iraq settentrionale rappresenta per la Turchia una potenziale soluzione delle sue esigenze energetiche.

 

LA TURCHIA E IL KAZAKHSTAN di Giuseppe Cappelluti

Dopo la fine dell’Unione Sovietica, le nuove Repubbliche turche dell’Asia centrale hanno dato vita ad una fruttuosa cooperazione con la repubblica turca dell’Anatolia, sia nell’ambito culturale sia in quello più strettamente economico e geostrategico. Sotto quest’aspetto, importante è il ruolo assunto dal Kazakhstan, in particolare negli ultimi anni. Nello stesso periodo, però, anche i rapporti tra Russia e Turchia hanno vissuto una forte crescita, malgrado le divergenze su alcune tematiche, mentre il progetto di integrazione eurasiatica sotto egida russa si sta tramutando in realtà.

 

LA REPUBBLICA TURCA DI CIPRO DEL NORD di Augusto Sinagra

A Cipro esistono due Stati: la Repubblica Turca di Cipro del Nord e la Repubblica greco-cipriota. La Turchia svolge fin dal 1960 una funzione di garanzia e protezione militare della comunità turco-cipriota con la presenza di suoi contingenti (e così pure la Grecia per la comunità greco-cipriota). Della effettività e legittimità internazionale dello Stato turco-cipriota non può dubitarsi. Le relazioni politiche, economiche e commerciali di questo con la Turchia non possono essere legittima circostanza per condizionare l’eventuale adesione della Turchia alla Unione Europea come Stato membro a pieno titolo.

 

IL GRANDE MALATO di Lorenzo Salimbeni

Tra il 1804 ed il 1912, i possedimenti dell’Impero Ottomano nella penisola balcanica vennero attraversati da una serie di rivolte, insurrezioni e rivendicazioni di carattere nazionale, sovente sostenute da potenze interessate a sostituire l’area di influenza della Sublime Porta nell’Europa orientale (Russia e Austria in primis, Francia e Inghilterra in secundis). Durante questo secolo di sconvolgimenti, la compagine imperiale andò dissolvendosi e comparvero stati nazionali che avrebbero ben presto iniziato a combattersi per definire i propri confini, con conseguenze che ancor oggi si fanno sentire. Contemporaneamente, un processo di riforme capaci di modernizzare “il grande malato” ottomano compì solo che false partenze sino all’ascesa al potere dei Giovani Turchi, i quali, però, in sostanza, proposero una forma di nazionalismo che non riuscì a salvare il secolare impero.

 

ATATÜRK E LA MASSONERIA di Emanuela Locci

Mustafa Kemal Atatürk era un massone? Se non lo era, quali relazioni lo legavano alla massoneria e per quanto tempo ha coltivato rapporti con questa organizzazione segreta? A cosa si deve l’ordine di scioglimento che egli diede nel 1935? Queste sono soltanto alcune fra le domande che hanno animato il dibattito storico sulla figura del fondatore della Turchia moderna, interrogativi cui questo breve saggio si propone di dare una risposta fondata sulle ultime acquisizioni storiografiche e su testimonianze dirette interne alla massoneria stessa. 

 

 

CONTINENTI

AIR SEA BATTLE di Carlo Fanti

Il presidente Obama non aveva mai dato ad intendere di considerare i Cinesi come potenziali nemici, come una minaccia per la sicurezza e per gli interessi nazionali americani, almeno fino al 6 gennaio 2012. In quell’occasione, con il documento Sustaining US Global Leadership: Priorities for 21st Century Defense, egli probabilmente è andato contro le sue convinzioni personali, azionando meccanismi che forse non credeva così automatici e spostando chiaramente il focus strategico americano sull’Asia orientale a discapito delle altre macroaree geostrategiche. 

 

L’ESERCITO CINESE: UNA FORZA DI PACE di Ye Feng

Il Col. Sup. Ye Feng, Addetto Militare navale ed aeronautico dell’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese a Roma, espone i motivi dai quali trae la certezza che l’Esercito di Liberazione Popolare, erede della antica tradizione di buon vicinato, rimarrà per sempre un’importante forza di pace nel mondo. 

 

IL RUOLO DELLA BIELORUSSIA NEL MONDO MULTIPOLARE di Andrea Fais

Dopo il crollo dell’URSS, la Bielorussia ha visto da vicino il dramma della deflagrazione e della guerra civile, piombando nella crisi sociale e nell’incertezza più totale. L’ascesa al potere del presidente Aleksandr Lukašenko nel 1994 ha risollevato le sorti dell’economia e della cultura nazionale a partire dall’eredità del periodo sovietico, e ripristinato quel legame storico, politico e spirituale con Mosca che la stragrande maggioranza della popolazione rivendicava e rivendica a gran voce, confermando in massa la fiducia alla linea politica che da quasi venti anni determina l’indirizzo di governo del Paese.

 

L’OFFENSIVA DI TEL AVIV di Giacomo Gabellini

Unitamente alle pressioni esercitate costantemente sul Congresso e sulla presidenza statunitense (anche per mezzo della potente lobby ebraica) affinché Washington radicalizzasse l’atteggiamento ostile nei confronti dell’Iran, Tel Aviv non ha esitato ad attuare una strategia particolarmente aggressiva, che rischia di minare i fragili e precari equilibri su cui si reggono il Vicino e il Medio Oriente.

 

 

DOCUMENTI

LA “RIVOLUZIONE DEMOCRATICA NAZIONALE” DEL PARTITO DEI LAVORATORI DI TURCHIA 

Il Partito dei Lavoratori (İşçi Partisi), guidato da Doğu Perinçek, è l’erede del Partito dei Lavoratori e dei Contadini di Turchia e del Partito Socialista. Il partito si autodefinisce “socialista scientifico” e difende i valori della Rivoluzione kemalista del 1923. La sua strategia è quella della “Rivoluzione Democratica Nazionale”, che richiama la “Rivoluzione di Nuova Democrazia” formulata molti anni fa in Cina da Mao Zedong. Ultimamente il partito ha combinato le teorie del socialismo di mercato, elaborate in Cina alla fine degli anni ‘70, con l’esperienza kemalista, al fine di delineare un nuovo modello economico adeguato alle condizioni sociali in Turchia. 

 

CRIMINALE NOCIVITÀ DEL PICCOLO NAZIONALISMO: SUD TIROLO E CIPRO di Jean Thiriart

Jean Thiriart, Criminelle nocivité du petit-nationalisme: Sud-Tyrol et Chypre, “Jeune Europe”, 6 mars 1964, p. 173. Il tema della Turchia vienne successivamente ripreso da Thiriart nella lunga intervista (inedita) Les 106 reponses à Mugarza: “il Bosforo costituisce il centro di gravità di un Impero che in un senso va da Vladivostok alle Azzorre e nell’altro dall’Islanda al Pakistan” (p. 37); “le campagne di stampa antiturche sono non solo di pessimo gusto, ma sono idiozie politiche. (…) L’Europa conterrà dei Turchi, dei Maltesi, dei Siciliani, degli Andalusi, dei Kazaki, dei Tartari di Crimea – se ne rimangono ancora – e degli Afgani” (p. 141). Un ulteriore sviluppo dell’argomento è costituito da un articolo del 1987, La Turquie, la Méditerranée et l’Europe, reperibile in rete: http://www.voxnr.com/cc/d_thiriart/EEEkyFlVkFewHhVibX.shtml

 

 

INTERVISTE

LA TURCHIA VISTA DA BUDAPEST. INTERVISTA A GÁBOR VONA, a cura di Claudio Mutti 
Gábor Vona, deputato al Parlamento ungherese, è segretario del “Movimento per un’Ungheria migliore” (Jobbik).

 

INTERVISTA A REINHARD SCHÄFERS, AMBASCIATORE TEDESCO IN ITALIA, a cura di Stefano Vernole
Reinhard Schäfers è un diplomatico tedesco. Dal 2012 è ambasciatore della Repubblica Federale Tedesca accreditato in Italia.

 

 

RECENSIONI

Nilüfer Göle, L’Islam e l’Europa. Interpenetrazioni (Claudio Mutti)

Carlo Frappi, Azerbaigian. Crocevia del Caucaso (Claudio Mutti)

Giovanni Bensi, Le religioni dell’Azerbaigian (Claudio Mutti)

Gamal Abd el-Nasser, La filosofia della religione (Davide Ragnolini)

Imam ‘Alî ibn Abî Tâlib, Lettera a Mâlik al-Ashtar. Il governo dal punto di vista islamico (Enrico Galoppini)

Marco Di Branco, Storie arabe di Greci e di Romani. La Grecia e Roma nella storiografia arabo-islamica medievale (Claudio Mutti)

Fabio Vender, Kant, Schmitt e la guerra preventiva (Davide Ragnolini)

 

 

 

 

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IL LUPO GRIGIO AL BIVIO

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Sommario del numero XXX (2-2013)

 

La Turchia è Europa

La regione chiamata con termine greco-bizantino Anatolia (“terra di levante”) nell’antichità fu considerata parte integrante dell’Europa: Erodoto1 fissa infatti il confine orientale dell’Europa sul fiume Fasi, nei pressi degli odierni porti georgiani di Poti e Batumi. Nel Medioevo Dante colloca “lo stremo d’Europa”2 vicino ai monti dell’Asia Minore, dai quali, dopo la distruzione di Troia, l’Aquila imperiale spiccò il volo verso l’Italia. Per la geografia moderna, la penisola anatolica è la propaggine più occidentale dell’Asia; tuttavia alcuni geografi la considerano più che altro la quarta penisola del Mediterraneo, data la sua posizione analoga a quella delle penisole iberica, italiana e greca.

Sotto il profilo etnico, il popolo turco stanziato nella penisola anatolica costituisce il risultato di una sintesi che ha coinvolto popoli di diversa origine. Fin dall’antichità, l’Anatolia è stata abitata da popolazioni di lingua indoeuropea: Ittiti, Frigi, Lidi, Lici, Panfili, Armeni, Celti ecc. Con l’arrivo dei Turchi Selgiuchidi e poi dei Turchi Ottomani, ebbe luogo una fusione dell’elemento autoctono con quello turanico, sicché oggi si ha in Turchia “un tipo medio, che va considerato più di fattezze europee che asiatiche”3. In altre parole, i Turchi dell’Anatolia “sono in maggioranza europidi purissimi, passati nel tempo all’uso di una lingua turca a opera dei loro conquistatori centro-asiatici”4.

La lingua ufficiale della Turchia, il turco ottomano (osmanli), come tutte le lingue turco-tatare appartiene al gruppo altaico. Si tratta perciò di una lingua non indoeuropea, così come non sono indoeuropee altre lingue parlate da secoli in Europa: le lingue turco-tatare della Russia, le lingue caucasiche, il basco, le lingue ugrofinniche (ungherese, finlandese, estone, careliano, lappone, mordvino, ceremisso, sirieno, votiaco ecc.).

La religione professata dalla quasi totalità del popolo turco è l’Islam, presente in Europa fin dall’VIII secolo d.C. La Turchia è musulmana così come lo sono state la Spagna, la Francia meridionale e la Sicilia; come lo sono alcune regioni della Russia, del Caucaso e dei Balcani; come lo è oggi una parte della popolazione dell’Europa, dove il numero complessivo dei musulmani supera ormai i dieci milioni di anime.

La dinastia che resse l’Impero ottomano fino alla sua caduta fu in sostanza una dinastia europea, nella quale il tasso di sangue turco diminuiva ad ogni generazione, poiché la validé (la madre del Sultano) era o greca, o slava o circassa o anche italiana. In un certo senso, si potrebbe dunque dire che i Sultani ottomani erano “più europei” che non i re ungheresi della dinastia di Arpád, turanici per parte di padre e di madre. Quanto alla classe dirigente ottomana, furono innumerevoli i visir, i funzionari politici e gli ufficiali dell’esercito appartenenti ai popoli balcanici. Gli stessi giannizzeri, l’élite militare dell’Impero, non erano d’origine turca.

Il pontefice Pio II, nella lettera da lui inviata nel 1469 a Mehmed il Conquistatore, riconobbe il Sultano come “imperatore dei Greci” de facto, in quanto successore dei basileis di Bisanzio e degli imperatori di Roma: “Fuerunt Itali rerum domini, nunc Turchorum inchoatur imperium”. Papa Enea Silvio Piccolomini proponeva quindi al Conquistatore di trasformare la situazione de facto in stato de jure, facendosi nominare da lui “imperatore dei Greci e dell’Oriente” mediante… “un pochino d’acqua (aquae pauxillum)”. Ma, mentre un altro principe “pagano”, il magiaro Vajk, si era fatto battezzare col nome di Stefano e aveva ricevuto da Papa Silvestro II la corona regale, Mehmed invece rimase Mehmed e trasmise ai suoi successori quell’autorità imperiale che, toccatagli per effetto dell’ordalia del maggio1453, era stata ben presto riconosciuta dall’Europa in maniera esplicita e ufficiale. Secondo la Repubblica di Venezia, infatti, Mehmed II era imperatore di Costantinopoli, cosicché gli spettavano di diritto tutti i territori dell’impero bizantino, comprese le vecchie colonie greche della Puglia (Brindisi, Taranto e Otranto). Per quanto riguarda Firenze, Lorenzo il Magnifico fece coniare una medaglia sulla quale, accanto all’immagine del Conquistatore, si poteva leggere: “Mahumet, Asie ac Trapesunzis Magneque Gretie Imperat(or)”; dove per Magna Gretia si doveva intendere Bisanzio col suo vasto retroterra europeo. Altre due medaglie, che parlavano anch’esse un linguaggio inequivocabile circa il carattere rivestito dall’imperium ottomano, furono fatte coniare nel 1481 da Ferrante d’Aragona; le iscrizioni qualificavano Mehmed II come “Asie et Gretie imperator” e “Bizantii imperator”.

“Fatto come i Romani per reggere i popoli, secondo l’affermazione dell’antico poeta, [il Turco] ha governato vecchi popoli civili nel rispetto delle loro tradizioni e delle loro ambizioni millenarie”5. Così l’Impero ottomano, subentrando all’Impero Romano d’Oriente, fu “l’ultima ipostasi di Roma (…) la Roma musulmana dei Turchi”6, ovvero “un Impero romano turco-musulmano”7. La Turchia ottomana fu perciò una potenza europea, come venne d’altronde ufficialmente riconosciuto dagli stessi rappresentanti degli Stati europei nel congresso di Parigi del 1856, quando la Turchia era diventata “il grande malato d’Europa”.

Un secolo e mezzo più tardi lo Stato turco non è più il grande malato d’Europa, ma, al contrario, gode di uno stato di salute migliore di quello di molti Paesi europei. Tuttavia, pur essendo candidata dal 1999 all’ingresso nell’Unione Europea, la Turchia viene tenuta in quarantena a tempo indeterminato. La sua adesione all’Unione, fissata per il 2015, è tutt’altro che scontata.

 

 

La Turchia è Asia

Il primo insediamento di un popolo turco sul territorio anatolico ebbe luogo in seguito alla battaglia di Melashgert, avvenuta il 26 agosto 1071, nella quale le truppe comandate da Romano Diogene furono sbaragliate dai guerrieri selgiuchidi di Alp Arslan. Con questi primi invasori turchi erano arrivati in Anatolia anche i Turchi ottomani, ai quali fu inizialmente assegnata una marca di confine fra i territori selgiuchidi della Frigia e della Galazia e la provincia di Bitinia, ancora sotto controllo bizantino; l’indebolimento della potenza selgiuchide favorì la nascita dell’impero ottomano.

Ma già prima che Selgiuchidi e Ottomani giungessero in Anatolia, tra i secoli VI e IX diversi gruppi turchi si erano stanziati in Europa. I Cazari avevano fondato un impero che dalle rive nordoccidentali del Caspio si estendeva fino alla Crimea; i Bulgari avevano costituito due distinti khanati, nei bacini della Volga e del Danubio; gli Avari erano dilagati fino ad occidente del Tibisco; i Peceneghi avevano occupato le foci del Danubio; i Qipciaq e i Cumani si erano stabiliti a nord e a nordest del Mar Nero. Prima ancora, nel IV secolo, nei territori dell’Impero romano erano apparsi gli Unni, che sotto la guida di Attila (m. 453) sarebbero poi assurti a grande potenza creando un impero; essi erano i probabili discendenti di quegli Hsiung-nu che per qualche secolo avevano minacciato l’Impero cinese.

Selgiuchidi e Ottomani, antenati dei Turchi d’Anatolia e degli Azeri, costituiscono una delle tre parti in cui si divise, tra i secoli X e XII, la massa di tribù turche nota come gruppo oguzo. La seconda, costituita inizialmente da Uzi e Peceneghi, è rappresentata oggi dai Gagauzi (sparsi tra Ucraina, Repubblica di Moldavia, Romania e Bulgaria) nonché da varie comunità turche dei Balcani. La terza parte del gruppo oguzo è quella che, rimasta rimasta nei pressi dell’Aral, diede origine al popolo dei Turkmeni.

Premesso che  i vari sistemi di classificazione delle lingue e dei dialetti turchi proposti dai turcologi “sono tutti necessariamente artificiosi nel tentativo di raggruppare concrezioni linguistiche di età differente”8, è comunque possibile collocare il gruppo oguzo nel ramo occidentale della famiglia turca, al quale appartengono anche i gruppi bulgaro, kipciak e karluk.

Il gruppo bulgaro, che nell’Alto Medioevo comprendeva la lingua parlata dai Bulgari della Volga e della Kama, nonché la lingua cazara, è rappresentato attualmente dal ciuvascio, parlato sui territori di tre repubbliche autonome della Federazione Russa.

Il gruppo kipciak viene ripartito in tre sottogruppi, al primo dei quali appartenne la lingua di quei Cumani che, apparsi nell’Est europeo nel sec. XI, in parte si stanziarono in territorio ungherese; le lingue vive di questo sottogruppo sono parlate da circa cinque milioni di anime tra Lituania, Ucraina, Caucaso, Kirghizistan e Uzbekistan. Il secondo sottogruppo è costituito da Tatari e Baskiri. Fra le tre lingue del terzo sottogruppo, la più importante è quella kazaka, lingua ufficiale del Kazakhstan.

Il gruppo karluk comprende, oltre ad alcune lingue antiche e letterarie, due lingue parlate in vari territori dell’Asia centrale: l’usbeco (ufficiale in Uzbekistan) e l’uiguro moderno (ufficiale nella Regione Autonoma dello Hsinkiang).

Per quanto riguarda il ramo orientale della famiglia turca, esso comprende il gruppo uiguro-oguzo e quello kirghiso-kipciak. Nel primo gruppo rientrano, assieme ad altri idiomi, il tuvino, parlato nell’omonima repubblica della Federazione Russa, e lo jacuto, che corrisponde alle zone più settentrionali ed orientali dell’area turcofona (Repubblica Jacuta e isola di Sachalin). Nel secondo gruppo, la lingua più diffusa è il chirghiso, che è parlata in Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan, Hsinkiang, Afghanistan e Pakistan.

Fatta eccezione per la lingua parlata anticamente dai Bulgari, per lo jacuto e per il ciuvascio, le lingue turche antiche e moderne non differiscono molto tra loro, sicché risulta evidente il rapporto di affinità linguistica che lega i Turchi dell’Anatolia agli altri popoli turchi che vivono nel continente eurasiatico.

 

 

Prospettive eurasiatiche

Non è facile stabilire dove gli antenati della grande famiglia turca abbiano avuto la loro primitiva dimora, dalla quale ondate successive di orde nomadi partirono per invadere i territori della Cina, dell’India, della Persia e dell’Europa. Secondo le ipotesi formulate dagli studiosi, la sede originaria dei Turchi dovrebbe coincidere con la zona dei monti Altai o con la regione compresa tra gli Altai, gli Urali e l’Ural, mentre altri ritengono che essa si sarebbe trovata a nord della Cina, nell’odierna Jacuzia; altri ancora indicano la vasta area che va dal deserto del Gobi fino al corso della Volga.

L’identificazione dell’Urheimat turco con la regione designata dal termine persiano Turan, a nord dell’Iran, costituisce il mito d’origine del movimento politico-culturale noto come panturanismo, che preconizza l’unità dei popoli turchi. Della tesi panturanista, nata nel quarto decennio del XX secolo in ambiente tataro, si appropriò Ármin Vámbéry9, il quale la propose alla Gran Bretagna come uno strumento ideologico da utilizzare nel “Grande Gioco”: una grande entità politica compresa tra i Monti Altai e il Bosforo avrebbe potuto sbarrare per sempre la strada all’espansione russa verso la Persia e i Dardanelli. Ben diverso fu il significato che l’ideale panturanico assunse nei primi anni del Novecento, quando fu la Germania guglielmina, alleata della Turchia, a sostenere il panturanismo e il panislamismo nel quadro geostrategico di un asse Berlino-Vienna-Istanbul-Bagdad che metteva a rischio l’egemonia coloniale britannica.

Anche Samuel Huntington ha preso in seria considerazione l’eventualità che, ponendosi “a capo di una comunità di nazioni turche”10, la Turchia “si ridefinisca come paese leader del mondo islamico”11 e persegua “sempre più intensamente i propri interessi particolari nei Balcani, nel mondo arabo e in Asia centrale”12. Il teorico dello “scontro delle civiltà” ha riassunto nei termini seguenti le iniziative intraprese da Ankara in direzione turanica subito dopo il crollo dell’URSS: “Il presidente Özal e altri leader turchi cominciarono a vagheggiare la creazione di una comunità di popoli turchi e dedicarono grandi sforzi per sviluppare legami con i ‘turchi esterni’ dell’ex impero ‘dall’Adriatico ai confini con la Cina’. Particolare attenzione venne prestata all’Azerbaigian e alle quattro repubbliche centroasiatiche di lingua turca: Uzbekistan, Turkmenistan, Kazakistan e Kirghizistan. Nel 1991 e 1992 la Turchia avviò un’ampia gamma di iniziative volte a rinsaldare i legami e ad accrescere la propria influenza in queste nuove repubbliche: prestiti a lungo termine e a interesse agevolato (…) assistenza umanitaria (…) televisione via satellite (…) reti telefoniche, servizi aerei, migliaia di borse di studio e corsi di formazione in Turchia per banchieri, imprenditori, diplomatici e ufficiali centroasiatici e azeri. Furono inviati insegnanti di lingua turca e sono nate circa duemila imprese miste. La comunanza culturale ha certamente aiutato i rapporti economici”13.

Nell’elaborazione geopolitica di Ahmet Davutoğlu14, consigliere diplomatico di Erdoğan diventato ministro degli Esteri nel 2009, la comunità dei popoli turchi occupa un posto fondamentale: “L’impero delle steppe, l’Orda d’Oro, dal Mar d’Aral all’Anatolia è un punto fermo del suo pensiero. La Turchia ha ogni interesse a rivivificare questa vocazione continentale e ad avvicinarsi al gruppo di Shanghai sotto la bacchetta della Cina e della Russia”15. La lentezza con cui procedono i negoziati per l’adesione all’Unione Europea è stata determinante per spingere Ankara nella direzione teorizzata da Ahmet Davutoğlu, il quale ha firmato nell’aprile 2013 un protocollo d’intesa che fa della Turchia un “membro dialogante” dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. “Ora, con questa scelta, – ha dichiarato Dmitrij Mezencev, segretario generale dell’Organizzazione – la Turchia afferma che il nostro destino è il medesimo dei Paesi dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai”. E Davutoğlu: “La Turchia farà parte di una famiglia composta di paesi che hanno vissuto insieme non per secoli, ma per millenni”.

La decisione turca di aggregarsi all’Organizzazione di Shanghai, nucleo di un potenziale blocco di alleanza eurasiatica, potrebbe essere gravida di importanti sviluppi. Infatti la politica di avvicinamento a Mosca, Pechino e Teheran, se coerentemente perseguita, si rivelerebbe incompatibile con un “neoottomanismo” che malamente nasconde un ruolo subimperialista, funzionale agl’interessi egemonici statunitensi. Non solo, ma prima o poi la Turchia potrebbe porre seriamente in discussione il proprio inserimento nell’Alleanza Atlantica e rescindere i vincoli col regime sionista, qualora intendesse credibilmente proporsi come punto di riferimento per i Paesi musulmani del Mediterraneo e del Vicino Oriente. E non è nemmeno da escludere che uno scenario di tal genere possa indurre l’Europa stessa ad un’assunzione di responsabilità, incoraggiandola a riannodare quell’alleanza con la Turchia che la Germania e l’Austria-Ungheria avevano stabilita all’inizio del secolo scorso…

Börteçine,il lupo grigio che guidò i Turchi verso l’Anatolia, oggi si trova ad un bivio. Non si tratta di scegliere tra l’Europa e l’Asia, ma tra l’Occidente e l’Eurasia.

 

 

Claudio Mutti, direttore di “Eurasia”.

 

 

1. Erodoto, IV, 45.

2. Dante, Par. VI, 5.

3. R. Biasutti, Le razze e i popoli della terra, Utet, Torino 1967, vol. II, p. 526.

4. S. Salvi, La mezzaluna con la stella rossa, Marietti, Genova 1993, p. 60.

5. R. Grousset, L’empire des steppes, Payot, Paris 1939, p. 28.

6. N. Iorga, cit. in I. Buga, Calea Regelui, Bucarest 1998, p. 138.

7. A. Toynbee, A Study of History, London – New York – Toronto 1948, vol. XII, p. 158).

8. A. Bombaci, La letteratura turca, Sansoni-Accademia, Firenze-Milano 1969, p. 17.

9. Ármin Vámbéry (pseud. di Hermann Bamberger) nacque il 19 marzo 1832 da una famiglia ebraica che si era stabilita a Szentgyörgy, nei pressi dell’attuale Bratislava. Dopo avere studiato il turco, nel 1857 andò a Istanbul, dove rimase fino al 1861. Partito per l’Asia centrale, si spacciò per derviscio ed arrivò a Khiva, Bukhara e Samarcanda. Rientrato a Pest, si recò successivamente a Londra, dove, per i servigi resi alla Gran Bretagna, fu nominato membro onorario della Royal Geographical Society e ricevuto dalla corte reale inglese. Nel 2005 gli Archivi nazionali di Kiev hanno rivelato che Vámbéry lavorò per il British Foreign Office come agente e spia nel “grande gioco” in Asia centrale. Nel 1900-1901 si adoprò per procurare a Theodor Herzl un’udienza presso il Sultano Abdülhamid II. Morì il 15 settembre 1913.

10. S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2001, p. 211.

11. S. P. Huntington, op. cit., p. 234.

12. S. P. Huntington, op. cit., ibidem.

13. S. P. Huntington, op. cit., p. 210.

14. A. Davutoglu, Strategik derinlik [Profondità strategica], Kure yayinlari, Istanbul 2008.

15. T. Josseran, La nouvelle puissance turque. L’adieu à Mustapha Kemal, Ellipses, Paris 2010, pp. 42-43.

 

 

 

 

 

 

 

 

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GIUSTIZIA E SPIRITUALITÀ

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Sottotitolo: Il pensiero politico di Mahmoud Ahmadinejad
 
Autore: Alì Reza Jalali; Sepehr Hekmat


 
 
Descrizione: Il presidente Mahmoud Ahmadinejad è stato senza ombra di dubbio l’uomo politico iraniano più famoso del mondo in questa prima parte del XXI secolo. Grazie all’impegno del suo governo l’Iran si è rafforzato sia all’interno, che a livello internazionale. I suoi discorsi, le sue esternazioni e le sue parole hanno fatto il giro del mondo e hanno causato reazioni diverse in tutti i continenti. Le idee di questo uomo politico musulmano derivano sicuramente dalla scuola islamica sciita, e i concetti di “Giustizia” e “Spiritualità” sono la base dell’azione sociale di Ahmadinejad, sia in patria che all’estero. Egli è un seguace autentico della linea rivoluzionaria islamica tracciata dall’Imam Khomeini, guida del movimento che rovesciò la monarchia filoamericana dell’Iran nel 1979.
 
 

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UNA FORTEZZA IDEOLOGICA

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Sottotitolo: Enver Hoxha e il comunismo albanese

Autore: Marco Costa

Descrizione: Nonostante i numerosi anni trascorsi dalla sua morte, Enver Hoxha continua a rimanere una figura di primo piano nella storia del socialismo. Con il suo rigido e onnicomprensivo impianto ideologico, questo particolare uomo politico è riuscito a mettere in piedi un sistema profondamente originale, e a fare dell’Albania un’interlocutrice di rilievo dei principali Paesi socialisti (Unione Sovietica e Cina). Questo libro indaga gli aspetti fondamentali che hanno caratterizzato il regime edificato da Enver Hoxha, ripercorrendo le tappe cruciali che hanno segnato storia, cultura, economia e politica albanese.

 

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VASILE LOVINESCU, REX ABSCONDITUS , EDIZIONI ALL’INSEGNA DEL VELTRO, PARMA 2012, PP. 52, € 12,00

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È nota l’esistenza di leggende che in tutta l’Eurasia parlano di sovrani ed eroi i quali, ritenuti morti, vivrebbero invece nascosti in qualche luogo recondito, destinati a manifestarsi alla fine dell’attuale ciclo d’umanità per restaurare un ordine di giustizia. Artù, Carlo Magno, Federico I di Svevia, Gesar de Ling, il Mahdi sono solo le figure più celebri di questo archetipo.

A questa serie di sovrani e di eroi appartiene anche Stefano il Grande, voivoda di Moldavia. Secondo Vasile Lovinescu, sarebbe proprio lui il personaggio raffigurato in un’icona del XVII secolo ai piedi dell’Arcangelo Michele “che fa il gesto dell’androgine ermetico” (come osservò René Guénon commentando la foto dell’icona).

 

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A DOMANDA…RISPONDE

EL CRIMEN ORGANIZADO TRANSNACIONAL EN AMÉRICA LATINA. HACIA UN NUEVA FORMA DE GUERRA

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Siguiendo el pensamiento de Raymond Aron, tomado de Clausewitz, que dice “la guerra es un camaleón”, afirmamos que la misma se encuentra en constante evolución y modificación. Mutando su naturaleza, contenidos, procedimientos y alcance. Y cuando creemos que se ha agotado en sus manifestaciones, se revela con mayor fuerza en otros aspectos, muchos más agresivos, morbosos e imprevistos.

La pregunta estratégica por definición no es aquella que se refiere al “qué hacer”, sino la que pregunta “de qué se trata”, cual es el eje del problema, lo medular, lo sustancial, lo conceptual. Si no se tiene el concepto de lo que ocurre, no se puede operar sobre la realidad. La misma se torna caótica, ingobernable.

  

Lo que es verdaderamente relevante, desde el punto de vista estratégico, es lo nuevo, no lo que se repite. El cambio y el conflicto derivado, no la continuidad y la estabilidad. La novedad, en el caso de la Guerra Fría, fue la ausencia de la derrota militar clásica, en batalla. Hubo un colapso estratégico, no militar, en el ámbito de esta confrontación mundial nuclear.

 

En efecto, durante el primer decenio la  “posguerra fría” (1991/2001) se registraron 108 conflictos armados, en 73 lugares diferentes del planeta, cubriendo todas las gradaciones de intensidad:

  • menores, en los cuales el número de bajas registradas durante su transcurso es superior a 25, pero menor a 1000;
  • intermedios, con más de 1000 bajas durante su transcurso pero, en cualquiera de los años considerados, menos de esa cantidad y más de 25; y
  • mayores (o literalmente guerras “de la primera especie”), con más de 1000 bajas fatales en cualquiera de sus años de desarrollo.

 

De los mencionados 108 conflictos, 92 de ellos fueron intraestatales, sin intervención de terceras partes externas; otros 9 fueron intraestatales, aunque con algún tipo de participación extranjera; finalmente, los 7 restantes fueron interestatales.

 

La guerra fría se caracterizó por la determinación y la identificación concreta de los adversarios en disputa. A través de la disuasión nuclear, se materializó la “pax nuclear”, los únicos 40 años de paz consecutivos en Europa, desde hace cinco siglos. La crisis actual es la repentina irrupción de lo novedoso, que cambia los datos del problema y provoca como efecto la obsolescencia de las categorías conocidas para resolver el conflicto. Estos, en vez de constituir hechos excepcionales, tienden a transformarse en acontecimientos permanentes.

 

El cambio tecnológico es la fuerza que impulsa el proceso de globalización de la economía mundial y en particular del sistema financiero, mientras desde el punto de vista político las culturas intentan su reafirmación, dentro de la integración o continentalismo.

 

Una de las características de la revolución tecnológica es el procesamiento de una masa de información que permite tomar decisiones estratégicas en tiempo real y a escala planetaria. Ello ha cambiado el ritmo de los acontecimientos en las culturas desarrolladas. Contrariamente, en las culturas subdesarrolladas han irrumpido las crisis generalizadas, abarcando a todos los sistemas institucionales: políticos, económicos o sociales.

 

Surge la percepción de una extraordinaria incertidumbre en regiones deprimidas, ante los cambios cualitativos que no pueden ser incorporados. Las categorías del pensamiento, propio de épocas pasadas, no están en condiciones de abarcar y conceptualizar lo que está pasando hoy. La clave del presente, ante lo expuesto es: limitar la incertidumbre, reconociendo el carácter inexorable del avance tecnológico, y  al mismo tiempo estar en condiciones de dar una respuesta, siempre tentativa, a la pregunta crucial: ¿Qué tenemos frente a nuestros ojos?, ¿Porqué ocurre?; y transformar esa incertidumbre en riesgo, a través del planeamiento. Acotar la irrupción de lo nuevo, sus condiciones y características: sus esencias. La tarea clave es ver lo que los ojos no ven, evitar bucear en la dualidad. Abarcar y focalizar lo nuevo, para concentrar las energías.

 

Ante una situación de irrupción de lo nuevo, la tarea fundamental está en el campo de la Inteligencia Estratégica. Pero por encima de la Inteligencia Estratégica está la Sabiduría Política, que consiste en dirigir los esfuerzos institucionales según la naturaleza del conflicto que tenemos por delante.

 

Ante un conflicto nuevo, que emerge, la responsabilidad de la seguridad estratégica del Estado, consiste en nunca dar por seguro lo peor, como decía Churchill. Pero, como complemento de esta afirmación, la responsabilidad político-estratégica–militar, consiste siempre en prever la peor hipótesis. Decía De Gaulle: “el Ejército es una Institución que de nada sirve, salvo cuando todo depende de ella”.

 

La confluencia entre el pensamiento estratégico y el político-diplomático, que nunca da por seguro lo peor, debe enfrentar hoy a los novísimos conflictos post-Guerra Fría. En éste mundo en constante cambio, de acelerado ritmo, las crisis constantes así lo exigen.

 

Hoy toda organización política estatal que no sea estructuralmente flexible y capaz de adaptarse dinámicamente al medio, a través del acceso directo e instantáneo a la información procesada, de alcance mundial, estará buscando inconscientemente su propia inmolación.

 

En nuestra opinión la versión contemporánea de la guerra civil está asociada a la ruptura del Estado. Podríamos conceptualizarla de  la siguiente forma: “Una parte de la comunidad rechaza los procedimientos establecidos para la resolución de conflictos y opta por recurrir a la fuerza armada para imponer sus criterios sobre la organización política, económica o territorial de la colectividad. Si la violencia entre los dos bandos se extiende en términos temporales y alcanza un cierto umbral de intensidad medido en perdidas humanas y materiales, se puede hablar de guerra civil. Durante el enfrentamiento, los rebeldes construyen un aparato paraestatal alternativo que oponen a la administración oficial. Durante un cierto tiempo, dos o más autoridades se enfrentan hasta que una destruye a la otra y monopoliza el control sobre población y territorio. Bajo esta definición se pueden englobar muchos de los enfrentamientos domésticos en el área Sur durante la última Guerra Mundial, comúnmente llamada “Guerra Fría”.[1]

 

La guerra, como cualquier otro fenómeno de la civilización en curso, está sometido a los cambios y vaivenes que experimenta la propia sociedad, ya sea por razones políticas, económicas, tecnológicas o de cualquier otra índole. La evolución de la guerra se ha caracterizado por una amplitud progresiva en todas sus magnitudes. La guerra hasta la revolución francesa llevaba una vida separada del conjunto de la sociedad. Según Leo Hamon[2], la guerra moderna se ha transformado en un fenómeno de masas, donde retaguardia y vanguardia tienden a confundirse. Donde las pérdidas en vidas humanas no discriminan entre combatientes y no combatientes. Y donde el respaldo técnico, industrial y económico, son aspectos claves en el desarrollo de este fenómeno. Por eso la guerra moderna, afirma el citado autor: “Exige una movilización psicológica que persuada a la Nación entera de la necesidad vital de aceptar estos sacrificios para evitar males mayores. Nadie ha de ignorar que concierne a todos”.

 

El carácter de los enfrentamientos civiles se puede entender con más precisión si se aplica el concepto de “guerras de tercera clase”, tal como lo desarrolla Kart Holsti[3]. Para dicho autor, este tipo de conflictos son una forma distinta de guerra, que se desarrolla en el interior de los Estados en lugar de hacerlo en la esfera internacional: “Los asuntos en juego no son intereses de política exterior, sino pugnas de raíz ideológica o problemas sobre la definición de la comunidad política que pueden conducir a UNA SECESIÓN O UNA UNIFICACION. En este contexto, las hostilidades tienden a prolongarse sin un acto formal que marque su inicio (declaración de guerra) ni su final (armisticio). No existen frentes, ni uniformes, ni respeto a los límites territoriales y la división entre combatientes y civiles se diluye, convirtiendo a todos por igual en objetivos. Estos rasgos hacen distintas a las “guerras de tercera clase”. No son conflictos sobre intereses, sino sobre hombres, en tanto que unidades básicas de la sociedad política.”

 

La historia demuestra que los grandes cambios sociales han influido decisivamente en la forma de relación social a través del enfrentamiento violento, conocido como guerra. La transición en curso desde la sociedad de la Revolución Industrial a la que resulta de la Revolución de la Información, nos anuncia otro cambio en los modos de hacer la guerra, cuyo alcance trataremos de definir.

 

Algunos autores como Lind, Schmitt y Wilson[4], brindaron una visión prospectiva de cómo podrá evolucionar el arte bélico hacia un estado que denominan la “Cuarta Generación de la Guerra”. Identifican las tres generaciones anteriores como aquellasbasadas, respectivamente, en el empleo masivo de hombres, del fuego y de la maniobra. En la actualidad se estaría entrando en la “cuarta generación” que, a pesar de los enormes adelantos tecnológicos, se basaría fundamentalmente en la fuerza de las ideas.

 

Se concretaría en un complejo enfrentamiento que abarcaría todos los aspectos de la actividad humana: cultural, social, política, económica y militar, empleando profusamente los medios de comunicación social y las redes informáticas para difundir mensajes.

 

A principios de los ’90, Martín Van Cleveld, profesor de la Universidad Hebrea de Jerusalén, en su obra “La Transformación de la Guerra”[5] anunciaba importantes cambios en los motivos por los que se hace la guerra, los actores que participan en ella, las finalidades que persigue y los modos que emplea. Su análisis parte de una premisa básica: “El paradigma que ha presidido la guerra moderna, en la que los Estados se ven abocados al conflicto bélico por razones de estado, empleando organizaciones militares permanentes para enfrentarse a otras parecidas, donde sus actores adquieren el carácter de combatientes, con las poblaciones apoyándolas pero separadas de ellos, en definitiva, lo que se conoce como la “trinidad clausewitziana” de pueblo, ejército y gobierno, ha sido históricamente, una excepción.

 

A lo largo de los tiempos, la guerra ha sido practicada por familias, clanes, tribus, ciudades, órdenes religiosas e incluso por empresas, como la Compañía de Indias Orientales británica. Los motivos por los que se iba a la guerra también han sido diversos: tierras de cultivo, mujeres, botín, esclavos, pureza de la raza. Normalmente se ha empleando a la población, en forma de milicia, como instrumento para hacer la guerra. La razón de estado como causa de guerra y las grandes burocracias militares como medio para llevarla  a cabo son rasgos de la modernidad, que se han desarrollado paralelamente con el auge del Estado-Nación moderno.

 

La conversión de los individuos a una determinada creencia o conciencia, ha sido uno de los objetivos clave de la guerra. Paralelamente, rasgos étnicos, culturales, sociales o ideológicos identifican a miembros de otra comunidad como adversarios, al margen de que empuñen o no un arma. La consecuencia inevitable es que, en estos casos, guerra y política dejan de ser la continuación una de la otra, para fusionarse en una única actividad.

 

El papel clave del Estado, como única fuente legitima de empleo de la fuerza, se fragmenta en esos casos en una serie de grupos facciosos que se arrogan ese derecho, sobre un palmo de territorio y población. Desde luego, es propio de los conflictos domésticos un cierto grado de caos y los combatientes de las “guerras de tercera clase” no son ejércitos bien organizados, atados al derecho de la guerra, sino bandas o grupos irregulares coordinados de una forma más o menos vaga, operando fuera de toda “convención”.

 

Sin embargo las nuevas guerras internas, en la posguerra fría, van más allá: desarrollan  enfrentamientos entre un número indefinido de núcleos de poder independientes que actuando en red y con agenda propia de intereses, poseen recursos militares y económicos suficientes para impulsar desafíos hasta hoy desconocidos. La multiplicación de las bandas criminales organizadas provoca una multiplicidad de delitos que agravian la supervivencia del Estado, impulsan al delito común e inducen a los ciudadanos a asumir la responsabilidad por su propia seguridad y perseguir sus objetivos por el único medio posible, en ese clima social, el uso de las armas.

 

Es este escenario, de generalización conflictiva, lo que se puede definirse como “expansión y descentralización de la violencia”. Un proceso cuya fase final parece conducir a un retorno al estado de naturaleza, en el sentido “hobbesiano” del término. La descentralización y expansión de la violencia implica necesariamente una fusión de la violencia política y el delito común.

 

Una serie de factores contribuyen a este proceso. Para empezar, la debilidad institucional del aparato estatal y el consecuente caos, propio de los conflictos civiles, crea las condiciones para una creciente impunidad, que retroalimenta su explosiva expansión. Pero además, la separación entre organizaciones criminales y organizaciones políticas violentas, tiende a difuminarse. Delincuentes e insurgentes se distinguen por sus fines. Los primeros buscando el beneficio económico y los segundos centrados en sus objetivos políticos. Sin embargo, esta separación ideal tiende a borrarse. Para empezar, terroristas y guerrilleros politizados se involucran en actividades criminales para financiarse. El caso de la guerrilla colombiana y el tráfico de narcóticos resultan muy ilustrativos. Es muy común la práctica de otras acciones delictivas, como el secuestro y la extorsión, hasta el punto de que muchas veces resulta difícil identificar cuando una acción ha sido cometida por una organización de raíz política o puramente criminal.

 

Además, es posible encontrar a grupos del crimen organizado que tienden a politizarse en la medida en que sus intereses crecen, hasta convertirse en un problema de Estado. La infiltración del Crimen Organizado Transnacional en las estructuras políticas latinoamericanas, en la actualidad, es un ejemplo acabado de esta afirmación.

 

Un factor que ayuda a explicar la proliferación de los procesos de descentralización de la violencia en el contexto de la Posguerra Fría es la creciente debilidad de los aparatos estatales, particularmente en los países del antiguo bloque soviético y del mundo subdesarrollado. En el caso de los antiguos Estados socialistas, la ineficacia y corrupción de la antigua burocracia totalitaria, el hundimiento de la economía centralizada y la crisis de legitimidad del poder político, unidos al surgimiento de nacionalismos disgregadores, han hundido al Estado en una crisis de supervivencia.

 

En lo que a Latinoamérica respecta, desde el comienzo de la Guerra Fría en 1947, conjuntamente con algunas regiones de África y del sudeste asiático, ha sido el espacio de confrontación indirecta de ambos bloques imperiales, con consecuencias catastróficas para la Región. La violencia revolucionaria se montó sobre la hereditaria debilidad de los Estados regionales y sobre los odios sociales. Su resultado fue la malversación de las Instituciones, el consiguiente debilitamiento  de las estructuras de poder, la transculturación y su consecuente “discordia social”. El caldo de cultivo ideal para transformarse en asiento natural del Crimen Organizado Transnacional y el germen propicio para las guerras civiles fraticidas.

 

Un segundo aspecto, estrechamente asociado a la debilidad del Estado, ha sido la reaparición de fuertes solidaridades subnacionales o transnacionales. Estos lazos no son nuevos pero han permanecido ocultos durante décadas bajo el peso de estructuras burocráticas más o menos artificiales. Sin embargo, el debilitamiento de los aparatos gubernamentales y su creciente crisis de legitimidad, han hecho emerger al clan, la tribu, la etnia o la religión, como principales ejes de movilización política, capaces de fracturar a los Estados. Al mismo tiempo el Crimen Organizado Transnacional, cuyos componentes centrales en la Región son el narcotráfico y el terrorismo, le otorgan a dichas estructuras la capacidad financiera y los aparatos de violencia sin los cuales la viabilidad de esas estructuras sería nula. Son dos andamiajes de distinto origen, pero que se alimentan mutuamente.

 

La difusión de las innovaciones tecnológicas ha tendido a potenciar las capacidades de actores independientes, de pequeño tamaño. Un buen ejemplo de esta tendencia puede verse en el impacto de los cambios tecnológicos en el tráfico de narcóticos. A principios de los años 70, el contrabando de cocaína se realizaba al por menor, con correos (“mulas”) que llevaban consigo pequeñas cantidades de droga. Una década más tarde, la introducción de avionetas permitió transportar cargamentos mucho mayores, de forma más rápida y difícil de controlar. A medida que se introdujeron aviones de mayor tamaño y sistemas más sofisticados de comunicaciones y ocultamiento, la cantidad de estupefacientes y los beneficios obtenidos se multiplicaron. Paralelamente, la informatización y globalización del sistema financiero internacional facilitaron los canales para blanquear una cantidad creciente de dinero sucio. Como consecuencia, grupos relativamente pequeños han tendido a incrementar su importancia dentro del negocio de los narcóticos. El desarrollo del armamento portátil, los explosivos y los sistemas de detección y comunicaciones han multiplicado el poder de destrucción de organizaciones pequeñas de la delincuencia común como del terrorismo político. La capacidad militar del combatiente individual nunca ha sido tan elevada como en la actualidad.

 

Según dos prestigiosos autores norteamericanos, Robin Wright y Doyle MacManus[6], las guerras del futuro presentarán los siguientes cambios cualitativos:

  • Los factores que contribuirán a los conflictos serán más variados en origen, tácticas y objetivos, por lo tanto tendrán efectos desestabilizadores sobre todo el mundo en su conjunto.
  • La adquisición de armas por parte de países del Tercer Mundo, especialmente las de destrucción masiva, harán más probable la guerra y, además, una vez iniciado los enfrentamientos se requerirá la acumulación de importantes recursos materiales y humanos.
  • Mientras en los países desarrollados se está teniendo éxito en llegar a acuerdos de control de armamentos, nuclear y convencional, estos intentos están fracasando en los países en vías de desarrollo, que sumado a la disminución de la capacidad de influencia política de las grandes potencias en estos países, lleva a pensar que los conflictos serán más probables en el siglo XXI.
  • Las guerras en las décadas futuras serán mayoritariamente conflictos de “baja intensidad” entre milicias y bandas equipadas con armas convencionales, cada vez más circunscriptas al interior de los Estados y las causas fundamentales serán pugnas por alcanzar el poder, la redefinición del Estado-Nación y rivalidades étnicas o religiosas.
  • Predominará lo que otros autores llaman el “efecto libanización”, es decir, la disgregación de los Estados.
  • La falta de armonía social en la nueva Era, provocará el aumento del terrorismo. Éste obtiene la mayor parte de los objetivos que se propone conseguir, dada la iniciativa estratégica que asume, frente a la lentitud de los perimidos sistemas de Defensa actuales.

 

Para Alvin y Heidi Toffler[7], los cambios revolucionarios que se han producido en el mundo y que han dado origen a “una tercera ola”, van a modelar la nueva guerra de acuerdo a esa civilización y, por lo tanto, no podemos pretender sostener ese conflicto con procedimientos de la “segunda ola”. Es necesario adoptar acciones revolucionarias en búsqueda de la paz. Para ello, hay que comprender que las transformaciones que experimentan el poder militar y la tecnología bélica, corren de manera paralela a las transformaciones económicas y sociales. Para evitar el conflicto, será necesario adoptar una estrategia actualizada de “antiguerra”, es decir, un cúmulo de acciones que garanticen la vida en paz.

 

Según estos autores el verdadero esfuerzo se sitúa en la correcta conceptualización de la guerra y de la “antiguerra”. Los conceptos que tenemos hoy en día están totalmente obsoletos y anticuados. Hemos analizado los conflictos pasados y pretendemos proyectar sus soluciones a las que tendremos en el futuro. Según Toffler, con la Tercera Ola alcanzan límites extremos tres parámetros distintos de la evolución del poder militar:

 

  • El alcance.
  • La velocidad.
  • La letalidad.

 

Se producen así profundas transformaciones en la naturaleza y formas de la guerra y la prevención de los conflictos. Estas requieren significativos cambios cualitativos en el campo de la  estrategia, de la táctica, de las organizaciones, las doctrinas y el adiestramiento.

 

Una cuarta dimensión que puede agregarse a esta matriz es el concepto actual de “tiempo”.

 

Una de las principales debilidades de nuestro Sistema de Defensa y de Inteligencia derivado, consiste en que durante largos períodos se desarrollaron capacidades, identificación de amenazas y previsión de operaciones, sin considerar el tiempo real como factor decisivo. Mantener dicha categoría de pensamiento en la actualidad, es suicida. Hoy el enemigo puede ser anónimo, puede emplear capacidades no convencionales, tales como ataques electromagnéticos o electrónicos contra comunicaciones esenciales y nodos informáticos y puede hacerlo de la noche a la mañana, sin advertencia previa.

 

Para las comunidades de Defensa y de Inteligencia Estratégica, el mayor desafío del siglo XXI es el factor “Tiempo Real”. Al tratar con la crisis y el “caos”, como el que a diario nos toca vivir, en medio de la incertidumbre, sin Planeamiento Estratégico, sin conceptualización y sin acotamiento de riesgos, los conflictos sangrientos surgen “espontáneamente” y siempre de manera “imprevista”.

 

La habilidad para crear en la contingencia, “justo a tiempo”; para responder de manera decisiva, “justo a tiempo”; va a ser el único camino crítico de una Política de Defensa y de una Inteligencia Estratégica exitosa en el siglo XXI.

 

Las guerras del siglo XXI reflejan y reflejarán, como no puede ser de otra manera, la etapa de la civilización que transitamos. El método de crear riqueza de esa civilización se caracteriza por los siguientes factores:

 

  • El conocimiento como factor esencial en la producción.
  • La desmasificación de la producción en serie.
  • La necesidad de mayor calificación para acceder a los puestos de trabajo, lo que imposibilita el intercambio laboral.
  • La continua innovación para poder competir.
  • El tamaño reducido y diferenciado de los equipos laborales.
  • La desaparición de la uniformidad burocrática.
  • La aparición de nuevas formas de dirección y de “integración sistémica”.
  • La integración mediante redes electrónicas.
  • La gran velocidad y aceleración de todo tipo de transacciones.

 

Todos estos parámetros, exponentes de la forma de hacer riqueza en la era de la información y el conocimiento, son también propios de la forma de desarrollar su modo de guerrear específico, que va a tener sus propias características diferenciadoras con la actividad bélica de épocas precedentes. En las guerras actuales se presentan conceptos bélicos que combinan los modos y formas desarrollados por civilizaciones anteriores.

Entre las características que definen a las guerras de la “civilización del conocimiento”, podemos citar:

 

  • El frente no define el lugar donde se desarrolla el combate principal, porque éste se ha extendido, se ha expandido en todas sus dimensiones: naturaleza, distancia, altura y tiempo. Se encuentra tanto en la vanguardia como en la retaguardia y ésta es mucho mas profunda. En ésta se incluyen los centros de mando, control y comunicaciones del enemigo, su cadena de apoyo logístico y su sistema de defensa aérea.
  • El conocimiento es el recurso crucial de la capacidad de destrucción.
  • La iniciativa, la información, la preparación y la motivación en los soldados es más importante que su puro número.
  • Los daños serán selectivos, disminuyendo los colaterales.
  • Las armas inteligentes van a requerir soldados inteligentes.
  • Los nuevos sistemas bélicos necesitan menos dotación de personal y disponen de mucha más potencia de fuego.
  • La gran complejidad militar necesita de la integración de los sistemas.
  • Las operaciones se llevarán a cabo con extraordinaria velocidad y aceleración.
  • Los combates se desarrollarán tanto en los campos de batalla como en los medios de comunicación.
  • Las políticas y estrategias relativas a la manipulación de los medios de comunicación constituyen un elemento esencial para el logro del objetivo propuesto.
  • Las nuevas operaciones deberán ser capaces de proyectar potencia y fuerzas a gran distancia y a través de operaciones conjuntas y combinadas, así como la realización de ataques simultáneos sincronizados y controlados, en tiempo real.

 

Para Toffler “El antiguo orden mundial, construido a través de dos siglos de industrialización, ha quedado hecho añicos. La aparición de un nuevo sistema de creación de riquezas y de una nueva forma de guerra exigen una nueva forma de paz pero, a menos que ésta refleje con precisión las realidades del siglos XXI, resultará quizás no sólo irrelevante,  sino además peligrosa”.

 

El destacado autor italiano Carlo Jean, en su obra “Guerra, Estrategia y Seguridad”[8] nos aporta elementos interesantes, muy importantes al respecto:

 

  • Las nuevas tecnologías militares han erosionado una de las principales funciones del Estado territorial que es la defensa de sus fronteras “naturales”, garantizando a sus ciudadanos protección y seguridad. Si éstas ya no son defendibles, la única defensa posible es el ataque estratégico. Lo cual es válido también en el campo geoeconómico.
  • La cultura de cualquier pueblo, consecuencia de su experiencia histórica, de sus valores y de su religión, es esencial para cualquier formulación estratégica, ya que influye sobre su percepción y su representación geopolítica.
  • Antes se combatía por el poder mediante la agresión, hoy se busca la seguridad mediante el orden.

 

Según éste autor, los conflictos modernos tienen las siguientes características:

 

  • La absoluta imprevisibilidad del fenómeno guerra, su carácter mutable y su inestabilidad estructural.
  • Carecen de un carácter lineal (causa-efecto).
  • Existe una adecuación racional entre objetivos, costes y riesgos.
  • La secuencia de la decisión comporta una interacción político-militar.
  • El proceso estratégico debe ser considerado en su globalidad.

 

Consecuentemente la guerra, superada la Guerra Fría, se presenta como un fenómeno complejo, donde la estrategia se ha politizado y la política y la diplomacia se han militarizado. En Occidente se busca un sistema de guerra “a cero muertos”, que Luttwak ha denominado “guerra post-heroica”[9].

 

La guerra se compone de dos elementos básicos, la lucha de voluntades y la prueba de fuerza. La primera es de naturaleza psicológica. El objetivo ideal es conquistar sin combatir. El enfrentamiento puede ser directo o mediante la disuasión: la amenaza entendida en su conjunto como “diplomacia de la violencia”. Las voluntades pueden ser minadas indirectamente, a través de la destrucción parcial de la fuerza. La segunda es propiamente el combate. Aún así, existe una dialéctica entre ambas. Cada ataque es, a la vez, una amenaza de ataque sucesivo y, al mismo tiempo, un gesto implícito que invita a la negociación.

 

En los conflictos contemporáneos entender la verdadera naturaleza conceptual de los hechos y amenazas “en acto” y su proyección futura, es el primer paso hacia una verdadera resolución de los mismos. En la naturaleza estratégica coexisten factores racionales (la lógica), irracionales (la emoción, el miedo y la violencia) y arracionales (la fricción o el choque de voluntades), siendo la comprensión del ritmo del tiempo el factor esencial para cualquier conceptualización estratégica. Al respecto dice Carlo Jean: “La sorpresa puede ser conseguida sólo con una extrema compresión del tiempo… La nueva Revolución en los Asuntos Militares está basada en la reducción de los tiempos informativos y decisionales, más que en la extensión de los ataques desde el inicio sobre toda la profundidad del teatro de operaciones”.

 

Y retomando el tema cultural, el autor dice con claridad meridiana: “Sólo recientemente se ha reconocido la importancia de la cultura estratégica en la concepción de las doctrinas militares y sobre el modo de hacer la guerraLa cultura estratégica, en fin, influye en el modo en que son conducidas las operaciones militares… La estrategia, como la política, no se elabora en el vacío, sino que es el reflejo de la cultura de cualquier pueblo… Sólo la comprensión de la cultura estratégica puede hacer comprensible las razones de determinadas elecciones o preferencias…”

 

En éste sentido afirma que en los conflictos contemporáneos se ha pasado de una concepción de fuerza de último recurso, a una de fuerza en presencia, esto es, de la fuerza entendida como un instrumento orgánico de la diplomacia, tal como lo fue en el tiempo de la Pax Británica. Dice el autor: “Un éxito militar no determina la solución de un conflicto interno, más bien crea una gama de opciones, desbloqueando una situación sin salida”

 

Para Alain Minc[10], no hay nada que nos acerque más a la Edad Media que el analizar la estructura de los conflictos contemporáneos, caracterizados por extensas zonas sin autoridad legal. Él los denomina: “el triunfo de las sociedades grises”. En la actualidad la amenaza es el retorno a la ley de la selva. La ilegalidad se ha instalado en el seno de las democracias. Por todas partes progresa lo gris, la diferencia entre lo prohibido y lo permitido se estrecha, hasta casi desaparecer. Ante esta situación, las Instituciones y Organizaciones estáticas e incapaces de reaccionar, van perdiendo el control de la sociedad y, cada vez una menor parte de esa sociedad obedece al principio del orden. Es una situación en que todo está permitido, sin más limitaciones que la fuerza que a esos deseos presenta el oponente. ¿Como se explican esos nuevos comportamientos? Las razones son variadas y complejas:

 

  • La liberación de los mercados y la explosión financiera.
  • El individualismo egoísta.
  • El hundimiento de las grandes Instituciones, a través de la feudalización de las mismas.
  • La adoración del dinero y la pérdida de los contrapesos morales y religiosos.
  • El sentimiento de impunidad.
  • Un sentimiento de caos y disgregación social.
  • El auge del narcotráfico y el terrorismo internacional.
  • La corrupción generalizada de los organismos estatales.

 

Para el autor citado, estos riesgos en acto, mucho más peligrosos que los del medioevo por la globalización de nuestra sociedad, no deberían llegar a ocasionar un estado de caos, salvo que se produzcan en forma simultánea.

 

Aporta elementos interesantes, que guardan una relación estrecha con la actual realidad Latinoamericana. Expresa Minc: “El concepto de Revolución toma nuevas formas con el resurgir de nuevos Estados. Los llamados micro Estados. En una economía global, donde las transacciones económicas y monetarias se resuelven a escala mundial, ¿Tiene importancia el tamaño o la población mayor o menor de un Estado? Ciertamente la soberanía parece al alcance de cualquier tribu.”

 

El retorno a las Revoluciones aporta varias lecciones:

 

  • Ningún Estado puede estar seguro indefinidamente de sus fronteras.
  • No hay estructura social, por sólida o antigua que fuere, que tenga carácter permanente.
  • En la actualidad, revolución no es sinónimo de subversión, sino de descomposición.
  • La fuerza revolucionaria ya no pertenece a las minorías comprometidas, sino a la opinión pública, los medios de comunicación social y la justicia.
  • La revolución sigue siendo una invención europea.

 

No puede haber previsión estratégica sin la debida reflexión, sin el manejo conceptual y esencial de la realidad sobre la que debemos actuar, pero tampoco sin el respaldo del instrumento militar necesario. Sin la “adecuada” fuerza militar y su voluntad política de empleo, la prevención será una utopía. El problema Latinoamericano es que ningún Estado-Nación posee esa fuerza adecuada a éste tiempo y circunstancia. Carecemos de voluntad política para lograr un Acuerdo de Seguridad Común, ante los hechos estratégicos en curso en la región. No hemos sido capaces de contener, “en conjunto”, el mayor y más antiguo conflicto de la región, el colombiano.

 

Frente a la nueva modalidad de los conflictos presentes en América del Sur, entre los cuales el narcoterrorismo es su máxima expresión, se pone de manifiesto dramáticamente la incapacidad de los Estados, actuando por separado, para poder adoptar medidas eficaces.

 

Como dice Minc: “Se necesita siempre lo mismo: un marco internacional, reglas homogéneas y mecanismos de vigilancia y control. Pero tales instituciones no existen. Nos acercamos al cero ideológico. Las ideas tradicionales han desaparecido y con ellas el mundo del orden. La caída del comunismo arrastró al socialismo como al liberalismo. Esta se ve afectado al haberse desarrollado como reacción al comunismo, con lo que ha perdido su estímulo, apoyo y referencia. Paradójicamente, su punto débil se sitúa en el monopolio ideológico, al ser chivo expiatorio de todos los males que afligen a la humanidad”.

 

Propone lo que llama “Caja de Herramientas Conceptuales”:

 

  • Racionalizar el Mercado.
  • Conocer conceptualmente las constantes que produce la Historia para poder prevenirlas.
  • Las elites deben asumir y afrontar las nuevas áreas que se salen de su marco de acción.
  • Adoptar políticas proactivas, pues las crisis y las situaciones inestables que desembocan en los conflictos, tienden a degenerar por naturaleza en hechos más graves.
  • No buscar apoyo en principios sólidos de cohesión, que la sociedad actual no posee.
  • Rescatar los principios culturales de cada sociedad, como pilar esencial de la recuperación.
  • La autoridad debe cambiar su forma de actuación basada en el consenso.
  • Debe tener en cuenta los efectos múltiples, actuar a la más mínima señal de riesgo.
  • Debe hacerlo con flexibilidad, para poder reconducir trayectorias equivocadas.

 

“Lo que resulta es, pues, un arte extraño hecho de firmeza y de flexibilidad, de rigidez y movilidad, en perpetuo movimiento y, al mismo tiempo, inflexible sobre algunos puntos fundamentales. Tiene que hacer suyo un doble imperativo… imaginación y riesgo”.

 

 

Nuestros sistemas de defensa están orientados para una guerra equivocada, fuera de tiempo y espacio.

 

Nuestro “Sistema de Defensa”, estructurado a través de las Leyes de Defensa y de Seguridad Interior, contradice abiertamente la naturaleza del conflicto que tratamos de describir en el presente trabajo. Impide la previsión por razones ideológicas y extrapola las funciones del factor militar fuera de los límites geográficos del Estado. Y expresa lo que Gaston Bouthuol denomina “ilusionismo jurídico”[11]. Este nos crea el espejismo de concebir la esperanza de controlar el conflicto mediante la norma jurídica. No se trata de negar el papel de freno o límite que impone el Derecho Internacional en el desarrollo de la guerra, sino que resulta ilusorio pensar que, mediante normas jurídicas la sociedad pueda hacer frente y eliminar un fenómeno que el autor califica de “patológico”.

 

Para la sociedad latinoamericana, el estudio científico y objetivo de la guerra, no admite demoras. El poder de destrucción, la capacidad de movilización y en definitiva la posibilidad del hombre de desarrollar una guerra civil generalizada, en el seno de nuestras sociedades, exige adoptar medidas para contar con una nueva oportunidad.

 

Del análisis de los 366 conflictos mayores ocurridos entre 1740 y 1974, realizado por el polemólogo francés para estudiar la conflictividad en el mundo, se desprende la primacía de los motivos estructurales. Por lo tanto recomienda tratar de profundizar y buscar las razones de la guerra, más allá de las causas ocasionales, que son la manifestación visible, perceptible por nuestros sentidos. Es necesario llegar a las causas estructurales, conceptuales, donde encontraremos las verdaderas fuerzas en oposición, en forma abstracta, que conducen a engendrar la violencia colectiva.

 

Como expresa Barry Buzan[12]: “Hasta ahora el fin del estamento militar era ganar guerras, de ahora en adelante será evitarlas. Casi no existe otro fin útil”.

 

En ésta nueva tipología de las guerras, el Crimen Organizado Transanacional, adquieren un rol de actor principal.

Una definición del mismo que está usando Interpol es: “Cualquier grupo que tiene una estructura corporativa cuya el objetivo primario es obtener dinero a través de las actividades ilegales y sobrevive a menudo en el miedo y corrupción.”

El Comité Especial de las Naciones Unidas para elaborar la Convención Contra la Delincuencia Organizada Transnacional, que se reuniría en el próximo mes de diciembre, propone la siguiente definición: “Se entiende por grupo delictivo organizado, un grupo estructurado, existente durante un período de tiempo y que tenga por fin la comisión de un delito transnacional grave, mediante la acción concertada, utilizando la intimidación, la violencia, la corrupción u otros medios, para obtener, directa o indirectamente, un beneficio económico u otro beneficio de orden material”.
Cualquier intento por definir este fenómeno, encuentra diferencias entre los estados parte en cuanto a la dimensión subjetiva de la noción del crimen (por ejemplo, el contrabando de opio en China por comerciantes británicos durante los primeros años del siglo XIX, en violación de las leyes chinas, se definió como comercio esencial para Gran Bretaña. En el mundo de hoy, estas contradicciones todavía persisten.

 

Existen hechos que facilitan en desarrollo del Crimen Organizado Transnacional, como fenómeno globalizado:

La debilidad de las instituciones fundamentales de los estados.
La marginación de importantes sectores en los diferentes grupos sociales.
Modificación de sistemas de comercio tradicionales.
Flexibilización de las voluntades políticas para combatir este fenómeno.
Incremento de los movimientos migratorios.
Aparición de áreas de libre comercio en diversos lugares del mundo.
Facilidades para ejecutar las operaciones financieras.
Falta de equidad social y económica entre países desarrollados y en desarrollo
La permeabilidad de las fronteras internacionales.
La apertura de las economías nacionales.
La velocidad de las transacciones comerciales internacionales.
La corrosión de los valores morales.
La falta de coordinación cooperativa globalizada entre los estados para combatirlo.
La falta de armonía en la legislación específica nacional e internacional para combatir este fenómeno.
La falta de organismos supranacionales para la aplicación de las leyes.

Los fines que en general, se le atribuyen a las diferentes organizaciones criminales transnacionales son:

Obtener, en el menor tiempo posible, la mayor cantidad de dinero, a través de las actividades lícitas e ilícitas.
Corromper las estructuras gubernamentales.
Destruir los sistemas económicos nacionales.
Constituir factores de poder
Establecer alianzas
Ejercer el poder utilizando cualquier medio.

 

 

CONCLUSIÓN

 

Bajo circunstancias normales, la represión del narcoterrorismo es una tarea que corresponde única y exclusivamente a las autoridades civiles responsables de imponer la ley, pero, ¿deberíamos aceptar las circunstancias actuales como normales? El profundo daño causado por el narcotráfico en Colombia y en México, es evidencia de la naturaleza devastadora de esta amenaza. Ya es hora de reconocer la magnitud de los problemas creados por el Crimen Organizado Transnacional en nuestro territorio y ya es hora de controlar esta situación.

Ante el alto grado de vulnerabilidad y de disfuncionalidad en que se encuentran los sistemas de Defensa de los países miembros del MERCOSUR, considerando las particularidades descriptas, es indispensable encontrar un camino hacia un sistema de Seguridad Estratégica Regional, que preserve un futuro político en Paz, frente a los actuales, nuevos y poderosos riesgos y amenazas internacionales en presencia. Salvaguardar al Estado, como instrumento de Seguridad, Justicia y Equidad Social, es el desafío estratégico primordial en la posguerra fría.

 

La sinergia que se produce entre terror y crimen, contribuye sin duda a debilitar las alianzas internacionales, a licuar el poder político de los Estados y a minar  progresivamente la efectividad de las fuerzas armadas, de seguridad y policiales, en particular en aquellos países cuyas dirigencias están comprometidas con el nuevo fenómeno o se encuentran estratificadas en su conceptualización estratégica.

 

El Sub-Continente queda así fuertemente relacionado con los complejos y ocultos actores del eventual Califato Euro-Asiático, desarrollando a Ibero América como “espacio sin ley”, organizado con entidades sociales horizontales, autogestionadas, desde la anarquía anti-institucional en plena experiencia en los suburbios de Caracas, en los últimos años. Los despliegues de las veinte bases militares “bolivarianas” en las fronteras bolivianas con Brasil, Paraguay, Argentina, Chile y Perú, así parecen confirmarlo.

 

Las acciones conjuntas, que tienen como eje en Colombia al narcoterrorismo encabezado por las Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (FARC), con los carteles de la droga ligados también a otras formaciones políticas, como la anticomunista Fuerzas de Autodefensa de Colombia y a sociedades criminales como la mafia rusa, deben encontrar una respuesta definitiva que no puede terminar sino en la derrota, rendición incondicional y erradicación definitiva de esos flagelos mundiales en nuestra región.

 

En el caso de la Argentina, al desafío global y regional  la encuentra en un estado generalizado de inseguridad nacional, sin previsiones, sin estructuras orgánicas actualizadas y sin voluntad de defensa. La sociedad anómica, también está anestesiada. Subsiste bajo una conducción inconscientemente irresponsable.

 

Esta exigencia conduce indefectiblemente al MERCOSUR POLÍTICO y éste tendrá entidad cuando se logre una Política de Defensa Común, a través de un Acuerdo de Seguridad Colectivo. La naturaleza de los principales hechos y amenazas estratégicas del continente, el narcotráfico y el terrorismo, operando sobre sociedades empobrecidas y Estados Nacionales débiles, con sus instituciones malversadas y sus sistemas políticos no consolidados, no ha encontrado una respuesta combinada y unificada, que tenga en cuenta las características internacionalizadas y flexibles de una agresión estratégica diluida, no militar.  Allí encontramos el verdadero desafío que debemos afrontar.

 

 

 

 

 

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Pagina de Instituto de Estudios Estratégicos de Buenos Aires: www.ieeba.com.ar

 

 

El Dr. Jorge Corrado es Abogado, recibido en la Universidad de Buenos Aires. Ha cursado estudios de posgrado en Inteligencia Estratégica, Geopolítica y Estrategia en la Escuela Superior de Guerra del Ejército Argentino. Es Vicepresidente del Instituto de Estudios Estratégicos de Buenos Aires y Profesor Titular y Coordinador General Académico en la Facultad de Derecho y Ciencias Políticas de la Universidad Católica de La Plata, Buenos Aires, Argentina.



[1] Corrado Jorge. “Las Guerras de la Tercera Especie”. Instituto de Estudios Estratégicos de Buenos Aires. Buenos Aires 2001.

[2] Hamon, Leo. “Estrategia contra la Guerra”, Ediciones Guadamarra, Madrid, 1966.

[3] Holsti, Kalevi. “The State, War and the State of War”. Cambridge University Press. 1999.

[4] Lind, Samuel, Schmitt, John y Wilson, Gary. “The Changing Face of War. Into the Fourth Generation”. Marine Corps Gazette, Octubre 1989.

[5] Van Cleveld, Martín. “The Transformation of War”. The Free Press, Nueva York, 1991.

 

[6] Wright, Robin y MacManus, Doyle. “Futuro Imperfecto”. Ediciones Giralbo, Barcelona, 1992.

 

[7] Toffler, Alvin y Heidi. “Las Guerras del Futuro”.Ediciones Plaza & Janes, 1994.

[8] Jean, Carlo. “Guerra, Estrategia y Seguridad”.Editorial Laterza, Roma, 1997.                              

[9] Luttwak, Edward. “Estrategia, la lógica de la guerra y la paz”.Instituto de Publicaciones Navales, Buenos Aires, 1992.

[10] Minc, Alain. “La Nueva Edad Media. El gran vacío ideológico”. Ediciones Temas de Hoy, Madrid, 1994.

[11] Bouthuol, Gaston. “Las Guerras. Elementos de Polemología”.Editorial Payot, París, 1951.

[12] Buzan, Barry. “Introducción a los Estudios Estratégicos: tecnología militar y relaciones internacionales”. Ediciones Ejército, Madrid, 1987.

 

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INFLUENZE OCCIDENTALI E AUTONOMIA IDEOLOGICA NEL PANORAMA POLITICO ARABO: UNA PROPOSTA DI LETTURA NEL CONTESTO GEOPOLITICO

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Tentare di comprendere l’attuale crisi del Vicino Oriente anche nei suoi riflessi della guerra civile siriana – e irachena – nonché nelle perenni tensioni che tengono l’Egitto sull’orlo del caos non è possibile se non si tengono presenti gli intrecci strategici nell’area. Le grandi potenze hanno di rado concesso ai popoli del Vicino Oriente di tessere la propria storia in autonomia. Le ingerenze straniere nelle vicende storiche del Mashreq e del Maghreb hanno comportato l’estendersi delle ideologie di matrice occidentale ad aree di antica cultura islamica e cristiana. Limitare la nostra spiegazione alle influenze di una matrice esterna sarebbe però sbagliato: il mondo arabo si è spesso appropriato delle ideologie politiche occidentali adattandole e declinandole secondo le proprie necessità storiche.

 

 

Il neoislamismo come “ideologia occidentale”.

La più geopoliticamente occidentale, la più “importata” ed innaturale ideologia presente oggi nel mondo arabo risulta essere paradossalmente il neoislamismo radicale wahabita di matrice saudita, esportato dalle petromonarchie del Golfo a sostegno ideologico della propria penetrazione politica. Il supporto proveniente dal regno saudita e dal Qatar ai predicatori, alle associazioni caritatevoli e alle reti politiche ispirate alla Fratellanza Musulmana egiziana e al mondo salafita sono alla radice del successo economico e politico di tali correnti. L’espansione dell’influenza culturale e geopolitica delle monarchie del golfo nel mondo islamico avviene a suon di petroldollari e con la tacita approvazione USA, che sa essere questo il bacino culturale e finanziario in cui Al Qaeda si nutre ma vede nell’espansione dell’influenza delle monarchie del Golfo nel mondo arabo la stabilità della tutela dei propri interessi in funzione anti cinese, anti iraniana e anti russa.

È il gioco americano nell’Afghanistan degli anni ’80 che si rinnova nel contesto medio orientale.

Lasciamo da parte Pakistan, Afghanistan, Iran e tutta Asia Centrale con il mondo turco – centri di ulteriori complessità, ingerenze e complotti – per concentrarci sul solo mondo arabo.

Il wahhabismo è un’ideologia culturalmente e politicamente reazionaria, populista e demagogica che nasce da una interpretazione eterodossa dell’Islam.

Dal canto suo, la prassi di governo dei Fratelli Musulmani è avversa all’ispirarsi al sindacalismo occidentale delle organizzazioni sindacali egiziane o tunisine – i paesi arabi più avanzati da questo punto di vista. La Fratellanza e i partiti che da essa derivano, pur richiamandosi al moderatismo dell’AKP del centro-destra turco, rimandano ad una “dottrina sociale islamica” che ricorda certi aspetti di quella cattolica di fine ‘800 e inizio ‘900. Questa elaborazione nasce però nel periodo della lotta anticoloniale araba e dal desiderio di una rinascita autonoma del pensiero sociale islamico.

La contraddizione di fondo rimane questa: si tratta di ideologie avverse o comunque non certo allineate ai cosiddetti “valori democratici occidentali”, anche se l’Occidente ne accetta e ne sostiene le espressioni per motivi geopolitici. Sono e restano ideologie che potremmo classificare, secondo categorie occidentali e nei limiti in cui ciò sia utile, “di destra”.

 

 

Mondo arabo e interconfessionalità: forme di prassi politica. 

Il mondo arabo ha una “sinistra” e una “destra” che si richiamano all’Islam come fonte di identità culturale. Sono ideologie importate dall’Occidente per via degli orientamenti rivoluzionari arabi o sono nate come rielaborazioni autonome del pensiero e della prassi politica occidentale. Il loro carattere interconfessionale le ha portate ad essere avversarie della monarchia saudita, così come il loro anticolonialismo e nazionalismo le ha spinte ad essere antisraeliane e contigue al mondo sovietico. L’Occidente ha dichiarato loro una guerra che spesso ha favorito l’integralismo e il fondamentalismo.

 

 

Declinazioni arabe del fascismo.

La tendenza filofascista dello schieramento politico arabo è quella che ha subito gli influssi europei più marcati, specie nel passato. Le speranze riposte dagli Arabi nelle potenze dell’Asse furono determinate per lo più, ma non solo, dalla necessità della lotta antibritannica. Tali aspettative produssero le simpatie mussoliniane dei primi movimenti nazionalisti egiziani, in particolare del Partito del Giovane Egitto, nel quale militò il giovane Nasser. Il Partito assunse più tardi il nome di Partito Nazionalista Islamico, quindi nel dopoguerra il nome di Partito Socialista d’Egitto. Come sappiamo, Nasser divenne uno dei principali elaboratori del pensiero anticolonialista arabo. Altro centro di incubazione fu l’Iraq, dove durante la guerra le forze militari vicine all’Asse tentarono un golpe antibritannico, nonché l’area del Levante, dalla quale proveniva il Gran Muftì di Gerusalemme Al Husayni; amico personale del Fuehrer Al Husayni fu la guida spirituale delle SS musulmane, destinate ad essere punta di lancia dell’Asse nel Vicino Oriente nella lotta contro il nascente sionismo. Movimenti ispirati al nazionalsocialismo si diffusero anche in Siria, dove l’ostilità al colonialismo inglese si saldava con l’inquietudine prodotta dalla penetrazione di immigrati ebrei in Palestina, cosicché il legame tattico diventò ideologico. Nel Levante moderno, richiami quanto meno estetici al fascismo e al nazionalsocialismo permangono nel partito sciita Hezbollah, mentre sono sostanziali nel Partito Nazionale Sociale Siriano.

 

 

Una sinistra araba non decodificabile secondo categorie occidentali

Terminata la guerra, le tendenze politiche ispirate più marcatamente filofasciste, anticoloniali ed antiebraiche vennero riassorbite quasi totalmente dal nazionalismo arabo, che assumeva sempre più caratteri filosovietici, dato l’appoggio russo alle lotte anticoloniali e alla causa araba e palestinese. Nasser divenne l’ispiratore di queste correnti, che univano l’aspirazione all’unità panaraba ad una visione socialista e dirigista dei sistemi economici, in un quadro di rafforzamento delle neonate repubbliche arabe che si andavano scrollando di dosso le vecchie monarchie d’origine coloniale.

I giovani ufficiali arabi, ispirati in vari momenti storici da Nasser, da Bourghiba, o da Gheddafi, vedevano nel socialismo il paradigma per la ricostruzione e il rafforzamento dei nuovi Stati arabi, più che una summa di principi ideologici occidentali o addirittura marxisti: tutto era funzionale ad un’ottica nazionalista e spesso panaraba. Non è possibile leggere il socialismo nazionale arabo solo con le classiche categorie occidentali di “sinistra”. Le nazioni arabe erano nazioni giovani, multietniche, multireligiose, in cui ancora forti erano i legami tribali alla base di società tradizionali, in cui il senso di appartenenza nel senso moderno e patriottico andava costruito. Le linee di frontiera tracciate in punta di matita dall’imperialismo inglese e francese – e ribadite da quello americano – dividevano tribù affini e univano etnie differenti (arabi e curdi in Siria e Iraq, per esempio), facendo parti eguali per diversi e parti diverse per eguali e gettando dunque le basi per le attuali guerre civili siriana ed irachena. Scrollatesi di dosso il dominio coloniale, le nuove classi dirigenti proposero un socialismo patriottico esente da esclusivismi confessionali e finalizzato a superare se non proprio a scardinare il tribalismo, nonché a rilanciare l’ideale panarabo. Non sempre tentativi sinceri, furono comunque i più riusciti esperimenti di modernizzazione attuati nel mondo arabo, di pari passo coi progressi nella scolarizzazione.

 

 

Per comprendere un’autonoma “ideologia araba”: ritorno alla geopolitica. 

La geopolitica avvicina il mondo arabo e i suoi patrioti e nazionalisti prima all’Asse e poi all’URSS. Eppure l’unico regime comunista del mondo arabo fu quello dello Yemen del Sud, mentre il marxismo ebbe forza soprattutto nei partiti comunisti egiziani, iracheni e siriani, nonché tra i Palestinesi. Nella lotta nazionale palestinese si distinsero tra gli altri partiti di sinistra due movimenti comunisti, nei quali i cristiani erano ben rappresentati: il Fronte Popolare ed il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina. In questi movimenti la lotta politica e rivoluzionaria andava però di pari passo con la lotta nazionale di liberazione, esattamente come nel socialista Al Fatah, movimento laico cardine dell’OLP. È interessante ricordare che il padre dell’FPLP fu quel George Habash già fondatore del Movimento Nazionalista Arabo, importante e diffuso partito panarabista.

Questi apparenti paradossi si spiegano con l’analisi di contesto prima operata e si riassumono nell’ideologia del Partito Baath, il partito socialista e nazionalista arabo, fondato da un cristiano e da un mussulmano (guarda caso, il simbolo del patriottismo egiziano è una Croce unita ad una Mezzaluna) proprio mentre univa elementi ideologici di “destra” e di “sinistra”. Dirigista nella sua visione economica, in Iraq il Baath fu sempre ostile ai comunisti, in uno scontro che aveva come posta in gioco la guida della rivoluzione nazionale dopo il superamento del neutralismo di Qasim, il generale che aveva abbattuto la monarchia. Il Baath fu un movimento transnazionale; la sua anima siriana, giunta al potere, ruppe con quella irachena. Oggi in Siria il Baath governa il paese in coalizione con i partiti socialisti e comunisti più ideologicamente espliciti ed identitari, e gode dell’appoggio esterno del movimento nazionalsocialista. Considerato un punto di vista condizionato dai dogmi ideologici e dai clichés di destra e di sinistra, il Baath potrebbe apparire contraddittorio e difficilmente comprensibile. Partito di “sinistra” perché socialista o di “destra” perché nazionalista e legato anche alle piccole borghesie urbane, il Baath ha comunque svolto un ruolo chiave nella storia dell’irredentismo arabo, nella formazione di governi legati al blocco sovietico da interessi geostrategici e nel tentativo di costruzione di una cultura araba non sottoposta al settarismo confessionale.

 

 

Per concludere: un profilo ideologico del mondo arabo per comprenderne le tematiche geopolitiche attuali.

Il mondo arabo non è monolitico. Non lo è ideologicamente, culturalmente, socialmente e religiosamente. Solo la disonestà intellettuale degli araldi ideologici delle potenze esterne ha interesse a rappresentarlo come un unico amalgama di fondamentalismo sunnita, ora nascostamente utile alla Gran Bretagna e poi agli USA in chiave di tutela dei loro interessi petroliferi, ora invece nemico mediatico a pretesto degli interventi militari americani e israeliani ma sempre in tacito accordo con l’autonomo alleato turco e il fedele alleato saudita.

Vi è un mondo arabo fatto di minoranze, come quelle in lotta nella Siria in fiamme. Vi è un mondo arabo fatto di movimenti secolarizzati, che hanno contribuito alle rivolte egiziane contro Mubarak ma sono stati messi da parte dai petrodollari a sostegno della Fratellanza. Vi è un mondo arabo-cristiano che ha sempre guardato con ovvio interesse agli orientamenti laici e progressisti, sin dai tempi del partito egiziano Wafd, il primo partito liberale e modernista egiziano, oggi minoritario. Il contributo dei cristiani alla causa nazionale araba – e al socialismo arabo – fu forte in Palestina, in Siria, in Iraq, in Egitto e in tutti i paesi dove i cristiani sono in minoranza. In Libano, paese dove il ruolo giocato dai cristiani è stato di prim’ordine, restano storiche le divisioni tra i greco-ortodossi e greco-cattolici vicini alle sinistre e ai governi siriani da un lato e i maroniti riuniti in gran numero nelle Falangi Libanesi, che almeno nelle prime fasi storiche del conflitto nel Paese dei Cedri si schierarono con Israele.

Questo veloce inquadramento vuol cercare di comprendere quanto di genuinamente arabo vi è nella cultura politica di quest’area multiforme e quanto invece proviene da Occidente, quanto il mondo arabo abbia sempre cercato almeno con le proprie avanguardie di elaborare un’autonomia di pensiero che potesse farsi autonomia storica e politica, e quanto invece gli attori esterni abbiano lavorato e lavorino per favorire il proprio interesse di breve respiro tramite l’ausilio alle forze integraliste dell’area islamica.

 

 

 

 

Bibliografia

–       Jean Sellier, André Sellier, Atlante dei popoli d’Oriente, Il Ponte, 2010.

–       Benny Morris, Vittime : storia del conflitto arabo sionista, Rizzoli, 2001.

–       Enrico Galoppini,  Il Fascismo e l’Islam, Edizioni all’insegna del Veltro, 2001.

–       Giovanni Filoramo, Islam, Laterza 1999

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I DISORDINI IN TURCHIA: AL DI LA’ DEL FENOMENO MEDIATICO

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Un primo bilancio della situazione turca dopo i ripetuti disordini dei giorni scorsi non può prescindere dalla valutazione del fenomeno mediatico sorto in parallelo.

La realtà sul campo è certamente complessa, ma l’interpretazione  riduttiva e faziosa fatta dai grandi media occidentali la riconduce a un tema ricorrente di propaganda: vale a dire lo scontro dei laicisti, progressisti e libertari contro i fondamentalisti che cercano subdolamente di islamizzare lo Stato e la società.

A parte il fatto che risulta difficile credere all’imperativo di una islamizzazione forzata di un Paese in cui l’Islam è già largamente e pacificamente presente, si dimentica al proposito la storia stessa della Turchia: dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e per oltre 50 anni, infatti – per non parlare dei decenni precedenti – è stato il cosiddetto laicismo (il kemalismo) a perseguitare l’Islam, e non viceversa. Un laicismo spesso eterodiretto, occidentale e atlantico, che si è manifestato con colpi di Stato direttamente o indirettamente gestiti dalla NATO (inizio anni Sessanta, Settanta, Ottanta del secolo scorso) e con pronunciamenti militari ratificati dall’intervento della magistratura (metà anni Novanta, con la messa al bando del partito di maggioranza relativo, di ispirazione islamica).

Venendo all’attualità di questi giorni, si può sottolineare che la dinamica delle uccisioni e la localizzazione delle tre vittime fin qui (5 giugno) segnalate – e riunite apoditticamente nella categoria “vittime della repressione” – è piuttosto significativa.

Un uomo è stato travolto da un taxi a Istanbul, altri due sono stati colpiti  – non si sa da chi e in quale circostanza – da armi da fuoco ad Ankara e nell’Hatay (la regione al confine fra Turchia e Siria). Il richiamo a questo ulteriore tragico accadimento in questa regione – a pochi giorni dalla strage di Reyhanlı  – riconduce al gravissimo stato di tensione legato alla situazione siriana, dove una vasta area è abbandonata all’arbitrio delle milizie antiAssad (in cui figurano massicciamente mercenari occidentali e i tagliagole già distintisi nella campagna libica), il caos è totale e si susseguono manifestazioni e proteste della popolazione locale che giustamente vorrebbe essere tutelata.

Tutto ciò ha ormai ripercussioni in tutto il Paese e rappresenta – ben più dei  limiti alla vendita degli alcolici fra le 22 e le 6 di mattina, o della ridicola storia dei baci in metropolitana – il problema vero della Turchia odierna, avvertito con preoccupazione anche dall’opinione pubblica.

In questo scenario possono poi innestarsi rivendicazioni marginali come quelle ambientali, la guerra di certi ambienti kemalisti contro l’Islam e magari qualche palpabile difficoltà legata alla riduzione – per via della crisi economica europea – delle esportazioni; insomma, come spesso accade, si possono ritrovare in piazza motivazioni diverse, talune profonde e meritevoli di attenzione, altre molto meno.

La Turchia, come è noto, ha grande importanza strategica e geopolitica; in particolare, essa è imprescindibile per la Russia e per il fronte occidentale e atlantista. Il governo AKP non è mai stato visto con benevolenza da quest’ultimo, perché, pur continuando a far parte della NATO, Ankara aveva compiuto nel decennio scorso passi importanti verso un concetto compiuto di sovranità.

Inoltre – fatto che viene spesso trascurato –  la Turchia è un Paese poco indebitato, che ha rifiutato anche recentemente i prestiti del FMI, progettando invece di triplicare entro il 2023 la presenza di istituzioni finanziarie conformi alla legge islamica (ciò anche per banche a controllo pubblico come la Halkbank e la Ziraat Bank): è insomma poco in linea con le linee guida della “globalizzazione”.

Con la sua posizione sulla crisi siriana – foriera di gravissime conseguenze e in controtendenza nei confronti della sua passata politica di “zero problemi con i vicini”, ormai diventata “zero vicini senza problemi” –  il governo Erdoğan si è illuso di (ri)conquistare la fiducia degli ambienti occidentali; ma così probabilmente non è, almeno a giudicare dai commenti di questi giorni dei mass media occidentali, che plaudono alla “rivolta” contro il nuovo sultano e contro l’intolleranza islamica …

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LA PARABOLA DISCENDENTE DEL BOLIVARISMO

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Le elezioni venezuelane dello scorso 15 aprile hanno sancito la vittoria “dimezzata” di Nicolas Maduro e riportato prepotentemente alla ribalta la figura di Henrique Capriles, sempre più capo indiscusso del partito d’opposizione PJ(1). L’incapacità dell’establishment al potere di tenere a debita distanza il rivale dopo la morte del leader Hugo Chavez, ha rimesso in discussione tutto il percorso del sistema politico bolivariano. Dopo circa quindici anni dalla sua sistematizzazione ideologica, il bolivarismo vede già i primi segni della dissoluzione nel paese “pivot”, mentre in quelli satellite resta saldo ma in continuo divenire e comunque legato ad altrettante figure carismatiche che ne hanno fatto un valore fondativo della proprie politiche. La via al socialismo del XXI secolo dunque, è legata indissolubilmente al suo paese fondatore o potrà essere sviluppata in modo autonomo dagli altri stati latinoamericani che l’hanno abbracciata? In Venezuela il crepuscolo del bolivarismo può essere rischiarato solo dopo un’analisi accurata che abbia come oggetto sia l’attuale e futura leadership, che la nuova distribuzione geografica dei voti (importante per capirne l’evoluzione economica del paese).

 

Maduro: una scelta di convenienza?

A dicembre, prima dell’operazione a L’Avana, Hugo Chavez designò come suo erede quello che allora era il ministro degli esteri, Nicolas Maduro. Una scelta interpretabile sia come di pura convenienza politica sia come approccio ortodosso. La convenienza nasce dal fatto che Maduro è il più filo cubano del partito ed era deputato a tenere – dopo Chavez – le relazioni con i fratelli Castro. L’approccio ortodosso si basa sul fatto che  Maduro è stato un bolivariano fin dalle prime battute,ossia al fianco di Chavez fin dall’arresto a seguito del fallito colpo di stato del  1992. Ad oggi la scelta può intendersi anche – e soprattutto – come di opportunità rispetto allo sfidante Capriles. Prima delle presidenziali Maduro era l’unico del vertice del PSUV(2) a non essersi scontrato direttamente con il leader dell’opposizione e a non venirne sconfitto. L’alto profilo istituzionale di Diosdado Cabello (attuale presidente dell’Assemblea nazionale) prima e di Elias Jaua (ora ministro degli esteri) dopo, non hanno impedito a Capriles di prevalere nelle elezioni regionali del 2008 e del 2012 per la carica di governatore nello stato di Miranda. Chavez – sempre attento alla comunicazione politica – ha di conseguenza deciso a livello nazionale di non opporre a Capriles un avversario “perdente”. Scelta che si è rivelata lungimirante anche se per poco. Maduro – nonostante il trasporto emotivo per la morte di Chavez e poco più di una settimana di campagna elettorale lasciata agli sfidanti – ha ottenuto solo 254 mila voti idi vantaggio (l’1,73% dei votanti) azzerando di fatto il milione e 600 mila voti lasciati in eredità da Chavez sei mesi prima, nelle elezioni presidenziali del novembre 2012. Ma a legger più approfonditamente i dati delle elezioni presidenziali degli ultimi 15 anni si può vedere che con l’affermarsi del bolivarismo a livello internazionale (mediatico) e regionale (organizzazione Alba), l’opposizione interna ha progressivamente ripreso vigore. Dal 2000 l’opposizione (2 milioni e 359 mila voti) ha guadagnato fino al 2012 (6 milioni e 591 mila voti circa) il 300% degli elettori crescendo maggiormente in proporzione rispetto al partito di Chavez  che invece li ha solo raddoppiati(3). Il bolivarismo dunque non è mai divenuta ideologia di stato poiché non ha mai strappato un consenso plebiscitario alle elezioni. La più grande vittoria di Chavez è stata infatti quella del 2006 in cui ottenne il 62,85% dei voti contro l’allora sfidante Manuel Rosales che si attestò su un mediocre 36,91%. Tuttavia c’è da segnalare che degli oltre 15 milioni di votanti solo poco più di 7 milioni aveva espresso il suo favore nel bolivarismo: l’alta astensione (25,31%) relegava il socialismo di Chavez a verbo per meno della metà della popolazione. Distorsioni dei numeri – simili ai paesi con regimi democratici maturi – che impedivano sul nascere al bolivarismo di diffondersi e strutturarsi lungamente nel paese nonostante la propagazione ideologica nei paesi limitrofi che ne è seguita.

 

Geografia economica del paese

Il risultato attuale dell’opposizione non si manifesta solo nell’assottigliamento della distanza di elettori rispetto al 2000, ma dal numero delle regioni nella quale Capriles ha vinto, ossia ben 7: Zulia, Lara, Merida, Tachira, Miranda, Anzoategui e Bolivar. A livello geografico il Movimento Primero Justicia cinge le 13 regioni restanti di Maduro a est e nel centro ovest. Tuttavia l’opposizione ha semplicemente consolidato il proprio consenso in quelle zone del paese là dove esisteva già ancor prima dell’avvento di Chavez.  Nel 1998, l’allora sfidante Henrique Salas, conquistò diverse regioni di confine ad est(4) e perfino nel periodo del bolivarismo rampante l’allora opposizione seppe mantenere (fino al 2005) l’enclave elettorale di Zulia.

Oltre alla regione più a sud confinante con il Brasile, Capriles ha praticamente conquistato tutti gli stati federati confinati con le più strutturare vie di comunicazione con la Colombia e quindi snodo fondamentale per le esportazioni in Centro e Sud America. Le regioni dove ha prevalso Capriles però hanno altri punti in comune, specialmente di carattere demografico ed economico. Il numero degli abitanti e la densità della popolazione è tra le più alte: si spiega così il numero quasi identico degli elettori nonostante Maduro abbia conquistato il doppio delle regioni. Si tratta inoltre di stati mediamente piccoli e affollati nei quali l’economia non è solo agricola: seppur queste 9 regioni abbiano la gran parte del proprio territorio adibito a coltivazione (soprattutto canna da zucchero) e allevamento, si evidenzia un rapido sviluppo industriale e dei servizi con punte di eccellenza. Zulia ospita il secondo complesso petrolchimico del paese; Merida è la terza regione per la zootecnia; Tachira con la capitale San Cristobal è il maggiore snodo andino; Miranda è la seconda regione più importante per capacità industriali soprattutto nel settore manifatturiero e rappresenta la spina dorsale del Venezuela insieme al distretto federale di Caracas. La condizione di rapida ascesa economica di queste regioni, traina una proporzionalmente la crescita delle aspettative di una classe media urbanizzata che fatica a trovare spazio e rappresentanza politica.

 

Bolivarismo e posizione mediana del Venezuela

Il modello economico che Capriles vorrebbe importare in Venezuela appartiene a quello più riformistico-liberale dell’America Latina che vede come suoi esempi più importanti il Brasile, il Cile, la Colombia, il Perù e il Messico. Questi paesi hanno affrontato la crisi economica con una crescita cauta volta soprattutto a rafforzare la stabilizzazione dei prezzi, ridurre il debito pubblico e la conclusione di programmi di stimolo: tutto l’opposto del modello centralista e dirigista di Chavez (e anche dell’Argentina). Il PSUV ha spinto per una crescita guidata dall’alto con politiche espansive fiscali e monetarie impedendo un equilibrio dei prezzi dei beni ottenendo una inflazione attestatasi al 27%. La crescita forzosa è stata possibile grazie alle rendite petrolifere e si dimostrava necessaria per Chavez al fine di rinsaldare il proprio elettorato. Ad oggi però l’alta inflazione non è mitigata da nessuna misura economica efficace vista l’incapacità del Venezuela di affrancarsi dalla dipendenza dal mercato petrolifero. Le differenze tra questi blocchi di paesi (riformisti e dirigisti) porta alla divisione in campo di politiche macroeconomiche divise per area e in seno ad organismi economici regionali dai confini porosi. Ad oggi l’Alleanza Bolivariana per le Americhe è geograficamente la più dispersa e quella più in difficoltà: il capolavoro diplomatico di Chavez in funzione anticapitalista è di fatto acefalo viste le difficoltà interne di Maduro; lo stesso Morales in Bolivia è in caduta di consensi per una politica del lavoro che provoca scioperi consistenti dei minatori. Escludendo la capacità trainante di Cuba e degli stati caraibici, l’unico leader forte che possa prendere le veci di Chavez è il presidente ecuadoriano Rafael Correa. In questo momento però l’Ecuador è impegnato nella ricerca di una integrazione economica regionale più realistica e produttiva e geograficamente più compatta rispetto all’Alba. Già membro associato del Mercosur, il più piccolo stato che affaccia sul Pacifico, ha deciso di entrare come osservatore proprio nell’Alleanza del Pacifico (AP) che annovera Cile, Colombia, Messico, Perù e Costa Rica. L’AP è contrapposta ideologicamente all’Alba e si pone in parallelo al Mercosur al quale vorrebbe portare via sia il Paraguay che l’Uruguay (oggi osservatori esterni). L’Alba – e dunque il Venezuela – sta per essere schiacciata tra i due organismi nel quale non ha voce autorevole in capitolo ed inoltre, i giganti della regione, Brasile e Messico, stanno affrontando una partita economica egemonica nella quale il Venezuela non è protagonista. A Caracas resta solo l’importante influenza esercitata sui paesi caraibici finanziati da Petrocaribe, ma la capacità di assistenza energetica toglie introiti aggiuntivi necessari oggi all’economia interna. Il bolivarismo è certamente nato con Chavez, ma potrebbe essere destinato alla dissoluzione anche per motivi esterni alla morte del caudillo. A pesare in maniera determinante sono solo  Brasile e Messico e le loro emanazioni regionali non permettono  spazio nel futuro ad un’integrazione su principi socialisti. Qualora in Venezuela il potere tornasse nelle mani di un centro-destra liberista, verrebbe di certo a perdersi il ruolo del paese come “stato alternativo” alle politiche riformiste e capitaliste ora presenti sul continente e verrebbe reintegrato nella sfera di influenza nordamericana. In tal modo si accelererebbe la dissoluzione dell’Alba – di fatto già in via di disfacimento – con conseguenze nefaste soprattutto per un paese che non può riposizionarsi: Cuba. Ad oggi l’unica garanzia per i fratelli Castro nel dirigere lentamente le riforme verso una timida apertura, è data dai fondamentali aiuti venezuelani che  riducono l’ esposizione economica di L’Avana. Il Venezuela, come architrave socialista in America Latina, è in una parabola vertiginosamente discendente dalla quale non può altro che risorgere per evitare il declino del sogno bolivariano.

 

 

* Salvatore Rizzi, dottore in Scienze della Politica

 

 

(1)    Movimento Primero Justicia

(2)    Partido Socialista Unido de Venezuela

(3)    Il trend dei dati elettorali degli ultimi 15 anni è da leggere tenendo conto dell’alto numero di astenuti che non ha partecipato alle elezioni presidenziali del 1998, quelle della prima vittoria di Chavez. Nell’occasione per il 48% degli aventi diritto al voto non l’ha esercitato: un dato notevole che poi si è assestato in media intorno al 20%. Il bacino di voti riacquistati dalla differenza di astenuti ha permesso le crescite elettorali sia dell’opposizione che di Chavez.

(4)    http://www.eluniversal.com/nacional-y-politica/mapa-de-resultados-electorales/ . Sul sito del quotidiano sono visibili tutti i dati elettorali riportati nel pezzo e la cartografia della distribuzione del potere

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