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LA GEOPOLITICA DELLE LINGUE

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Sommario del numero XXXI (3-2013)
 
 

“In queste condizioni, vi possono essere soltanto

lingue vincitrici e lingue vinte”

(J. V. Stalin, Al compagno Kholopov, 28 luglio 1950)

 

 

 

Lingua e Impero

Se il termine geolinguistica non fosse già utilizzato dai glottologi per significare la geografia linguistica o linguistica areale, ossia lo studio della diffusione geografica dei fenomeni linguistici, lo si potrebbe impiegare per indicare la geopolitica delle lingue, cioè il ruolo del fattore linguistico nel rapporto tra lo spazio fisico e lo spazio politico. A suggerire questa possibilità non è solo l’esistenza di analoghi composti nominali, come geostoria, geofilosofia, geoeconomia, ma anche la relazione della geopolitica delle lingue con una disciplina designata da uno di tali termini: la geostrategia.

La lengua es compañera del imperio“: il nesso tra egemonia linguistica ed egemonia politico-militare, così icasticamente rappresentato dal grammatico e lessicografo Elio Antonio de Nebrija (1441-1522), sottende la definizione che il Maresciallo di Francia Louis Lyautey (1854-1934) diede della lingua: “un dialetto che ha un esercito e una marina”. Al medesimo ordine di idee si ispira il generale Jordis von Lohausen (1907-2002), allorché prescrive che “la politica linguistica venga messa sullo stesso piano della politica militare” ed afferma che “i libri in lingua originale svolgono all’estero un ruolo talvolta più importante di quello dei cannoni”1. Secondo il geopolitico austriaco, infatti, “la diffusione d’una lingua è più importante d’ogni altra espansione, poiché la spada può solo delimitare il territorio e l’economia sfruttarlo, ma la lingua conserva e riempie il territorio conquistato”2. È questo, d’altronde, il senso della celebre frase di Anton Zischka (1904-1997): “Preferiamo i professori di lingue ai militari”.

L’affermazione del generale von Lohausen potrebbe essere illustrata da una vasta gamma di esempi storici, a partire dal caso dell’Impero romano, che tra i suoi fattori di potenza ebbe la diffusione del latino: una parlata contadina che con lo sviluppo politico di Roma diventò, in concorrenza col greco, la seconda lingua del mondo antico, usata dai popoli dell’Impero non perché costretti, ma perché indotti a ciò dal prestigio di Roma. Da principio il latino servì alle popolazioni assoggettate per comunicare coi soldati, i funzionari e i coloni; in seguito diventò il segno distintivo della comunità romana.

Tuttavia allo spazio imperiale romano, che per mezzo millennio costituì un’unica patria per le diversae gentes comprese tra l’Atlantico e la Mesopotamia e la Britannia e la Libia, non corrispose un’unica lingua: il processo di latinizzazione fu più lento e difficile quando i Romani si trovarono a contatto coi territori in cui si parlava la lingua greca, espressione e veicolo di una cultura che godeva, negli ambienti della stessa élite romana, di un prestigio superiore. Quello romano fu dunque in sostanza un impero bilingue: il latino e il greco, in quanto lingue della politica, della legge e dell’esercito, oltre che delle lettere, della filosofia e delle religioni, svolgevano una funzione sovranazionale, alla quale gli idiomi locali dell’ecumene imperiale non potevano adempiere.

Sicuramente è pressoché impossibile separare con una netta linea di confine il dominio del latino e quello del greco all’interno dell’Impero romano; nondimeno possiamo affermare che la divisione dell’Impero in due parti e la successiva scissione avvennero lungo una linea di demarcazione coincidente grosso modo col confine linguistico, che tagliava a metà sia i territori europei sia quelli nordafricani. In Libia, è proprio lungo questa linea che si è recentemente prodotta la frattura che ha separato di nuovo la Tripolitania dalla Cirenaica.

In seguito la carta linguistica dell’Europa ci presenta una situazione che Dante descrive identificando tre distinte aree: quella del mondo germanico, in cui fa rientrare anche Slavi e Ungheresi, quella di lingua greca, quella degl’idiomi neolatini3; all’interno di quest’ultima egli può ulteriormente distinguere le tre unità particolari di provenzale (lingua d’oc), francese (lingua d’oil) e italiano (lingua del ). Ma Dante è ben lungi dall’usare l’argomento della frammentazione linguistica per sostenere la frammentazione politica; anzi, egli è convinto che solo la restaurazione dell’unità imperiale potrebbe far sì che l’Italia, “il bel paese là dove il sì suona”4, torni ad essere “il giardin dello ‘mperio”5. E l’impero ha la sua lingua, il latino, poiché, come dice lo stesso Dante, “lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile”6.

In un’Europa linguisticamente frammentata, che il Sacro Romano Impero vorrebbe ricostituire in unità politica, una potente funzione unitaria è svolta proprio dal latino: non tanto dal sermo vulgaris, quanto dalla lingua di cultura della res publica clericorum. Questo “latino scolastico”, se vogliamo indicarne la dimensione geopolitica, “è stato il portatore per tutta l’Europa, ed anche fuori, della civiltà latina e cristiana: confermandola, come nelle Spagne, nell’Africa (…), nelle Gallie; o acquisendo ad essa zone nuove o appena sfiorate dalla civiltà romana: la Germania, l’Inghilterra, l’Irlanda, per non parlare poi anche di paesi nordici e slavi”7.

 

 

Le grandi aree linguistiche

Fra tutti gl’idiomi neolatini, l’espansione maggiore è stata raggiunta dalla lengua castellana. In seguito alla bolla di Alessandro VI, che nel 1493 divise il nuovo mondo tra Spagnoli e Portoghesi, il castigliano si impose nelle colonie appartenute alla Spagna, dal Messico fino alla Terra del Fuoco; ma anche dopo l’emancipazione i singoli Stati sorti sulle rovine dell’Impero delle Americhe mantennero il castigliano come lingua nazionale, ragion per cui l’America latina possiede una relativa unità culturale e il dominio linguistico spagnolo si estende anche ad una parte del territorio statunitense.

Per quanto riguarda il dominio dell’altra lingua iberica, a testimoniare l’estensione dell’area coloniale che in altri tempi appartenne al Portogallo basterebbe il fatto che l’idioma di Camões è “la lingua romanza che ha dato origine al maggior numero di varietà creole, per quanto alcune siano estinte o in via di estinzione”8: da Goa a Ceylon, a Macao, a Giava, alla Malacca, a Capo Verde, alla Guinea. Tra gli Stati che hanno raccolto l’eredità lusofona, si impone oggi il Paese emergente rappresentato dall’iniziale dell’acronimo BRICS: il Brasile, coi suoi duecento milioni di abitanti, a fronte dei dieci milioni e mezzo che vivono nell’antica madrepatria europea.

L’espansione extraeuropea del francese come lingua nazionale, invece, è stata inferiore a quella che esso ha avuto come lingua di cultura e di comunicazione. Infatti, se il francese è la quinta lingua più parlata nel mondo per numero di locutori (circa duecentocinquanta milioni) ed è la seconda più insegnata come lingua straniera, si trova invece al nono posto per numero di madrelingua (circa settanta milioni; circa centotrenta se si aggiungono anche gl’individui bilingui). In ogni caso, è l’unica lingua a trovarsi diffusa, come lingua ufficiale, in tutti i continenti: è lingua di scambio in Africa, il continente che annovera il maggior numero di entità statali (più d’una ventina) in cui il francese è lingua ufficiale; è la terza lingua nell’America del Nord; è usata anche nell’Oceano Indiano e nel Pacifico meridionale. Gli Stati e i governi che a vario titolo hanno in comune l’uso del francese sono raggruppati nell’Organizzazione Internazionale della Francofonia (OIF), fondata il 20 marzo 1970 con la Convenzione di Niamey.

Eminentemente eurasiatica è l’area d’espansione del russo, lingua comune e ufficiale di uno Stato multinazionale che, pur nel succedersi di fasi storiche e politiche che ne hanno cambiato la dimensione territoriale, rimane il più esteso sulla faccia della terra. Se nel periodo sovietico il russo poteva essere glorificato come “lo strumento della civiltà più avanzata, della civiltà socialista, della scienza progressista, la lingua della pace e del progresso (…) lingua grande, ricca e potente (…) strumento della civiltà più avanzata del mondo”9 e in quanto tale reso obbligatorio nell’insegnamento dei paesi dell’Europa orientale, dopo il 1991 esso gode di un diverso statuto in ciascuno degli Stati successori dell’Unione Sovietica. Nella Federazione Russa, la Costituzione del 1992 sancisce il diritto di ogni cittadino alla propria appartenenza nazionale ed all’uso della lingua corrispondente ed inoltre garantisce a ciascuna Repubblica la facoltà di avvalersi, accanto alla lingua ufficiale russa, delle lingue delle nazionalità che la costituiscono.

Se il russo è al primo posto per l’estensione del territorio dello Stato del quale esso è lingua ufficiale, il cinese detiene la preminenza per il numero dei parlanti. Usato attualmente da circa un miliardo e trecento milioni di persone, il cinese si presenta fin dall’antichità come un insieme di varianti che rendono alquanto problematica l’applicazione del termine dialetto; fra tutte primeggia il mandarino, un gruppo grande e variegato che a sua volta si distingue in mandarino del Nord, dell’Ovest e del Sud. Il mandarino del Nord, che ha il suo centro a Pechino, è stato preso a modello per la lingua ufficiale (tōnghuà, letteralmente “lingua comune”), parlata come lingua madre da più di ottocento milioni di persone. Ufficialmente la popolazione della Repubblica Popolare Cinese, che nella sua Costituzione si definisce “Stato plurinazionale unitario”, consta di cinquantasei nazionalità (minzu), ciascuna delle quali usa la propria lingua; fra queste, la più numerosa è quella han (92% della popolazione), mentre le altre cinquantacinque, che costituiscono il restante 8%, “parlano almeno sessantaquattro lingue, di cui ventisei hanno una forma scritta e sono insegnate nelle scuole elementari”10.

L’hindi e l’urdu, che possono essere considerati continuazioni del sanscrito, sono le lingue predominanti nel subcontinente indiano, dove dieci Stati dell’Unione Indiana costituiscono la cosiddetta “cintura hindi” e dove l’urdu è lingua ufficiale del Pakistan. La differenza più evidente tra queste due lingue consiste nel fatto che la prima si serve della scrittura devanagari, mentre la seconda fa uso dell’alfabeto arabo; sul piano lessicale, l’hindi ha recuperato una certa quantità di elementi sanscriti, mentre l’urdu ha incorporato molti termini persiani. Per quando riguarda in particolare l’hindi, si potrebbe dire che esso ha svolto nel subcontinente indiano una funzione analoga a quella del mandarino in Cina, poiché, formatosi sulla base di un dialetto parlato nelle vicinanze di Delhi (il khari boli), insieme con l’inglese è diventato, fra le ventidue lingue citate nella Costituzione indiana, la lingua ufficiale dell’Unione.  

L’arabo, veicolo della rivelazione coranica, con l’espansione dell’Islam si è diffuso ben al di fuori dei suoi confini originari: dall’Arabia al Nordafrica, dalla Mesopotamia alla Spagna. Caratterizzato da una notevole ricchezza di forme grammaticali e da finezze di rapporti sintattici, incline ad arricchire il proprio lessico attingendo vocaboli da dialetti e da lingue straniere, l’arabo prestò il proprio sistema alfabetico a lingue appartenenti ad altre famiglie, quali il persiano, il turco, l’urdu; codificato dai grammatici e divenuto lingua dotta del dâr al-islâm, si sostituì al siriaco, al copto, ai dialetti berberi; arricchì con numerosi prestiti il persiano, il turco, le lingue indiane, il malese, le lingue iberiche; come strumento di filosofia e di scienza, influenzò le lingue europee quando i califfati di Bagdad e di Cordova costituivano i maggiori centri di cultura ai quali poteva attingere l’Europa cristiana. Oggi l’arabo è in diversa misura conosciuto, studiato ed usato, in quanto lingua sacra e di pratica rituale, nell’ambito di una comunità che oltrepassa il miliardo di anime. Come lingua madre, esso appartiene a circa duecentocinquanta milioni di individui, stanziati su un’area politicamente frazionata che dal Marocco e dalla Mauritania si estende fino al Sudan ed alla Penisola araba. A tale denominatore linguistico si sono richiamati i progetti di unità della nazione araba formulati nel secolo scorso: “Arabo è colui la cui lingua è l’arabo”11 si legge ad esempio nello statuto del Baath.  

 

 

La lingua dell’imperialismo statunitense

In tutta la prima metà del Novecento, la lingua straniera più conosciuta nell’Europa continentale era il francese. Per quanto riguarda in particolare l’Italia, “solo nel 1918 vennero istituite cattedre universitarie di inglese ed alla stessa data risale la fondazione dell’Istituto britannico di Firenze, che, con la sua biblioteca e i suoi corsi linguistici, divenne ben presto il centro più importante di diffusione appunto della lingua inglese a livello universitario”12. Alla Conferenza di pace dell’anno successivo gli Stati Uniti, che si erano ormai introdotti nello spazio europeo, imposero per la prima volta l’inglese – accanto al francese – quale lingua diplomatica. Ma a determinare il decisivo sorpasso del francese da parte dell’inglese fu l’esito della seconda guerra mondiale, che comportò la penetrazione della “cultura” angloamericana in tutta l’Europa occidentale. Dell’importanza rivestita dal fattore linguistico in una strategia di dominio politico non era d’altronde inconsapevole lo stesso Sir Winston Churchill, che il 6 settembre 1943 dichiarò esplicitamente: “Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gl’imperi del futuro sono quelli della mente”. Con la caduta dell’Unione Sovietica, nell’Europa centro-orientale “liberata” l’inglese non solo ha scalzato il russo, ma ha anche soppiantato in larga misura il tedesco, il francese e l’italiano, che prima vi avevano un’ampia circolazione. D’altronde, l’egemonia dell’inglese nella comunicazione internazionale si è ulteriormente consolidata nella fase più intensa della globalizzazione.

Così i teorici angloamericani del mondo globalizzato hanno potuto elaborare, basandosi sul peso geopolitico esercitato dalla lingua inglese, il concetto di “Anglosfera”, definito dal giornalista Andrew Sullivan come “l’idea di un gruppo di paesi in espansione che condividono principi fondamentali: l’individualismo, la supremazia della legge, il rispetto dei contratti e degli accordi e il riconoscimento della libertà come valore politico e culturale primario”13. Pare che ad introdurre il termine “Anglosfera” sia stato nel 2000 uno scrittore americano, James C. Bennett; a suo parere “i paesi di lingua inglese guideranno il mondo nel XXI secolo” (Why the English-Speaking Nations Will Lead the Way in the Twenty-First Century è il sottotitolo del suo libro The Anglosphere Challenge), poiché l’attuale sistema degli Stati è condannato a crollare sotto i colpi del cyberspazio anglofono e dell’ideologia liberale. Lo storico Andrew Roberts, continuatore dell’opera storiografica di Churchill con A History of the English Speaking Peoples since 1900, sostiene che il predominio dell’Anglosfera è dovuto alla lotta dei paesi anglofoni contro le epifanie del Fascismo (ossia – sic – “la Germania guglielmina, il nazismo, il comunismo e l’islamismo”), in difesa delle istituzioni rappresentative e del libero mercato.

Meno ideologica la tesi dello storico John Laughland, secondo il quale “l’importanza geopolitica della lingua inglese è (…) rilevante solo in funzione della potenza geopolitica dei paesi anglofoni. Potrebbe essere uno strumento da questi usato per rafforzare la loro influenza, ma non è una fonte indipendente di quest’ultima, perlomeno non della potenza militare”14. La lingua, conclude Laughland, può rispecchiare la potenza politica, ma non la può creare.

In questo caso la verità sta nel mezzo. È vero che l’importanza di una lingua dipende – spesso ma non sempre – dalla potenza politica, militare ed economica del paese che la parla; è vero che sono le sconfitte geopolitiche a comportare quelle linguistiche; è vero che “l’inglese avanza a detrimento del francese perché gli Stati Uniti attualmente restano più potenti di quanto non lo siano i paesi europei, i quali accettano che sia consacrata come lingua internazionale una lingua che non appartiene a nessun paese dell’Europa continentale”15. Tuttavia esiste anche una verità complementare: la diffusione internazionale di una lingua, contribuendo ad aumentare il prestigio del paese corrispondente, ne aumenta l’influenza culturale ed eventualmente quella politica (un concetto, questo, che pochi riescono ad esprimere senza fare ricorso all’anglicismo soft power); a maggior ragione, il predominio di una lingua nella comunicazione internazionale conferisce un potere egemone al più potente fra i paesi che la parlano come lingua madre.

Per quanto concerne l’attuale diffusione dell’inglese, “lingua della rete, della diplomazia, della guerra, delle transazioni finanziarie e dell’innovazione tecnologica, non vi è dubbio: questo stato di cose regala ai popoli di lingua inglese un incomparabile vantaggio e a tutti gli altri un considerevole svantaggio”16. Come spiega meno diplomaticamente il generale von Lohausen, il vantaggio che gli Stati Uniti hanno ricavato dall’anglofonia “è stato uguale per i loro commercianti e per i loro tecnici, per i loro scienziati e i loro scrittori, i loro uomini politici e i loro diplomatici. Più l’inglese è parlato nel mondo, più l’America può avvantaggiarsi della forza creativa straniera, attirando a sé, senza incontrare ostacoli, le idee, gli scritti, le invenzioni altrui. Coloro la cui lingua materna è universale, posseggono un’evidente superiorità. Il finanziamento accordato all’espansione di questa lingua ritorna centuplicato alla sua fonte”17.

 

 

Quale lingua per l’Europa?

Nei secoli XVI e XVII, dopo che la pace di Cateau Cambrésis (1559) ebbe sancito la dominazione spagnola in Italia, la lingua castigliana, oltre ad essere usata dalle cancellerie di Milano e di Napoli, si diffuse nel mondo della politica e delle lettere. Il numero delle voci italiane (e dialettali) nate in quel periodo per effetto dell’influsso spagnolo è elevatissimo18. Tra tutti questi ispanismi, però, alcuni furono usati solo in maniera occasionale e non si possono considerare come entrati nell’uso generale; altri ebbero vita effimera e scomparvero senza lasciar traccia; solo una minoranza entrò stabilmente a far parte del vocabolario italiano. In seguito alla pace di Utrecht (1713), che segnò la fine dell’egemonia spagnola nella penisola, l’influenza del castigliano sulla lingua italiana “è stata di gran lunga inferiore a quello dei secoli precedenti”19.

È lecito supporre che nemmeno il colonialismo culturale d’espressione angloamericana debba durare per l’eternità; anzi, alcuni linguisti già prevedono che all’odierna fase di predominio anglofono seguirà una fase di decadenza20. Essendo legato all’egemonia imperialistica statunitense, il predominio dell’inglese è destinato a risentire in maniera decisiva della transizione dallo stadio unipolare a quello multipolare, per cui lo scenario che la geopolitica delle lingue può ragionevolmente prefigurare è quello di un mondo articolato secondo il multipolarismo delle aree linguistiche.

Diversamente dal continente americano, che presenta una netta ripartizione tra il blocco anglofono del nord e quello ispanofono e lusofono della parte centrale e meridionale, l’Eurasia è il continente della frammentazione linguistica. Accanto ai grandi spazi rappresentati dalla Russia, dalla Cina o dall’India, relativamente omogenei sotto il profilo linguistico, abbiamo uno spazio europeo caratterizzato da una situazione di accentuato multilinguismo.

Perciò sarebbe stato logico che i fondatori della Comunità Economica Europea, se proprio volevano rifiutare una soluzione monolinguistica, adottassero come lingue ufficiali, tra quelle dei Paesi aderenti, le due o tre più parlate nell’area; magari scegliendo, in previsione dei successivi allargamenti della CEE, una terna di lingue che rappresentassero le tre principali famiglie presenti in Europa: la germanica, la romanza e la slava. Invece l’art. 1 del regolamento emanato nel 1958 indicò ben quattro lingue (francese, italiano, tedesco e olandese) come “lingue ufficiali e lingue di lavoro delle istituzioni della Comunità”, col risultato che le “lingue di lavoro” sono oggi praticamente tre: francese, tedesco e inglese.

Il fallimento dell’Unione Europea impone di sottoporre a radicale revisione il progetto europeista e di rifondare su nuove basi l’edificio politico europeo. La nuova classe politica che sarà chiamata ad affrontare questo compito storico non potrà più eludere un problema fondamentale come quello della lingua.

 

 

 

 

1. Jordis von Lohausen, Les empires et la puissance, Editions du Labyrinthe, Arpajon 1996, p. 49.

2. Jordis von Lohausen, ibidem.

3. De vulgari eloquentia, VIII, 3-6.

4. Dante, Inf. XXXIII, 80.

5. Dante, Purg. VI, 105.

6. Dante, Convivio, I, 5.

7. Luigi Alfonsi, La letteratura latina medievale, Accademia, Milano 1988, p. 11.

8. Carlo Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, Pàtron, Bologna 1982, p. 202.

9. “Voprosy Filozofij”, 2, 1949, cit. in: Lucien Laurat, Stalin, la linguistica e l’imperialismo russo, Graphos, Genova 1995, p. 52.

10. Roland Breton, Atlante mondiale delle lingue, Vallardi, Milano 2010, p. 34.

11. Michel ‘Aflaq, La resurrezione degli Arabi, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2011, p. 54.

12. I. Baldelli, in Bruno Migliorini – Ignazio Baldelli, Breve storia della lingua italiana, Sansoni, Firenze 1972, p. 331.

13. Andrew Sullivan, Come on in: The Anglosphere is freedom’s new home, “The Sunday Times”, 2 febbraio 2003.

14. John Laughland, L’Anglosfera non esiste, “I quaderni speciali di Limes”, a. 2, n. 3, p. 178.

15. Alain de Benoist, Non à l’hégémonie de l’anglais d’aéroport!, voxnr.com, 27 maggio 2013.

16. Sergio Romano, Funzione mondiale dell’inglese. Troppo utile per combatterla, “Corriere della Sera”, 28 ottobre 2012.

17. Jordis von Lohausen, ibidem.

18. Gian Luigi Beccaria, Spagnolo e Spagnoli in Italia. Riflessi ispanici sulla lingua italiana del Cinque e del Seicento, Giappichelli, Torino 1968.

19. Paolo Zolli, Le parole straniere, Zanichelli, Bologna 1976, p. 76.

20. Nicholas Ostler, The Last Lingua Franca: English Until the Return of Babel, Allen Lane, London 2010.

 

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LA GEOPOLITICA DELLE LINGUE

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È uscito il numero XXXI (3-2013) della rivista di studi geopolitici “Eurasia” intitolato:

 

LA GEOPOLITICA DELLE LINGUE 

 

Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto di ciascuno di essi.

 

EDITORIALE

LA GEOPOLITICA DELLE LINGUE di Claudio Mutti

 

 

GEOFILOSOFIA

GEOGRAFIA E VIRTÙ di Platone

 Platone descrive la situazione geografica della polis ideale. Essa dovrà sorgere su un territorio fertile, tale da garantirle una certa prosperità; ma, per quanto dotata di buoni porti, dovrà distare dal litorale marino di almeno ottanta stadi (circa quattordici chilometri). Occorre infatti evitare che i commerci e gli scambi troppo vasti vi diffondano tutti quei mali che affliggono le città marinare: l’impulso al profitto, l’uso di monete d’oro e d’argento, la furbizia dei mercanti, il diffondersi di costumi stranieri, la corruzione tipica dei bassifondi portuali. Tanto meglio, perciò, se le foreste non saranno in grado di fornire legno di pino, idoneo alla costruzione di triremi. Alla forza navale, riducibile ad un insieme di tecniche, è infatti preferibile quella terrestre, che esige e sviluppa virtù di obbedienza, ordine ed autocontrollo. D’altronde nelle guerre persiane furono proprio le battaglie combattute sulla terraferma ad esercitare un peso decisivo nell’andamento del conflitto ed a migliorare le virtù dei Greci. Platone non fu certamente il primo a mettere in guardia i Greci contro i pericoli del mare. Ma la sua condanna di un’esistenza politica affidata al mare non è riducibile ad un particolare contesto politico; essa “non era la reazione ad una situazione contingente, non era neppure rimpianto di un remoto passato, di un’esiodea età dell’oro fatta di contadini operosi, buoi mansueti all’aratro e campi ubertosi in attesa del mietitore. In Platone, piuttosto, si avverte distintamente l’alterità, la natura drammaticamente eccentrica del mare” (Filippo Ruschi, Questioni di spazio. La terra, il mare, il diritto secondo Carl Schmitt, G. Giappichelli Editore, Torino 2012, p. 56). Proprio per questo la posizione platonica non può essere liquidata nei termini psicologici di una banale “talassofobia” del Filosofo. Il mare, in quanto massa fluida ed informe, costituisce in primo luogo un simbolo di quel divenire che è mutevolezza, corruttibilità, illusione.

 

IMMAGINAZIONE GEOFILOSOFICA E REALISMO GEOPOLITICO di Fabio Falchi

È merito dell’epistemologia postpositivistica avere dimostrato che non vi è un’unica descrizione scientifica del mondo cui tutte le altre descrizioni della realtà possano essere “ridotte”. La metafora e il simbolo, lungi dal contrapporsi al linguaggio della conoscenza scientifica, si devono invece considerare come manifestazione di alcuni aspetti irriducibili, benché “relazionali”, dell’essere. Ne deriva quindi la possibilità di rivalutare l’immaginazione, in quanto definita da una posizione mediana e mediatrice tra intelligibile e sensibile, ovvero la possibilità di “pensare per immagini”, ma senza perdere il contatto con la realtà, in virtù di un linguaggio “fondativo” che permetta un radicamento nella terra in cui si “dimora” e di convivere con l’Altro secondo “comuni differenze”.

 

CARL SCHMITT E L’ANOMIA TALASSICA di Davide Ragnolini

Il rapporto tra terra e mare e la sua trasfigurazione nella lotta tra Behemoth e Leviathan, come è noto, non costituisce solo l’oggetto dell’interpretazione storica e geofilosofica del mondo all’interno del Land und Meer (1942) di Schmitt, ma più in generale lo sfondo sul quale si staglia l’intera sua produzione internazionalistica. Nel dibattito contemporaneo si è assistito ad una vera e propria inflazione concettuale di categorie come “liquidità”, “non luogo” e “globalizzazione”, termini che presuppongono una stretta corrispondenza con una dimensione spaziale talassica. Se la terra nello jus publicum Europaeum fondava la base geografica ed elementare della modernità accanto ad una progressiva emersione degli spazi talassici, nella contemporaneità sono infine il mare e l’oceano ad assurgere a topoi epocali. Una riflessione sul rapporto tra mondo inteso come mare magnum e le forme di pensiero ad esso correlate, informata dalla filosofia schmittiana del diritto internazionale, può acquisire oggi una grande rilevanza teoretica. L’indagine intorno al rapporto tra l’archetipo spaziale talassico e il diritto, tra il mare e la sua radicale insofferenza verso ogni nomos, ci consente di gettare le basi geofilosofiche per una teoria critica della contemporaneità.

 

 

 

DOSSARIO: LA GEOPOLITICA DELLE LINGUE

LINGUA E NAZIONE, DA FICHTE A STALIN di Renato Pallavidini

Il concetto di nazione, definito sulla base dell’unità linguistico-culturale di un popolo, nasce in Germania con i Reden an die deutschen Nation di Fichte, del 1808. Il bolscevismo, pur volendosi internazionalista, non può prescindere dalle problematiche nazionali: specialmente in Russia, dove le nazionalità che aspirano all’indipendenza costituiscono un fattore rivoluzionario e dove Stalin col saggio su Il marxismo e la questione nazionale riprende la nozione ottocentesca formulata Fichte. Nell’Asia Centrale, dove i bolscevichi devono affrontare concretamente la questione, il concetto di nazione mostrerà tutti i suoi limiti, rivelandosi del tutto artificiale in una regione la cui unità non è mai stata quella linguistico-culturale, ma quella religiosa.

 

PLURILINGUISMO E IDENTITÀ di Vittoria Squillacioti

Partendo dalle ricerche più recenti, vengono analizzati i diversi aspetti del bilinguismo con particolare riferimento al caso specifico delle famiglie miste. In tale contesto vengono sviluppati il concetto di bilinguismo e le teorie scientifiche che ne sostengono i benefici nel bambino a livello, linguistico, culturale ed emotivo, approfondendo l’importanza di mantenere viva la lingua minoritaria rispetto al contesto in cui si vive. La lingua viene insomma analizzata come identità, come segno distintivo in un mondo sempre più globalizzato, che tende ad omologare persone, luoghi, culture.

 

POLITICA LINGUISTICA: IL CASO SPAGNOLO di Cristiano Procentese

La lingua ha sempre costituito un fattore chiave nella formazione delle entità nazionali. Durante tutto il secolo XIX la lingua, più della religione, costituì il criterio dominante per definire l’appartenenza etnica. Attualmente, in una fase in cui comincia ad aprirsi l’idea di una nuova identità europea sulla base del plurilinguismo, la politica linguistica diventa fondamentale per la coesione delle nuove istituzioni sovranazionali d’Europa. In tal senso, uno degli Stati che ha fatto i maggiori progressi è la Spagna. Dopo la morte del generale Franco, la nuova costituzione del 1978 ha riconosciuto come “nazionalità storiche” i Paesi Baschi, la Catalogna e la Galizia per la loro tradizione di autonomia amministrativa, linguistica e culturale. Da quel momento in poi, a favore delle rispettive lingue minoritarie (in particolar modo per il catalano), si è dato corso ad un imponente piano di politiche linguistiche, che ha portato queste “comunità autonome” ad importanti risultati ai fini della tutela e della promozione delle identità linguistico-culturali.

 

GEOPOLITICA DELLA LINGUA RUSSA di Leonid Savin

L’articolo espone il ruolo e la funzione della lingua russa nell’edificazione dello Stato, nella politica estera e nella geopolitica durante il periodo dell’Impero russo e dell’Unione Sovietica. Vengono pure considerati il rapporto della lingua con la cultura e con la religione, gli aspetti storici della lingua russa, la sua penetrazione in altre società e il suo rafforzamento legale nella politica imperiale. 

 

LA LINGUA RUSSA NELL’EX URSS: KAZAKHSTAN E STATI BALTICI di Giuseppe Cappelluti

Una delle tracce più tangibili della dominazione sovietica nell’Eurasia è la diffusione della lingua russa, che ancora oggi funge da lingua franca in quasi tutta l’area un tempo occupata dall’Unione Sovietica. Spicca il caso del Kazakhstan, che tra gli eredi non slavi di quella che fu l’Unione Sovietica è senza dubbio il Paese che registra la maggior diffusione della lingua di Dostoevskij. In una società ancora notevolmente russificata, sembra rafforzarsi la posizione di chi chiede un rafforzamento della posizione della lingua di Stato a svantaggio del russo (sebbene non manchino i sostenitori della concessione dello status di lingua di Stato anche alla lingua russa). Il passaggio dall’alfabeto cirillico a quello latino per la lingua kazaca, annunciato dal presidente kazaco Nazarbaev alla fine del 2012, può essere interpretato come un mezzo per placare le critiche dei nazionalisti senza mettere in pericolo la posizione del russo. Nelle Repubbliche baltiche, fin dall’indipendenza le condizioni dei russofoni e lo status della lingua russa sono stati oggetto di forti polemiche. Le Repubbliche baltiche, e in particolare la Lettonia e l’Estonia, hanno una popolazione fortemente eterogenea, con una nutrita presenza di russofoni; tuttavia entrambi i Paesi hanno rifiutato di concedere uno status di ufficialità al russo, mentre le forti differenze culturali tra i Russi e gli autoctoni ed i forti legami dei primi con la Russia, che le Repubbliche baltiche guardano quanto meno con sospetto, hanno reso spesso difficili i rapporti tra le due comunità. Tra Estonia e Lettonia, però, non mancano le differenze.

 

IL FUTURO PARLERÀ CINESE? di Elena Premoli

Quando diciamo “lingua cinese” cosa intendiamo? Quante lingue parlano gli abitanti della Repubblica Popolare? In che misura la diffusione del mandarino a livello internazionale è strumento geopolitico nelle mani di Pechino? L’articolo si propone di offrire una panoramica sulle caratteristiche della lingua cinese, come lingua ufficiale della Repubblica Popolare, ma anche come insieme di gruppi dialettali molto diversi tra loro. Analizza inoltre l’uso della lingua cinese quale strumento di soft power per accrescere l’attrattiva della Terra di Mezzo nell’arena internazionale: la diffusione degli Istituti Confucio, la presenza delle comunità cinesi oltre confine, l’insegnamento del cinese nelle scuole. Riuscirà il mandarino a sostituire l’inglese in qualità di lingua per la comunicazione internazionale?

 

LA LINGUA SACRA DELL’ISLAM di Carmela Crescenti

In seguito alla rivelazione coranica, le conquiste musulmane diffusero la lingua araba su una vasta area, che in breve si estese dalla Mesopotamia al Nordafrica alla Spagna. Codificato dai grammatici e divenuto lingua dotta del mondo islamico, l’arabo soppiantò il siriaco, il copto e gl’idiomi berberi; arricchì di numerosi prestiti lessicali il persiano, il turco ed altre lingue dell’area islamica; prestò il proprio sistema alfabetico a lingue di altre famiglie. Oggi l’arabo è in diversa misura conosciuto ed usato, in quanto lingua sacra e di pratica rituale, nell’ambito della comunità musulmana, che oltrepassa il miliardo di anime. È usato da circa duecentocinquanta milioni di parlanti, per cui, oltre ad essere la lingua più diffusa nel bacino del Mediterraneo, è la sesta fra quelle più parlate nel mondo.

 

LA  TURCOFONIA, FATTORE D’IDENTITÀ CULTURALE E DI RACCORDO POLITICO di Ermanno Visintainer

La turcofonia corrisponde ad una continuità linguistico-culturale che spazia dall’Oceano Pacifico fino al Mar Adriatico, con una minuscola enclave in Italia. Una koinè, quella turcofona, che ha esteso la propria influenza sulla macrostoria dell’intero continente eurasiatico. Attualmente emergente anche sugli scenari eurasiatici, se non globali, essa ha due epicentri: la Turchia repubblicana, erede di un impero posizionato su tre continenti, e il Kazakhstan, perno eurasiatico della storia ed erede delle tradizioni genghiscanidi. 

 

LA LINGUA PIÙ PARLATA AL MONDO di Alberto Buela

Il castigliano, patrimonio comune a spagnoli, ad americani e ad alcuni paesi africani, è la prima lingua parlata al mondo; segue l’inglese, con 450 milioni. Quanto al cinese, non è un’unica lingua; ce ne sono 129, tra le quali il mandarino, lingua ufficiale dalla rivoluzione culturale del 1966, il wu, il cantonese o yue, il min, il jin, lo xiang ecc., le cui reciproche differenze sono maggiori di quelle che esistono tra il castigliano e il portoghese. Mentre l’inglese è l’idioma dell’imperialismo talassocratico ancor oggi dominante nel mondo, lo spagnolo, che è stato una lingua imperiale e non imperialista, offre le migliori e maggiori possibilità di opposizione. Non solo perché si trova già installato, con 45 milioni di parlanti, nell’area perno dell’imperialismo, ma anche perché ne occupa tutto il “cortile posteriore”.

 

CENNI SULLA LUSOFONIA di Fabrizio Boscaglia

L’articolo, dopo aver sinteticamente tracciato le tappe fondamentali dell’espansione della lingua portoghese nel mondo, richiama l’attenzione sull’aspetto mitico-letterario dell’idea di lusofonia, accennando a momenti della storia del Portogallo, a movimenti culturali portoghesi di matrice messianica e millenarista e, inoltre, alle opere di scrittori quali Luís de Camões e Fernando Pessoa. Alla luce di ciò, si riflette su alcuni eventi e dibattiti di natura linguistica, culturale e politica, riguardanti la lusofonia come fattore d’identità culturale e di raccordo politico ed economico.

 

INGLESE E “VALORI ASIATICI”: MALAYSIA E SINGAPORE di Giuseppe Cappelluti

Malaysia e Singapore: due vicini di casa molto simili sotto alcuni aspetti e profondamente diversi in altri. Entrambi hanno vissuto la dominazione britannica, hanno una popolazione etnicamente eterogenea, un’economia fortemente aperta agli scambi e un atteggiamento tendenzialmente antioccidentale; ma, se la prima è un Paese a maggioranza islamica, il secondo è una città-Stato abitata prevalentemente da Cinesi. Un elemento, questo, tutt’altro che insignificante. Inoltre, se entrambi i Paesi hanno sempre cercato di promuovere lo studio della lingua dei vecchi dominatori, nella prassi le loro politiche sono state diverse. Singapore, privo di una vera lingua nazionale, ha visto nell’uso della lingua di Shakespeare un fattore unificante per i suoi numerosi gruppi etnici. La Malaysia, invece, pur non negando l’importanza dell’inglese, ha sempre cercato di garantire la primazia alla propria lingua nazionale, il malese.

 

L’ITALIANO NEL MONDO  di Francesco Viaro

 L’italiano è stato definito “lingua leggera”, perché, mentre le grandi potenze europee  imponevano le loro parlate come strumento di colonizzazione, il nostro idioma si è diffuso grazie al prestigio della cultura da esso rappresentata. I motivi che spingono tuttora molti  a imparare l’italiano sono molteplici: culturali, turistici, commerciali, familiari. Una politica culturale organica, coordinata e incentivata dalle istituzioni e finalizzata a rendere questa lingua ancor più appetibile e competitiva, avrebbe ricadute positive culturali ed economiche anche all’interno del nostro Paese e lo renderebbe meno marginale nello scacchiere internazionale.

 

BREVE STORIA RECENTE DELL’IDIOMA DI DANTE di Giovanni Armillotta

 Le esigenze di abbandonare la nostra lingua a favore di un inglese dozzinale, sgrammaticato e idiomatico, da parte di gente che non sa esprimersi in quest’ultimo idioma. Forme di frustrazione psicopolitica e complessi d’inferiorità nazionale e personali. Esempi ridicoli e patetici da parte di case editrici, ‘professionisti della comunicazione’, uomini politici, e mass media in generale. Giornali, tv, internet, ‘fiction’, filmografia amerikana e pubblicità quali veicoli di trasmissione diretta e ipnopedica verso strati sociali indifesi culturalmente. Forme di autorazzismo eterodiretto. La geografia, illustre sconosciuta, in una scuola non più in grado di educare e nemmeno informare a livello toponomastico.

 

LA DIFESA DELLA LINGUA DEGLI “ITALIANI D’AUSTRIA” di Lorenzo Salimbeni

La fase finale dell’esistenza dell’Impero austro-ungarico fu caratterizzata dalla crescente tensione fra opposti nazionalismi, alle volte fomentati dalle stesse autorità governative in base alla logica del divide et impera. Uno degli elementi fondanti della coscienza nazionale è la lingua, perciò l’apertura di scuole con lingua d’insegnamento italiana e la fondazione di un’Università italiana furono tra gli obiettivi delle classi dirigenti dei cosiddetti “italiani d’Austria”, cioè gli italiani residenti nelle province ancora sottoposte al governo di Vienna al termine delle Guerre d’Indipendenza. A Trento, Trieste, in Istria e Dalmazia le sensibilità e le potenzialità delle comunità italiane erano variegate, così come i contesti in cui operavano ed in cui bisognava garantire la diffusione o al salvaguardia della lingua di Dante di fronte alle pressioni germaniste o dello jugoslavismo. Irredentisti ma anche esponenti delle sinistre italofone affrontarono la questione avvalendosi dell’associazionismo privato ovvero attraverso la conquista di amministrazioni locali oppure cercando l’appoggio di soggetti attivi nel Regno d’Italia.

 

 

INTERVISTE

LA CONTROVERSIA SULL’UNGHERESE, a cura di Claudio Mutti.

Intervista a Borbála Obrusánszky. storica, orientalista, etnografa, antropologa culturale ungherese.

DIETRO LO SCENARIO DELLE PRIMAVERE, a cura di Claudio Mutti.

Intervista a Shaykh Imran Hosein, professore di scienze islamiche e direttore dell’Istituto di Studi Islamici Aleemiyah a Karachi.

 

 

CONTINENTI

IL MITO DELL’IMPERO NELL’AMERICA LATINA (SECONDA PARTE) di Francisco de la Torre Freire

In seguito all’aggressione e all’occupazione spagnola, nell’America indio latina ebbe luogo l’evento della translatio imperii. La prima parte di questo saggio è apparsa sul n. 1/2013.

 

 

RECENSIONI

Rutilio Sermonti, Il linguaggio della lingua  (Claudio Mutti)

Antonio Vallisneri, Che ogni Italiano debba scrivere in lingua purgata italiana (Claudio Mutti)

 

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BOLIVIA. IO, PRESIDENTE, SEQUESTRATO IN EUROPA

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di Evo Morales (Presidente della Bolivia)

Fonte: Le Monde Diplomatique, 6 Agosto 2013

Tratto da: http://www.interet-general.info/spip.php?article18649&cs=print

 

 

La rivelazione da parte di Edward Snowden della natura perniciosa dello spionaggio americano ha suscitato solo fredde reazioni da parte dei dirigenti europei, i quali, in compenso, non hanno esitato a bloccare l’aereo del presidente boliviano Evo Morales, sospettato di trasportare l’esperto informatico in fuga.

Il 2 Luglio 2013 si è verificato uno degli episodi più insoliti del diritto internazionale: il divieto all’aereo presidenziale dello Stato plurinazionale della Bolivia si sorvolare i territori francese, spagnolo, italiano e portoghese, poi il mio sequestro all’aeroporto di Vienna (Austria) per quattordici ore.

Diverse settimane dopo, questo attentato alla vita dei membri di una delegazione ufficiale, commesso da Stati considerati democratici e rispettosi delle leggi, continua a sollevare indignazione, abbondando le condanne di cittadini, di organismi sociali, internazionali e di governi in tutto il mondo.

 

 

CHE COSA E’ SUCCESSO?

Mi trovavo a Mosca, alcuni istanti prima dell’inizio di una riunione con Vladimir Putin, un collaboratore mi ha avvertito di difficoltà tecniche: impossibile recarci in Portogallo come inizialmente previsto. Intanto, mentre volge al termine il mio colloquio col presidente russo, è già chiaro che il problema non ha nulla di tecnico…

 

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Da La Paz, il nostro ministro per gli affari esteri, M. David Choquehuanca, riesce a organizzare uno scalo a Las Palmas de Gran Canaria, in Spagna, e a far approvare un nuovo piano di volo. Tutto sembra a posto, ma mentre siamo in volo, il colonnello dell’aviazione Celiar Arispe, che comanda il gruppo aereo presidenziale e pilota l’aereo quel giorno, viene da me: “ Parigi ci revoca la sua autorizzazione di sorvolo! Non possiamo penetrare nello spazio aereo francese “. Il suo stupore era pari alla sua preoccupazione: eravamo sul punto di passare sopra l’Esagono (termine col quale si definisce la Francia per la sua forma esagonale, ndt.).

Potevamo ovviamente tornare in Russia ma correvamo il rischio di restare senza carburante. Il colonnello Arispe si è quindi messo in contatto con la torre di controllo dell’aeroporto di Vienna per chiedere l’autorizzazione ad effettuare un atterraggio urgente. Ringrazio qui le autorità austriache per aver dato la loro autorizzazione.

Sistemato in un piccolo ufficio dell’aeroporto che era mi era stato messo a disposizione, stavo conversando col mio vice-presidente, M. Alvaro Garcia Linera e con M. Choquehuanca per decidere sul seguito degli eventi e, soprattutto, tentare di capire le ragioni della decisione francese, quando il pilota mi informa che anche l’Italia ci rifiutava l’entrata nel suo spazio aereo.

 

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E’ in quel momento che ricevo la visita dell’ambasciatore spagnolo in Austria, M. Alberto Carnero. Questi mi informa che un nuovo piano di volo era stato appena approvato per dirigermi in Spagna.

Solo, dice lui, che dovrà prima di tutto ispezionare l’aereo presidenziale. Si tratta addirittura di una condizione insindacabile per la nostra partenza verso Las Palmas de Gran Canaria.

Quando gli chiedo le ragioni di questa esigenza, il Sig. Carnero tira fuori il nome di Edward Snowden, quell’impiegato do una società americana alla quale Washington affida certe sue attività di spionaggio. Gli risposi che lo conoscevo solamente per aver letto di lui sulla stampa. Ho anche ricordato al diplomatico spagnolo che il mio paese rispettava le convenzioni internazionali: in nessun caso avrei tentato di estradare qualcuno verso la Bolivia.

Il Sig. Carnero era in costante contatto col sotto-segretario agli affari esteri, Rafael Mendivil Peydro, il quale, evidentemente, gli chiedeva di insistere. “ Lei non ispezionerà l’aereo “  – dovetti dirgli chiaro e tondo – “ se Lei non crede a ciò che Le dico, significa che Lei considera un bugiardo il presidente dello Stato sovrano della Bolivia “.  Il diplomatico esce per prendere le disposizioni dal suo superiore e poi rientra. Mi chiede allora di invitarlo “a prendere un caffè nell’aereo”. “ Ma Lei mi prende per un delinquente? “ – gli chiedo – “ Se Lei ci tiene ad entrare in questo aereo, lo dovrà fare con la forza. E io non resisterò ad un’operazione militare o di polizia perché non ne ho i mezzi “.

Avendo sicuramente preso paura, l’ambasciatore scarta l’opzione della forza, ma non senza precisare che, in queste condizioni, non potrà autorizzare il nostro piano di volo: “ Alle 9 del mattino Le diremo se può partire o meno. Fino ad allora discuteremo con i nostri amici “ mi dice. “ Amici? Ma chi sono questi amici della Spagna a cui fate riferimento ? La Francia e l’Italia senza dubbio? “. Si rifiuta di rispondermi e si ritira.

Ne approfitto per discutere con la presidentessa argentina Cristina Fernandez, un eccellente avvocatessa che mi guida sulle questioni giuridiche, ed anche con i presidente venezuelano ed ecuadoregno Nicolàs Maduro e Rafael Correa, entrambi preoccupati nei nostri confronti. Il presidente Correa mi richiamerà più volte durante il giorno per avere mie notizie. Questa solidarietà di da forza: “ Evo, non hanno alcun diritto di ispezionare il tuo aereo! “ continuano a ripetermi. Non ignoravo infatti che un aereo presidenziale gode dello stesso statuto di un’ambasciata.

Ma questi consigli e l’arrivo degli ambasciatori dell’Alleanza boliviana per i popoli della nostra America (ALBA) (1) decuplicano ma mia determinazione a mostrarmi irremovibile. No, noi non offriremo alla Spagna o qualsiasi altro paese, tantomeno agli Stati Uniti, la soddisfazione di ispezionare il nostro aereo. Difenderemo la nostra dignità, la nostra sovranità e l’onore della nostra patria, la nostra grande patria, Mai accetteremo un simile ricatto.

L’ambasciatore spagnolo rifà la sua comparsa. Preoccupato, agitato e nervoso mi fa sapere  che finalmente dispongo di tutte le autorizzazioni e che posso partire. Finalmente decolliamo.

Questo divieto di volo, decretato in modo simultaneo da quattro paesi e coordinato dalla Central Intelligence Agency (CIA) nei confronti di un paese sovrano col pretesto che forse stavamo trasportando il Sig. Snowden, chiarisce il peso politico della principale potenza imperialista: gli Stati Uniti.

 

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Fino al 2 Luglio (data del nostro sequestro), tutti noi capivamo che gli Stati si dotano di agenzie di sicurezza al fine di tutelare il loro territorio e la loro popolazione. Ma Washington ha passato il limite del concepibile. Violando tutti i principi della buona fede e le convenzioni internazionali, ha trasformato una parte del continente europeo in un territorio colonizzato. Un insulto ai diritti umani, una delle conquiste della Rivoluzione Francese.

Lo spirito coloniale che ha portato a sottomettere in questo modo diversi paesi dimostra ancora una volta che l’impero non tollera alcun limite, né legale, né morale, né territoriale. E’ oramai chiaro agli occhi del mondo intero che, per una potenza simile, ogni legge può essere trasgredita, ogni sovranità violata, ogni diritto umano ignorato.

La potenza degli Stati Uniti è rappresentata sicuramente dalle loro forze armate, implicate in varie guerre d’invasione e sostenute da un complesso militare-industriale fuori dal comune. Le tappe dei loro interventi sono ben note: dopo le conquiste militari, l’imposizione del libero scambio, di un singolare concetto della democrazia e, alla fine, la sottomissione dei popoli alla voracità delle multinazionali. I segni indelebili dell’imperialismo, che sia militare o economico,  deturpano l’Irak, l’Afghanistan, la Libia, la Siria. Paesi alcuni dei quali sono stati invasi perché si sospettava che detenessero armi di distruzioni di massa o di ospitare organizzazioni terroriste. Paesi dove migliaia di esseri umani sono stati uccisi senza che la Corte Penale Internazionale intenti la benché minima causa.

Ma la potenza americana proviene anche dai dispositivi sotterranei destinati a divulgare la paura, il ricatto e l’intimidazione. Fra i tanti modi che Washington utilizza volentieri per mantenere il suo statuto: la “punizione esemplare”, nel più puro stile coloniale che aveva portato alla repressione degli Indiani di Abya Yala (2). Questa oramai si abbatte sulle popolazioni che hanno deciso di liberarsene e sui dirigenti politici che hanno deciso di governare per gli umili. La memoria di questa politica della punizione esemplare è ancora viva in America Latina: si pensi ai colpi di stato tentati contro Hugo Chavez in Venezuela nel 2002, contro il presidente honduregno Manuel Zelaya nel 2009, contro M. Correa nel 2010 in Ecuador, contro il presidente paraguayano Fernando Lugo nel 2012 e anche contro il nostro governo nel 2008, sotto la guida dell’ambasciatore americano in Bolivia Philip Goldberg (3). “ L’esempio “ affinché le popolazioni indigene, gli operai, i contadini e i movimenti sociali non osino rialzare la testa contro le classi dominanti. “L’esempio” può far piegare coloro che resistono e terrorizzare gli altri. Ma un “esempio” che porta ormai gli umili del continente e del mondo intero a raddoppiare i loro sforzi di unità per rafforzare le loro battaglie.

 

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L’attentato del quale siamo stati vittime svela i due volti di una medesima oppressione contro la quale i popoli hanno deciso di ribellarsi: l’imperialismo e il suo gemello politico e ideologico, il colonialismo. Il sequestro di un aereo presidenziale e del suo equipaggio, cosa che si riteneva impensabile nel 21° secolo, dimostra la sopravvivenza di una forma di razzismo in seno a certi governi europei. Per essi, gli Indiani o i processi democratici o rivoluzionari nei quali sono impegnati, rappresentano degli ostacoli sulla via della civilizzazione. Questo razzismo si rifugia oramai nell’arroganza e nelle spiegazioni “tecniche” più ridicole per mascherare una decisione politica nata in un ufficio di Washington. Ecco quindi dei governi che hanno perso persino la capacità di riconoscersi colonizzati e che tentano di tutelare la reputazione del loro padrone.

Chi dice impero dice colonie. Avendo optato per l’obbedienza agli ordini che venivano loro impartiti, alcuni paesi europei hanno confermato il loro statuto di paese sottomesso. La natura coloniale del rapporto tra Stati Uniti e l’Europa si è rafforzata dall’epoca degli attentati dell’11 Settembre 2011 ed è stata completamente svelata nel 2004 quando si è saputo dell’esistenza di voli illegali di aerei militari americani che trasportavano dei presunti prigionieri di guerra verso Guantanamo o verso prigioni europee. Oggi sappiamo che questi presunti “terroristi” erano sottomessi alla tortura; una realtà che anche le organizzazioni di difesa dei diritti umani tacciono molto spesso.

La “guerra contro il terrorismo” avrà ridotto la vecchia Europa al rango di colonia; un atto nemico, ostile, che si può analizzare come una forma di terrorismo di Stato, in quanto consegna la vita privata di milioni di cittadini ai capricci dell’impero.

Ma l’affronto al diritto internazionale che il nostro sequestro rappresenta costituirà probabilmente un punto di rottura. L’Europa ha dato alla luce le idee più nobili: libertà, uguaglianza, fratellanza. Essa ha ampiamente contribuito al progresso scientifico, all’emergere della democrazia. Ora non è altro che l’ombra di se stessa: un neo-oscurantismo minaccia i popoli di un continente che, qualche secolo fa, illuminava il mondo con le sue idee rivoluzionarie e suscitava la speranza.

Il nostro sequestro potrebbe offrire a tutti i popoli e governi dell’America Latina, dei Caraibi, dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa e dell’America del Nord l’occasione unica di formare un blocco solidale condannando l’atteggiamento indegno degli Stati coinvolti in questa violazione del diritto internazionale. Si tratta anche di una buona occasione per rafforzare le mobilitazioni dei movimenti sociali in vista della costruzione di un mondo diverso, di fratellanza e di complementarietà. Conviene a tutti i popoli costruirlo.

Siamo certi che i popoli del mondo, particolarmente quelli europei,  sentano l’aggressione della quale siamo stati vittime come tale anche nei loro confronti. Noi interpreteremo la loro indignazione come un modo indiretto di presentarci le scuse che ci rifiutano sempre alcuni dei governi responsabili. (4)

 

 

 

NOTE:

1 – di cui sono membri Antigua e Barbuda, Bolivia, Cuba, Ecuador, Nicaragua, Repubblica Dominicana, Saint-Vincent e le Grenadine e il Venezuela. (tutte le note sono della redazione)

2 – nome dato dalle etnie Kunas di Panamà e della Colombia al continente americano prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo. Nel 1992 questo nome è stato scelto dalle nazioni indigene d’America per designare il continente.

3 – su questi diversi eventi, consultare il dossier “Honduras” sul nostro sito e leggere Maurice Lemoine. “Etat d’exception en Equateur”. La valise diplomatique, 1° Ottobre 2010, e Gustavo Zaracho, “ Il Paraguay ripreso nelle mani dell’oligarchia”. La valise diplomatique, 19 Luglio 2012, www.monde-diplomatique.fr . Hernando Calvo Ospina, “ Piccolo compendio di destabilizzazione in Bolivia “. Le Monde Diplomatique, Giugno 2010

4 – Madrid, Parigi e Roma hanno presentato scuse ufficiali a La Paz

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IL PROCESSO DI PACE IN COLOMBIA

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Davide Delaiti ha intervistato per noi la politologa Valeria Eberle (1), attualmente professoressa del corso “Violencia y Conflicto en Colombia” presso l’Università ICESI di Cali (Colombia).

 

DD – Parlare di processo di pace in Colombia appare come un déjà vu, ossia una riproposizione di tentativi passati e poi inesorabilmente naufragati. Secondo lei come stanno procedendo le negoziazioni tra il Governo e le Farc?

VE – Questo processo di pace differisce dai precedenti per una serie di ragioni. Da una prospettiva militare, le Farc si trovano in un momento differente rispetto al passato. È interessante comparare l’attuale processo di pace con quello, per esempio, del 1998, del Presidente Andres Pastrana. In quegli anni la guerriglia aveva un posizionamento strategico completamente differente. Le Farc potevano contare su maggiori risorse economiche, provenienti dal narcotraffico per lo più, e godevano di maggiore competitività militare. Di conseguenza il confronto sul campo con le forze armate era più aspro e duro e gli innumerevoli sequestri da parte della guerriglia venivano percepiti da parte del Governo come una ferita politica, segno di una fastidiosa impotenza. Gli accordi di pace erano solamente una facciata per coprire la propria riorganizzazione strategica. Era evidente che non nutrivano alcun tipo d’interesse a siglare un accordo di pace, perché non era conveniente per la loro sopravvivenza.

Oggi, invece, la posizione delle Farc è molto più debole, soprattutto grazie all’amministrazione di Alvaro Uribe, che inflisse loro un duro colpo.

È importante però tenere in considerazione anche un altro aspetto, ovvero la trasformazione della società civile negli ultimi anni. Le Farc hanno subito un’enorme perdita di consenso, non solo nelle aree urbane (che comunque era relativamente basso), ma soprattutto tra i campesinos, la fonte dell’ideologia politica delle Farc. Negli ultimi tempi le Farc si sono svuotate dell’appoggio politico anche nelle aree rurali.

Infine, ultimo aspetto importante e non meno rilevante, è quello dello sviluppo economico colombiano. Parliamo dunque di concessione di terre a imprese straniere, dell’attrazione dell’imprenditoria internazionale, l’agro-industria eccetera. In una prospettiva economica la guerriglia ha perso spazio di manovra, e le fonti di finanziamento diventano via via sempre più risicate.

 

DD – Uno dei punti centrali del Processo di Pace del Presidente Santos è il cosiddetto Marco Juridico por la Paz, una legge che utilizza la Giustizia Transizionale. Secondo lei quali sono gli elementi rilevanti del Marco Juridico in relazione all’esito dei negoziati e al futuro della Colombia?

VE – Occorre fare una considerazione a monte. La maniera con la quale il governo si è posto rispetto ai negoziati di pace e rispetto alla stessa guerriglia è completamente differente rispetto al passato. Questo esecutivo ha una natura molto più tecnocratica rispetto ai precedenti. Al momento del suo insediamento fu creata un’agenda di Governo alla quale il gruppo di negoziazione governativo è rimasto e continua a rimanere molto fedele. Di conseguenza non si è disposti ad allontanarsi da questi punti previamente definiti. Si vuole sostanzialmente evitare che nell’Agenda vengano inclusi aspetti che il Governo colombiano non è disposto a negoziare o trattare. All’interno di questa Agenda è previsto anche il MJP, del quale si discute soprattutto nel Congresso. Rimane un punto sicuramente controverso e potrebbe addirittura costituire un ostacolo sul cammino dei dialoghi di pace.

 

DD – Perché?

VE – Come in ogni processo di pace, si ripresenta il perenne paradosso che vede contrapporsi le ragioni delle Farc e le norme del diritto internazionale. Da un lato la guerriglia vuole a tutti i costi evitare il carcere e questo MJP genera una condizione specifica per ogni caso. Nello specifico si prevede un trattamento diverso per comandanti e soldati. Le Farc temono che il MJP non sia sufficientemente protettore. Dall’altro c’è il tema del diritto internazionale umanitario, che afferma l’obbligo dello Stato di perseguire i crimini contro l’umanità e che crede che il MJP sia un’ingiusta amnistia nei confronti della guerriglia.

Tuttavia credo che sia doveroso, in situazioni di conflitto come la nostra, rifarsi alla Giustizia Transizionale, pensare cioè ad una condizione di eccezionalità che permetta un esito positivo delle negoziazioni. È innegabile che il MJP prevede un alto grado d’impunità nei confronti della guerriglia. È sicuramente difficile stabilire quali siano le condizioni giuste e corrette nei confronti di tutte le parti in gioco, in questo caso guerriglia e vittime.

 

DD – Come lei ha affermato, il MJP potrebbe costituire un ostacolo sul cammino per la pace, a causa delle numerose critiche ricevute. A testimonianza ci sono le enormi difficoltà del Presidente presso la Corte Costituzionale. Ricordiamo che il Procuratore Alejandro Ordonez ha definito il MJP come “uno strumento che garantisce l’impunità a tutti i guerriglieri colpevoli di crimini di guerra”. Qual è quindi il suo giudizio del MJP rispetto ai diritti umani, all’impunità e alle vittime?

VE – È molto difficile stabilire un accordo rispetto al tema della giustizia per tutti. Le Farc non daranno facilmente il loro consenso senza un’adeguata protezione. Credo che sia necessario uno scenario politico di negoziazione nel quale sia prevista la Giustizia Transizionale, perché tutte le crisi umanitarie vengono e devono essere risolte con un certo grado di eccezionalità, riconoscendo che si tratta di una condizione politica non ordinaria. Tutti i Paesi che hanno vissuto una transizione post conflitto hanno utilizzato la Giustizia Transizionale. È inevitabile un processo che sacrifichi la giustizia in nome della verità. Per la pace occorre sacrificare qualcosa. Non è cinismo, è semplicemente sano realismo.

 

DD – Il MJP prevede anche la possibilità di un accesso alla politica per gli ex guerriglieri. Lei crede nella partecipazione politica democratica della guerriglia? Inoltre, se si firmerà un accordo di pace, l’ingresso di ex guerriglieri nelle politica del Paese provocherebbe quasi sicuramente la nascita di una nuova forza politica e sociale. Secondo lei quali potrebbero essere gli scenari futuri?

VE – Credo che sia assolutamente normale che la guerriglia desideri rivendicare il suo peso politico qualora scomparisse militarmente. È importante sottolineare che negli ultimi vent’anni le Farc e le guerriglie sono state accusate di aver perso il loro humus ideologico. Secondo molti nelle loro lotte non c’era più alcuna rivendicazione di natura ideologica, ma un militarismo che sconfinava nel terrorismo. Da qualche tempo la guerriglia si sta sforzando di recuperare il consenso politico.

Io non solo credo che sia più che evidente e logico che la guerriglia rivendichi, attraverso i negoziati, un futuro accesso al confronto politico civile, ma credo che sia positivo. Nonostante molti attriti, il movimento campesino e la guerriglia non hanno ideologicamente divorziato. È normale, dunque, che chiedano di poter accedere alla competizione politico democratica in cambio della deposizione delle armi. Il fatto preoccupante non è che loro chiedano di fare politica e che il MJP lo preveda.

Un gruppo armato, dopo 40 o 50 anni di lotta non vuole sparire a causa di un processo di pace. Occorre invece tenere presente l’impatto psicologico che potrebbe avere un possibile accesso alla politica da parte delle guerriglie. Voglio ricordare un precedente storico, che riguarda il primo tentativo di conversione politica della guerriglia, ovvero il caso dell’Unione Patriottica. Questo movimento politico fu sterminato, ferendo profondamente lo sforzo politico delle Farc. Inoltre, a differenza di altri gruppi armati, come l’M-19, le Farc hanno avuto e, nonostante tutto, hanno un discorso politico chiaro in materia di rivendicazioni contadine, in materia dell’uso della terra e dell’appartenenza della terra. Avevano indubbiamente un grande seguito politico nelle zone rurali, non sicuramente urbane. Tuttavia non darei per scontata una simpatia da parte degli agricoltori per le Farc e questo sottolineerebbe ancora di più la loro perdita di caratura ideologica nell’ultimo ventennio.

A questo si aggiunge che la società colombiana si sia abbastanza polarizzata. Le Farc possono ancora recuperare un consenso nelle zone rurali, anche se nelle elezioni, si sa, la differenza la fa la popolazione urbana.

Esiste quindi un motivo storico per cui le Farc mantengono un atteggiamento paranoico: esse sanno perfettamente che, qualora dovesse avvenire questo ingresso di ex guerriglieri nella politica, non sarà una transizione facile e indolore. Non si aspettano sicuramente un immediato esito politico positivo; anzi, probabilmente sarà lungo e faticoso, perché non hanno esperienza nel fare politica nel mondo civile.

 

DD – Parliamo ora delle relazioni con il Venezuela. Recentemente il Presidente Santos ha incontrato il presidente venezuelano, Nicolas Maduro, per rilanciare la partnership tra i due paesi. Il Venezuela può ancora aspirare a giocare un ruolo rilevante nel processo di pace?

VE – Credo che all’epoca di Chavez, il Venezuela avesse la possibilità di giocare un enorme ruolo come facilitatore e mediatore all’interno del processo di pace colombiano. Sarebbe stata anche un’occasione per consolidare le relazioni con la Colombia, che erano state burrascose per molto tempo durante l’amministrazione Uribe.

Con la transizione venezuelana, quindi morte di Chavez e elezione di Nicolas Maduro, il ruolo del Venezuela si è notevolmente ridotto, anche come attore in Sudamerica. In questo momento storico il governo venezuelano è molto instabile e molto debole. Maduro non è riuscito e non riuscirà a consolidarsi come guida nella regione, e in questo caso non giocherà un ruolo importante nel processo di pace colombiano.

Tuttavia è innegabile che i negoziati e le mediazioni tra Venezuela e Colombia devono esistere da un punto di vista commerciale. Oltre a condividere degli interessi commerciali i due Paesi condividono un grande universo culturale. Da un punto di vista socio-commerciale, perciò, è importante che i due Paesi mantengano buone relazioni; tuttavia non credo che la Colombia abbia intenzione, in questo momento, di rafforzare i rapporti con il Venezuela. Quello che vedo è che il Presidente Santos sta cercando di diversificare gli alleati commerciali, proprio perché in Colombia si sta diffondendo la preoccupazione per la instabilità in Venezuela. La diversificazione è anche una forma di protezione, come nel caso dell’Alleanza del Pacifico. Anche per questo Santos sta affrontando un momento di transizione per quanto riguarda la strategia commerciale internazionale: sta cercando nuovi alleati, a nord, con gli USA, ma soprattutto nell’Asia.

 

DD – Da un punto di vista ideologico, le nuove integrazioni commerciali, come l’Alleanza del Pacifico, significano un voltare le spalle al Venezuela?

VE – Non credo che vi siano fattori ideologici. Credo che il comportamento di Santos a livello sudamericano sia dettato solamente da degli interessi macroeconomici. È un tentativo di sfruttare opportunità che a causa dell’ideologia di altri paesi non si riuscirebbero a cogliere. Però non credo che le nuove alleanze o partenariati commerciali della Colombia debbano considerarsi da un punto di vista ideologico. Probabilmente, se vogliamo essere puntigliosi, la Colombia sta cercando, attraverso un progressivo avvicinamento ad altri paesi, di apparire diversa sotto il profilo dei diritti umani: stringere relazioni con paesi come il Venezuela, potrebbe danneggiare l’immagine internazionale colombiana.

 

DD – Come vede le elezioni del 2014?

VE – È difficile fare questo tipo di previsioni. Il governo di Santos ha vissuto in un momento di trasformazione dell’opinione pubblica, che nei primi anni del 2000 era per la maggioranza uribista. Durante questi anni di governo il fenomeno Uribe e la mentalità uribista si è indebolita e da un punto di vista politico, moderata. La tendenza generale è che in Colombia la popolazione, ma anche le classi dirigenti, abbiano ricercato un’opzione differente dall’estrema destra, spostandosi verso il centro-moderato. Credo che Santos stia cercando di presentare un’opzione politica neoliberale, più moderata e non estremista come il suo predecessore.

Il governo di Santos ha sicuramente un maggiore consenso nei settori della popolazione più urbana, quindi presso una classe medio-alta. Riscontra però enormi difficoltà nei settori meno abbienti, più popolari e rurali, soprattutto a causa del tema economico.

Credo tuttavia che vi siano delle prospettive positive per Santos per quanto riguarda le prossime elezioni: Santos è ben piazzato in termini dell’accettazione e consenso generale. Certo è che non è per niente apprezzato da quei settori sociali che stanno prendendo nuovamente forza nel paese, come gli agricoltori e i movimenti indigeni. Tuttavia, questi ultimi, non sono settori che si rivelano determinanti al momento delle elezioni: quasi tutti i presidenti colombiani sono stati eletti perché hanno ricevuto il beneplacito dalla classe medio alta, delle classi urbane.

 

*Davide Delaiti, laureato in Studi Internazionali presso l’Università di Bologna, Facoltà di Scienze Politiche

 

(1) Valeria Eberle è politologa e professoressa di Scienza Politica presso la facoltà di Diritto e Scienze Sociali dell’università ICESI di Cali, dove tiene il corso “Violencia y Conflicto en Colombia”. Precedentemente ha insegnato Storia del Pensiero Politico e Scienza Politica presso l’Universidad Autónoma de Occidente e presso l’Universidad Tecnologica de Bolivar. Il suo campo di ricerca si focalizza sulle dinamiche conflittuali che hanno caratterizzato e caratterizzano Colombia. Ha coordinato il progetto governativo “Memoria, Territorio y Comunicación” che si focalizzava sulla ricerca dei danni provocati dal conflitto colombiano Governo-Farc.

 

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LA “GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO” RECENSISCE UN LIBRO DI ALEKSANDR DUGIN

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La “Gazzetta del Mezzogiorno” recensisce un libro di Aleksandr Dugin.
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“FARE IMPRESA NEL CAUCASO”, IL 4 OTTOBRE A PIACENZA

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Progetto “Fare Impresa nel Caucaso”, venerdì 4 ottobre 2013, ore 9.30 – 17.30 a Piacenza.

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ALCUNE NOVITA’ MEDIATICHE SULLA “CRISI SIRIANA”

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All’indomani della “veglia di preghiera e digiuno” indetta dal Papa per scongiurare, con le ‘armi spirituali’ di cui dispone, il pericolo di una guerra mondiale che potrebbe innescarsi con un intervento militare occidentale in Siria, e mentre l’America fatica a trovare consenso ed alleati per questa sua ennesima “liberazione” dettata – tanto per cambiare – da ragioni squisitamente “morali”, si delinea sempre più chiaramente, a livello mediatico, un’inversione di tendenza o quantomeno un riequilibrio del modo di presentare la cosiddetta “questione siriana”, il che si sta traducendo in una “offerta informativa” più variegata rispetto a quella, a senso unico pro “ribelli”, propostaci sulla Siria da un paio d’anni a questa parte.

Su Rainews24, solitamente schierata per tutte le cause occidentali secondo la retorica dei “diritti umani” (minoranze, donne, gay ecc.), sono comparse le corrispondenze da Damasco di Gian Micalessin, che scrive su “Il Giornale” gli articoli più filogovernativi (siriani) pubblicati sulla stampa a grande diffusione. Micalessin non è certo un giornalista con credenziali “di sinistra”, tutt’altro, il che aumenta lo stupore nel vederlo su Rainews24 (una specie di ammiraglia del Tg3, feudo inespugnabile del PCI-PDS-DS-PD); ma purtroppo – non si sa se per disinformazione sua o perché quelli sono i paletti che gli hanno imposto per portare nelle case degli italiani alcune “scomode verità”- egli presenta lo scontro in atto nel paese vicino-orientale entro lo schema, peraltro non nuovo, dei “cristiani massacrati dai musulmani”; il che non è esatto, se per “Islam” tout court s’intende l’interpretazione datane dai petromonarchi e dalla loro internazionale di “saraceni dello Zio Sam” o “jihadisti atlantici di servizio”.

In Siria ci sono infatti anche molti musulmani praticanti (e non solo “anagrafici”, quindi) dalla parte del governo o che comunque non sono dalla parte dei “ribelli” (avendo magari preferito delle “riforme” dell’attuale sistema); ma essi rappresentano un Islam più “tradizionale”, più profondo e più “mistico”, e perciò più aderente allo spirito del messaggio originario, perché può vantare un ricollegamento effettivo con la Fonte da cui promana lo Spirito, rispetto alle semplificazioni sconcertanti che girano nella testa del ‘jihadista medio’. Tra l’altro, questo tipo di lettura del Corano e della tradizione profetica islamica, estremamente semplificata e, va detto, sempre più diffusa tra le masse islamiche stesse, ricorda l’istupidimento di quelle occidentali negli anni Settanta, quando “tutti” facevano a gara a chi era più “proletario”, “operaista”, marxista-leninista eccetera, in una delirante gara a chi era più estremista e col logico corollario della violenza verso coloro che non erano d’accordo (elementi di sinistra compresi, considerati “deviati” e “revisionisti”).

Ciò premesso, e sottolineato che è solo un bene che la tv pubblica dia spazio ad una voce e ad una versione sin qui silenziate (come se in Siria “tutti” – tranne gli alawiti ed cristiani – fossero contro il governo, il che è palesemente assurdo, non fosse che per una questione meramente numerica), è evidente da questi servizi di Gian Micalessin, proposti ad un vasto pubblico, che esiste un notevole mal di pancia all’interno dell'”alleato” italiano… Si tratta infatti – come denunciato dallo stesso Micalessin – di una perdita secca in termini energetici e di mercato se la Siria va in mano agli amici wahhabiti e salafiti degli angloamericani e dei sionisti.

Quanto ai loro amici nostrani – che certo non mancano -, a fare da contraltare a Micalessin che ci parla di Maalula, cittadina a maggioranza cristiana dove ancora si parla l’aramaico e che ho avuto la fortuna di visitare da turista solitario una quindicina d’anni fa, trovandomi, con mia grande sorpresa e felicità, ospite a pranzo di una famiglia locale cristiana e parlante aramaico, vi sono le sempre stupefacenti corrispondenze di Claudio Pagliara, che è riuscito a mostrarci dei feriti siriani curati in… Israele (!), i quali (col volto nascosto alla telecamera), promettevano solennemente che al loro ritorno in patria avrebbero decantato le lodi dello “Stato ebraico”! Tuttavia, in mezzo ad immagini edificanti nelle quali si vedevano gli immancabili infermieri-pagliacci che allietavano le giornate dei degenti siriani, Pagliara non ci ha spiegato perché il così compassionevole “Stato ebraico” non avesse provveduto anche alle cure delle vittime palestinesi delle bombe israeliane al fosforo bianco!

Dunque, meno male che, oltre a Pagliara, adesso il pubblico a casa può anche ascoltare Micalessin. Eppure, sebbene stia emergendo anche mediaticamente una presa di coscienza che la caduta del governo siriano sarebbe un tracollo per gli interessi italiani, il modo di presentare il tutto non è ancora quello giusto.

E non mi riferisco a questioni di dettaglio, bensì di sostanza del discorso che la gente minimamente interessata dovrebbe capire.

Con la distruzione della Siria vi è difatti il concreto rischio (suffragato da quanto già avvenuto in Iraq e, decenni prima, in Arabia) che un Islam “tradizionale”, quello delle turuq, le vie iniziatiche che traggono legittimità da catene ininterrotte di Maestri che risalgono fino al Profeta dell’Islam, scompaia dalla scena per lasciare il posto ad un Islam dalla “pietà” tutta scenografica, il quale, tanto per dirne una (ma l’elenco è lunghissimo), permette la costruzione d’un gigantesco orologio in stile “Big Ben” accanto alla sacra Ka’ba… Un’interpretazione che, nella sua furia di escludere per decreto il soprannaturale dall’esperienza religiosa dei credenti, non fa che preparare un inaridimento che preannuncia la fine stessa dell’Islam, così com’è successo ovunque le correnti più antimetafisiche si sono imposte.

Adesso un cristiano potrebbe disinteressarsi di tutto ciò, e pure goderne. Ed invece farebbe malissimo, perché, se quella “convivenza” tra differenti religioni è stata così viva ed operante per secoli (dunque non aveva un estremo bisogno delle “iniziative” di Padre Dall’Oglio), ciò lo si deve anche al fatto che nelle terre a maggioranza musulmana – e nello specifico in Siria – vi è sempre stato un rispetto profondo per tutti i “santi” e le istituzioni da essi fondate, che hanno rappresentato quell’humus che ha permesso, anche nel quotidiano (com’è riscontrabile in altre realtà, in India, ad esempio), la vicinanza e addirittura la condivisione spirituale tra “diversi”, tutti sotto questo stesso Cielo…

Per chi non crede che tutto si risolva in faccende strettamente “terrene”, la partita si gioca essenzialmente su questo piano. Ovvio che tutte le altre chiavi di lettura sono valide e spiegano parzialmente le dinamiche in atto; tuttavia, per orientarsi nell’intera “questione mediorientale” e perciò anche in quella siriana, è necessario comprendere che il pericolo non è rappresentato dall’Islam, bensì dalla sua deviazione razionalistico-letteralista, da sempre presente in ogni religione, ma provvidenzialmente sin qui tenuta ancora in parte a freno. Forse, colmo dello ‘scandalo’, proprio da certi cosiddetti “regimi laici” che non hanno mai incoraggiato il laicismo e la corrispondente visione del mondo, tanto per fare una precisazione necessaria.

D’altra parte non si possono spiegare altrimenti certe “inspiegabili” alleanze di ferro tra i fautori del progetto di “occidentalizzazione del mondo” e gli “ultraconservatori islamici”, che in realtà, ad un’attenta disamina della loro ideologia, non “conservano” un bel niente ma, anzi, apportano continue innovazioni, senza timore di scadere in palese contraddizione, visto che proprio loro accusano continuamente l’Islam tradizionale – ovvero quattordici secoli di storia e di elaborazione dottrinale – di “innovazione” eretica!

Non comprendere questo espone a gravi rischi interpretativi della situazione in corso; il primo rischio che si corre consiste nell’abboccare ad una propaganda, sempre pronta a riattivarsi al massimo dell’intensità, che dipinge lo scontro in atto come quello tra “l’Occidente (giudeo-) cristiano” e l’Islam, che è quanto di più falso si possa immaginare.

Postilla: proprio mentre scrivo queste note, giunge la notizia della liberazione del giornalista de “La Stampa” Domenico Quirico, il quale, afferma che “è un dovere morale” – sulla base di informazioni reperite durante la prigionia nelle mani dei “ribelli” – far sapere a tutti che “non è stato al-Asad ad aver usato le armi chimiche”. Il risalto dato a queste parole sia dall’Ansa che da Rainews24 conferma che è in atto, se non un ripensamento generale al riguardo della “alleanza atlantica”, quanto meno un riposizionamento italiano nei confronti della “questione siriana”.

 

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QUALE UNIONE PER L’UCRAINA?

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L’Ucraina fa parte dell’Occidente o è un Paese fratello del Cremlino? Il suo posto è nell’Unione Europea o in quella Eurasiatica? Entrambe le ipotesi sono corrette e, nel contempo, non lo è nessuna delle due. L’Ucraina, infatti, rientra pienamente nel novero di quelli che il politologo statunitense Samuel Huntington definisce “Paesi divisi”, ossia “nazioni che presentano ampi raggruppamenti sociali appartenenti a civiltà diverse”[1]. Il Paese, infatti, è tagliato in due dalla linea di demarcazione tra Occidente e area russo-eurasiatica. Le regioni centrali, meridionali e orientali del Paese sono di fede ortodossa, hanno partecipato attivamente alle vicende storiche dell’Impero Russo prima e dell’Unione Sovietica poi e, non ultimo, dato i natali ad alcuni dei mostri sacri della letteratura russa: basti pensare a Nikolaj Gogol’, Michail Bulgakov (l’autore de Il Maestro e Margherita), Anna Achmatova e al duo Il’f e Petrov. Ben diversi sono stati i fati dell’Ucraina occidentale, incentrata attorno alla città di Leopoli (in ucraino L’viv), prevalentemente uniate[2] e culturalmente occidentalizzata. In questa regione, nel corso della cui storia si sono avvicendati la Polonia e l’Impero Austro-Ungarico, gli Ucraini svilupparono un’identità ben precisa e nell’Ottocento vide la luce il nazionalismo ucraino. Fu proprio in quest’epoca che, in una Leopoli che allora si chiamava Lemberg ed era una città cosmopolita ma dove gli Ucraini parlavano ucraino, fu per la prima volta eseguito l’attuale inno nazionale ucraino (Šče ne vmerla Ukrajini). L’Ucraina occidentale conobbe la dominazione sovietica solo negli anni Quaranta, e l’impatto della russificazione linguistica è stato limitato, laddove l’est e il sud del Paese e la stessa capitale Kiev sono fortemente russificati, mentre nell’Ucraina centrale è abbastanza diffuso il suržik, un pidgin che mescola russo e ucraino. Ucraini occidentali e orientali sono molto diversi nella cultura, nelle aspirazioni e nella mentalità, e i confini tra Ucraina occidentale e orientale, per quanto difficili da tracciare, sotto vari aspetti hanno un’importanza di gran lunga maggiore di quelli che separano Ucraina e Russia.

Quello dei rapporti russo-ucraini è un tema molto complesso e difficile da affrontare in un singolo articolo. Già nei primi anni della sua indipendenza, comunque, emersero ben chiari due elementi che caratterizzano tutt’ora la vita del Paese. Il primo è la forte polarizzazione culturale e geografica del Paese tra ovest ed est, che emerse in tutto e per tutto già nelle elezioni del 1994, quando il primo Presidente Leonid Kravčuk, tendenzialmente nazionalista anche se non antirusso, fu sconfitto di misura dal filorusso Leonid Kučma[3]. Il secondo, che in parte è una conseguenza del primo, riguarda una certa ritrosia da parte dei quadri dirigenti a partecipare al processo di integrazione (o meglio di reintegrazione) eurasiatica, a cui fa da contrappeso l’enorme difficoltà incontrata dai dirigenti filoeuropei nel dare un’immagine “europea” all’Ucraina, specie agli occhi degli Europei. A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, soprattutto grazie alla spinta del presidente kazaco Nursultan Nazarbaev, alcuni Paesi ex-sovietici hanno sottoscritto accordi e dichiarazioni di intenti finalizzati all’avvio di un processo di reintegrazione economica nell’area eurasiatica: i più importanti furono la creazione di un’area di libero scambio tra Russia, Bielorussia e Kazakhstan, avvenuta nel 1996[4], e l’istituzione della Comunità Economica Eurasiatica, meglio nota come EurAsEC, nel 2000. Nessuno di questi, però, vide la partecipazione dell’Ucraina, che si limitò a chiedere lo status di osservatore nell’EurAsEC e che anzi scelse di creare un’organizzazione dalla velata accezione antirussa assieme a Georgia, Azerbaigian e Moldavia, ossia il GUAM (Organizzazione per la Democrazia e lo Sviluppo Economico). Nel 2003, però, l’Ucraina prese parte agli Accordi di Novo-Ogarëvo, finalizzati alla creazione di un mercato unico tra Russia, Bielorussia, Ucraina e Kazakhstan[5]. La partecipazione del più popoloso tra i Paesi ex-sovietici dopo la Russia al processo di reintegrazione eurasiatica fu senza dubbio un fatto significativo, soprattutto perché avrebbe consentito al mercato comune eurasiatico di superare quella soglia dei 200 milioni di abitanti che, secondo alcuni esperti, rappresenta la soglia minima per l’autosufficienza di un mercato sovranazionale[6].

Al pari di molti accordi sottoscritti in questi anni, però, quelli di Novo-Ogarëvo furono poco più di una dichiarazione di intenti, e nella prassi lo Spazio Economico Unico (SEU) divenne realtà solo nel 2012 (due anni dopo la nascita dell’Unione Doganale di Russia, Bielorussia e Kazakhstan) e senza l’Ucraina. La quale, a seguito della Rivoluzione Arancione e della vittoria elettorale del filoccidentale Viktor Juščenko nel 2004, cambiò decisamente rotta e chiese l’adesione alla NATO e all’Unione Europea. L’Ucraina post-Rivoluzione Arancione sembrava fin troppo entusiasta all’idea di poter entrare in quello che sembrava un faro verso la modernità e l’indipendenza, ma gli alti burocrati di Bruxelles non erano dello stesso avviso. Günter Verheugen, già Commissario Europeo per l’Allargamento, interrogato sul tema all’indomani della Rivoluzione Arancione, ha affermato: “Se lo scopo dell’Unione fosse la diffusione nel mondo della democrazia, della legalità, dei diritti dell’uomo e del rispetto delle leggi, dovremmo proporre l’affiliazione all’UE ovunque questi valori non vengono osservati a sufficienza. E’un’idea logica, ma falsa. Il nostro problema non è come estendere la democrazia e il rispetto delle leggi, bensì cosa si trova nell’interesse degli Europei”[7]. In altre parole: l’Ucraina, almeno nel breve termine, non sarebbe diventata un Paese dell’Unione Europea, e per vari motivi. Alcuni di questi erano le difficoltà economiche che facevano dell’Ucraina un Paese povero rispetto agli standard europei, a dispetto delle sue potenzialità, la conseguente paura di un esodo di Ucraini verso l’Europa centro-occidentale, i problemi legati all’effettività dello Stato di diritto, tanto in tema di libertà democratiche quanto di economia, e le forti divisioni interne al Paese. Un problema basilare, per quanto sottaciuto, era però quello dell’incompatibilità dell’Ucraina, o perlomeno di buona parte della stessa, con i valori occidentali. L’Unione Europea, sebbene tenda ad autodefinirsi su criteri geografici, è di fatto un circolo di Paesi occidentali, i quattro Paesi non occidentali della stessa (Grecia, Cipro, Romania e Bulgaria) sono nazioni piccole o non pienamente integrate nelle strutture comunitarie, e una delle ragioni principali della mancata annessione della Turchia all’UE, per quanto pronunciata in sordina, è proprio il suo essere uno Stato musulmano, sebbene ufficialmente laicizzato. Se l’Ucraina fosse composta dalle sole Volinia, Galizia e Transcarpazia[8], culturalmente occidentali e quindi maggiormente predisposte all’adozione di principi quali la democrazia e lo Stato di diritto (al pari, peraltro, dei Paesi ex-comunisti dell’Europa centrale che attualmente fanno parte dell’UE) e nel contempo più propense ad affrontare sacrifici pur di separarsi dall’orbita del Cremlino, probabilmente il Paese sarebbe entrato nell’UE già nel 2004, ma l’Ucraina è composta anche da regioni come la Crimea e il Donbass che con la Catalogna o la Baviera hanno ben poco a che fare. In questi anni, comunque, si è avuto un rafforzamento della cooperazione tra Bruxelles e Kiev: i visti turistici tra Ucraina e UE sono stati aboliti, nel 2009 il Paese ha aderito al Partenariato Orientale assieme ad altri cinque Paesi dell’ex Unione Sovietica (Bielorussia, Moldavia, Georgia, Armenia e Azerbaigian) e già si iniziava a parlare di un Accordo di Associazione[9]. Ciò però non ha evitato alla filoeuropea Julija Timošenko, all’epoca Primo Ministro e pasionaria della Rivoluzione Arancione, la sconfitta alle presidenziali del 2010 da parte di Viktor Janukovič, il cui Partito delle Regioni, che unisce un orientamento filorusso al riconoscimento delle differenze tra le varie regioni del Paese in contrapposizione al nazionalismo dei partiti filoeuropei, era in ascesa già da alcuni anni.

Il nuovo presidente, pur non rinunciando alla prospettiva europea, si orientò verso un rafforzamento dei legami con la Russia e i Paesi dell’ex Unione Sovietica. Nel 2011 l’Ucraina ha aderito alla CISFTA, l’area di libero scambio dei Paesi della CSI, e più volte Janukovič ha espresso la sua intenzione di rafforzare l’integrazione economica con il trio eurasiatico, sebbene sulla forma dell’integrazione non siano mancate le divergenze. Nel dicembre del 2012, infatti, Janukovič ha annunciato che l’Ucraina avrebbe gradualmente aderito alle regole dell’Unione Doganale secondo un formato “3+1”. Ciò avrebbe consentito all’Ucraina di accedere ai mercati della stessa e, nel contempo, di sottoscrivere il tanto sospirato accordo di associazione con l’Unione Europea. Quella del “3+1” era forse la scelta ottima per Kiev, in quanto gli avrebbe garantito l’accesso sia ai mercati europei sia a quelli eurasiatici, risolvendo nel contempo l’annoso problema dell’autoidentificazione del Paese che si sarebbe così potuto presentare come un ponte tra Russia ed Europa. Per Bruxelles, però, l’adesione all’Unione Doganale Eurasiatica è incompatibile con l’accordo di associazione con l’UE, in quanto la prima prevede una tariffa comune con i Paesi terzi[10]. Un eventuale accordo di un libero scambio andrebbe quindi sottoscritto anche con Russia, Bielorussia e Kazakhstan. Fallita l’ipotesi del “3+1”, l’Unione Doganale ha proposto a Kiev di osservare i lavori della stessa, in modo da potere, in un secondo momento, prendere una decisione definitiva. L’Ucraina ha ottenuto lo status di Paese osservatore nell’Unione Doganale e nel SEU il 31 maggio 2013[11].

Tuttavia resta l’incognita circa l’accordo di associazione con l’Unione Europea, la cui stipula, prevista nel vertice del Partenariato Orientale di Vilnius del 28 e del 29 novembre 2013, è tutt’altro che certa. Le autorità comunitarie, infatti, hanno vincolato la sottoscrizione dell’accordo alla liberazione della Timošenko, condannata a sette anni di carcere per abuso d’ufficio (sentenza che, specie in Occidente, viene ritenuta dettata da motivazioni politiche) e all’approvazione di alcune riforme in materia di giustizia e di libertà democratiche. A luglio si vedeva molto poco di tutto ciò[12]; due mesi dopo qualcosa sembra essere cambiato, ma non senza contraddizioni. Il 5 settembre, infatti, la Verchovna Rada, il Parlamento ucraino, ha approvato alcune delle riforme richieste dall’Unione Europea, tra cui una sui diritti dei detenuti, poste da Bruxelles come precondizioni per la stipula dell’Accordo di Associazione[13], ma rimane il nodo della Timošenko. Il 6 settembre, infatti, all’ex Primo Ministro è stata negata la possibilità di ricorrere nuovamente alla Corte Suprema contro la sua condanna[14]. Lo scopo, comunque, rimane quello di “tenere due piedi in una scarpa”. Janukovič ha affermato che “la cooperazione con l’Unione Europea e quella coi nostri partner strategici, ossia la Russia e i Paesi della Comunità Economica Eurasiatica, non sono incompatibili”, e il Primo Ministro Mykola (in russo Nikolaj) Azarov ha sottoposto al Consiglio dei Ministri una serie di provvedimenti per adeguare i dazi esterni e i regolamenti tecnici dell’Ucraina a quelli dell’Unione Doganale”. Ma non tutti, nel Partito delle Regioni attualmente al potere, sono d’accordo con la via europea, propendendo invece per l’ingresso nell’Unione Doganale. Uno di loro ha affermato che “se noi non abbiamo trovato una lingua comune con l’Europa in cinquecento anni, molto difficilmente la potremmo trovare oggi”, ricordando come l’Ucraina sia stata spesso aggredita dalle potenze europee e si sia difesa con l’aiuto di Russia e Bielorussia, mentre un altro ha affermato che la maggioranza dei regionali non supporta i provvedimenti legislativi necessari per la sottoscrizione dell’Accordo di Associazione[15]. Petro Symonenko (in russo Pëtr Simonenko), il sempiterno leader del Partito Comunista Ucraino, ha persino minacciato di non sostenere la candidatura di Azarov a Primo Ministro qualora questi non avesse messo sul tavolo la carta dell’adesione del Paese all’Unione Doganale[16]. Qualcuno ha persino proposto la scelta di Kiev come capitale dell’Unione Eurasiatica, in virtù della sua enorme importanza nella storia di Russi, Ucraini e Bielorussi (la città è stata capitale della Rus’di Kiev, la prima organizzazione statale degli Slavi Orientali)[17]. Di tutt’altro avviso è invece il partito Bak’tivščyna (Patria) della Timošenko, che ha presentato un disegno di legge sulla rescissione degli accordi del 2003 sul SEU)[18].

La Russia, chiaramente, cerca di attrarre a sé l’Ucraina. Per Kiev il più importante stimolo è senza dubbio la possibilità di pagare il gas russo ai prezzi sovvenzionati riservati ai membri dell’Unione Doganale, che consentirebbe al Paese di risparmiare ben 8 miliardi di dollari l’anno[19]. Altri riguardano la bilancia commerciale. L’impatto immediato della sottoscrizione dell’Accordo di Associazione, per l’Ucraina, sarebbe negativo: i suoi prodotti, soprattutto nell’industria leggera e alimentare, non sono competitivi nel mercato europeo, e numerose aziende sarebbero condannate alla chiusura[20]. In più c’è la questione dell’agricoltura, uno dei settori più protetti del mercato europeo: le esportazioni ucraine di prodotti agricoli, infatti, sarebbero sottoposte a quote massime anche a seguito della stipula dell’Accordo di Associazione[21]. Alcune stime della Banca Eurasiatica per lo Sviluppo affermano che, se l’Ucraina dovesse scegliere l’accordo di libero scambio con l’Unione Europea, la sua bilancia commerciale subirebbe un peggioramento del 5%, sia a causa dell’aumento delle importazioni dall’Unione Europea sia per il calo delle esportazioni verso il trio eurasiatico, a cui sono attualmente destinate la maggioranza delle stesse, mentre qualora dovesse optare per l’Unione Doganale il suo PIL, nel 2011 pari a 165 miliardi di dollari, fino al 2030 registrerebbe un incremento di ben 219 miliardi (mantenendo il livello dei prezzi del 2010)[22]. La Russia, poi, cerca di allontanare lo stereotipo della ricostruzione dell’Unione Sovietica sotto altre forme sottolineando come, nella Commissione Economica Eurasiatica, l’organo che gestisce gli affari relativi all’Unione Doganale e al SEU, ogni componente dispone di un singolo voto; almeno in teoria, quindi, già oggi Bielorussia e Kazakhstan possono fare approvare una decisione a cui la Russia è contraria[23]. Un ultimo stimolo proviene dalla possibilità di trattare con l’Unione Europea da una posizione più forte; secondo la Russia, scegliere l’Eurasia non implica rinunciare all’Europa, ma semplicemente poter entrare dalla porta principale[24]. L’idea di un “mercato unico da Lisbona a Vladivostok” è senza dubbio il più ambizioso progetto di Putin in tema di politica estera, ma allo stato attuale sembra quasi utopistico: è in fase di negoziazione un accordo di libero scambio tra l’Unione Doganale e l’EFTA[25], ma non con l’Unione Europea, che anzi oggi è più che mai atlantista, come dimostrato dall’avvio delle trattative per il TAFTA, un’area di libero scambio tra USA e UE, e dall’allineamento alle posizioni americane su molti temi di politica estera.

La strategia russa, però, è fatta di bastone e carota. Uno dei maggiori timori della Russia è quello che, a seguito della stipula del trattato di libero scambio tra Bruxelles e Kiev, i Paesi dell’Unione Doganale Eurasiatica subiscano un’invasione di prodotti ucraini che non trovano più mercato in Ucraina a causa della concorrenza delle merci provenienti dai Paesi UE, più economiche e/o di qualità migliore ma che sui mercati del trio eurasiatico avrebbero prezzi più alti per via dei dazi. “Sono sicuro che sia il Kazakhstan sia la Bielorussia chiederanno la reintroduzione delle barriere doganali”, ha affermato Putin[26]. E’probabile, quindi, che la sottoscrizione dell’Accordo di Associazione sarà seguita da un netto peggioramento dei rapporti tra il Cremlino e la Bankova: il consigliere del Presidente russo Sergej Glaz’ev, ad esempio, ha accennato alla possibilità di una soppressione del regime di libero scambio tra l’Unione Doganale e l’Ucraina[27]. Già nell’agosto appena passato c’è stata una piccola guerra commerciale tra Russia e Ucraina, la cosiddetta “guerra del cioccolato”. In risposta all’introduzione di un dazio di salvaguardia sulle importazioni di auto straniere deliberato da Kiev, che colpisce soprattutto i produttori russi e che è stato condannato anche dall’Unione Europea in quanto non corrispondente alle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, che consentono l’introduzione di dazi di salvaguardia soltanto qualora le importazioni rischiano di pregiudicare seriamente la produzione nazionale[28], la Russia ha annunciato l’introduzione di dazi sulle importazioni di carbone, cioccolato e vetro dall’Ucraina; ma, soprattutto, ha bloccato le importazioni di cioccolatini Roshen, una delle principali aziende dolciarie del Paese, a causa della scoperta di sostanze cancerogene[29]. Una mossa che i Russi hanno pianificato con cura (un blocco delle importazioni di prodotti Roshen porterebbe a perdite pari a circa 200 milioni di dollari[30]), ma che si è rivelata un boomerang: il Kazakhstan e la Bielorussia non hanno adottato il divieto di importazioni in quanto la loro quantità è stata definita “non pericolosa”[31], l’Unione Europea si è schierata dalla parte di Kiev[32] mentre quest’ultima, come abbiamo già visto, una volta ripresi i lavori parlamentari si è subito adoperata per fare approvare alcune delle misure richieste da Bruxelles. Che, forse, pur di “salvare” l’Ucraina dalla Russia sarà disposta anche ad accettare il bicchiere mezzo vuoto e a considerarlo mezzo pieno.

Qual è il futuro dell’Ucraina? La stipula dell’Accordo di Associazione risulta ancora incerta, ma le probabilità sono senz’altro maggiori rispetto anche solo a due mesi fa. L’Ucraina interessa a Bruxelles soprattutto per prevenire un ritorno in forze della Russia nell’Europa orientale; d’altro canto, a Mosca serve Kiev non meno di quanto a Kiev serve Mosca. Pur essendo un Paese tendenzialmente povero (il suo PIL complessivo è più basso di quello del Kazakhstan, pur avendo un numero di abitanti superiore di quasi tre volte), vanta un ricco potenziale economico e soprattutto un mercato interno di oltre 45 milioni di persone. Piuttosto pochi per un’Unione Europea che già ha oltre 500 milioni di abitanti, ma non per un’Unione Doganale di 170 milioni di persone. L’adesione di Kiev all’Unione Doganale, poi, potrebbe essere uno stimolo per un ulteriore allargamento della stessa a Paesi come l’Uzbekistan, oltre che rafforzare la sua forza nel panorama internazionale. Ma, a legare l’Ucraina a doppio filo con la Russia, c’è anche la questione del gas e dei gasdotti. Le nuove condotte che collegheranno, o che già collegano, la Russia con l’Europa occidentale bypassando l’Ucraina (North Stream, Jamal – Europa 2, South Stream e Blue Stream) ridurranno di molto il potere contrattuale di una Kiev già indebitata con Gazprom per 7 miliardi di euro, spingendola così ad affrontare un compromesso[33]. C’è poi il ruolo dei rapporti commerciali russo-ucraini: il 30% delle esportazioni ucraine sono dirette verso il Cremlino, e per i prodotti ortofrutticoli questa quota sale all’80%[34]. Importanti, malgrado le proporzioni più basse, sono anche gli scambi con Bielorussia e Kazakhstan. Il Paese, quindi, si trova nella difficile situazione di non poter rinunciare né all’Europa né all’Eurasia, non potendo però appartenere a nessuna delle due. E la recente decisione di Janukovič di delegare ad un referendum la scelta finale tra Europa ed Eurasia dimostra la volontà del governo di disimpegnarsi da un tema così scottante e divisivo[35].





[1] S.P. Huntington, Lo Scontro delle Civiltà e il Nuovo Ordine Mondiale, Garzanti, Milano, 1997, p. 197.

[2] Gli Uniati, o Greco-cattolici, sono i Cattolici che, pur seguendo la liturgia bizantina, propria della Chiesa ortodossa, riconoscono l’autorità e la teologia del Papa di Roma.

[3] S.P. Huntington, Op. cit., p. 240.

[4] J. V. Kosov e A. V. Toropygin, Sodružestvo Nezavisimych Gosudarstv, Aspekt Press, Mosca, 2009, p. 63.

[5] Ivi, p. 60.

[8] La Volinia, la Galizia e la Transcarpazia sono le tre regioni più occidentali dell’Ucraina. La Galizia ucraina non va confusa con l’omonima regione della Spagna occidentale.

[9] Un Accordo di Associazione è un trattato sottoscritto tra l’Unione Europea e Paesi terzi che prevede la liberalizzazione degli scambi su alcuni o tutti i prodotti per quegli Stati in cambio dell’adempimento di determinati standard in materia di democrazia, libertà economiche e personali e Stato di diritto.

[19] R. Dragneva e K. Wolczuk, Russia, the Eurasian Customs Union and the EU: Cooperation, Stagnation or Rivalry?, Chatham House, Londra, 2012, p. 11.

[21] R. Dragneva e K. Wolczuk, Op. cit., p. 10.

[22] Ibidem.

[23] Ivi, p. 6.

[24] Ivi, p. 12.

[25] http://www.ved.gov.ru/news/7829.html (Nota: l’EFTA, o Associazione Europea di Libero Scambio, è composta da Norvegia, Islanda, Svizzera e Liechtenstein)

[26] R. Dragneva e K. Wolczuk, Op. cit., p. 11.

[28] R.C. Feenstra e A. M. Taylor, Economia Internazionale, Hoepli, Milano, 2008, p. 300

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LE FORZE ARMATE DELL’EGITTO

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La struttura dei comandi dell’esercito egiziano è articolata nello Stato Maggiore di Cairo, guidato dal  Tenente-Generale Sadqi Sobhi, che controlla quattro regioni militari (Alessandria, Suez, Marsa Matruh e Assiut) da cui dipendono in tutto 20 centri comando e controllo operativi regionali, a cui sono assegnate in totale tre armate e 9 corpi d’armata. Quindi, l’esercito egiziano schiera 4 divisioni corazzate, 1 divisione corazzata della Guardia Repubblicana, 4 brigate corazzate indipendenti, 8 divisioni di fanteria meccanizzata, 4 brigate di fanteria meccanizzata indipendenti, 2 brigate di fanteria indipendenti, 1 brigata aeromobile, 1 brigata aerotrasportata, 8 reggimenti delle Forze Speciali, 15 brigate di artiglieria pesante, 2 brigate mortai pesanti, 6 brigate missili anticarro, 2 brigate missili tattici, 6 brigate del genio, 24 battaglioni di polizia militare e 20 battaglioni della guardia di frontiera. In tutto si tratta di una forza di 468.500 effettivi, cui aggiungere almeno un milione di riservisti.

L’esercito egiziano è equipaggiato con armi di diversa provenienza: Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Cina, URSS, Turchia e Italia, nonché di produzione locale. L’arsenale egiziano comprende:

 

Carri armati (MBT) 

1130 M1 Abrams di progettazione statunitense, ma in gran parte costruiti in Egitto;

1716 M60A3 Patton ceduti da USA e Germania

34 T-80 acquistati in Russia

435 Ramses II progettati e costruiti in Egitto

500 T-62 sovietici e cecoslovacchi

340 T-55 sovietici e polacchi

 

Veicoli da combattimento per la fanteria (IFV)

1030 YPR-765 PRI

1200 EIFV

800 SIFV

635 Fahd 280-30

220 BMP-1

 

Veicoli corazzati per la fanteria (APC)

765 Fahd 240

2447 M113A2

230 BTR-40

250 BTR-50

200 BTR-60

175 BTR-152

250 OT-62B

300 OT-64

260 BMR-600

650 Walid Mk.2

180 K-61

350 PTS-M

 

Cacciacarri

52 M901A3

290 YPR-765 PRAT

 

Veicoli da ricognizione corazzati (ARV)

72 M981 FISTV

180 RG-32M

300 BRDM-2

180 V-150 Commando

112 Cadillac Cage Commando Scout

 

Veicoli leggeri per la fanteria

3900 HMMWV

375 M1114

350 M1043

650 Tiger Kader-120 (produzione italo-egiziana)

820 Kader-320

110 Hotspur Hussard

 

Veicoli di supporto

280 M557

275 M548

250 M992

2024 veicoli per il genio

846 veicoli anfibi

555 veicoli anti-mine

60585 automezzi, autocarri e autoveicoli vari

 

Artiglieria

semoventi

420 M109A1/2

201 M109A5

124 SPH122

144 M110A2

120 M120

150 M106A2

350 M125A2

 

trainata

24 S-23

272 D-20

150 D-1

100 ML-20

600 D-30M

400 GH52

420 M-46

150 Type-59-1M

148 D-74

148 Type-60

150 M-30

200 M1944

9964 mortai

 

Lanciarazzi multipli (MLRS)

250 VAP-80

96 RL-812 TLC

250 PRL-81

120 Saqr-4

48 Saqr-8

50 Saqr-10

72 Saqr-18

130 Saqr-30

50 Saqr-36

20 Saqr-45

36 M-51

48 M270

215 BM-21 Grad

48 BM-24

36 K-136 Kooryong

 

Armi anticarro

6400 cannoni anticarro senza rinculo; 180000 razzi anticarro per RPG-7; 220 sistemi lanciamissili anticarro (ATGW) Milan II, 260 ATGW Swingfire, 810 ATGW BGM-71D TOW II, 500 ATGW Hellfire; 2500 missili antiaerei spallegiabili (MANPAD) Saqr Eye, 1800 MANPAD FIM-92  Stinger, 600 MANPAD 9K38 Igla;

 

Armi antiaeree

semoventi

20 9K31 Strela-1

100 M1097 Avenger

102 M163A2

148 Nile-23

72 Sinai-23

218 ZSU-23-4 Shilka

40 ZSU-57-2

100 M53/59 Praga

 

trainati

250 ZPU-2

200 ZPU-4

72 M167A3

650 ZU-23-2

72 Amun

700 M1939 da 37mm

400 M1939 da 85mm

600 S-60

200 KS-19

120 KS-30

 

Missili balistici

4-6 veicoli di lancio (TEL) per 24 missili balistici a medio raggio Nodong (gittata: 1300 km)

4-6 TEL per 30 missili balistici a medio raggio al-Badr (una variante egiziana dello Scud-C nordcoreanogittata: 900 km)

10 TEL per 50 missili balistici a corto raggio Hwasong-6 (gittata: 700 km)

24 TEL per 100 missili balistici a corto raggio Scud-C (gittata: 550 km)

20 TEL per 90 missili balistici a corto raggio Project-T (gittata: 450 km)

48 TEL per 200 missili balistici a corto raggio Scud-B (gittata: 300 km)

60 TEL per 360 missili tattici Saqr-80 (gittata: 80 km)

48 TEL per 288 missili tattici FROG-7 (gittata: 70 km)

L’Egitto oltre a sviluppare il nuovo missile balistico tattico RS-120, con una gittata di 120 km, che dovrebbe sostituire i FROG-7 e integrare i Saqr-80, possiede le risorse tecnologiche per produrre missili Scud-B/Cal-BadrProject-T Nodong.

 

Aviazione

L’aeronautica militare egiziana, guidata dal Maresciallo dell’Aria Yunis Hamad che comanda 30000 effettivi (e 20000 riservisti), dispone in totale di 463 aerei da combattimento, 319 elicotteri, 57 aerei da trasporto, 478 aerei da addestramento e 6 aerei radar (Airborne Early Warning and Control).

La forza aerea è costituita dai seguenti velivoli:

 

Velivoli da combattimento

240 Lockheed-Martin F-16C/D Fighting Falcon

32 McDonnell F-4E Phantom II

53 Dassault Mirage V

18 Dassault Mirage 2000EM

63 Mikojan MiG-21 Fishbed

57 Chengdu F-7B/M

 

Velivoli AEW

6 Northrop-Grumman E-2C HE2K Hawkeye 2000

 

Droni

10 Anka-A

53 Model-324 Scarab

48 R4E-50 Sky Eye

4 Camcopter

21 ASN-209

 

Aerei d’addestramento

54 Alpha Jet

54 PAC MFI-17 Mushak

54 EMBRAER 312 Tucano

74 G-115 Tutor

120 K-8 Karakoram

10 Aero L-39ZO Albatros

47 Aero L-59E Super Albatros

17 Bell UH-12 Raven

48 Zlin Z-142C

 

Velivoli da Trasporto

9 Antonov An-74

8 Beechcraft 1900

26 Lockheed C-130H Hercules

5 CASA C-295M

9 DHC-5 Buffalo

 

Elicotteri

47 Boeing AH-64D Apache

18 Boeing CH-47 Chinook

30 UH-60A/M Blackhawk

13 Kaman SH-2G Super Seasprite

5 Westland Sea King Mk.47

26 Westland Sea King Commando

3 AgustaWestland AW-109

42 Mil Mi-8

51 Mil Mi-17H

84 Aérospatiale SA-342K/L/M Gazelle

 

Difesa aerea

Il Comando della Difesa Aerea, che è responsabile della protezione dello spazio aereo dell’Egitto, dirige tutte le unità dotate di cannoni e missili antiaerei, caccia-intercettori, radar e sistemi di allarme aereo. Il comandante della Difesa Aerea è il Tenente-Generale Abd al-Muniam al-Tarras, che comanda una forza di 70.000 effettivi.

Tale comando allinea:

40 batterie di missili antiaerei (SAM) a lungo raggio Tayer al-Sabah

4 batterie SAM a lungo raggio MIM-104 Patriot

18 batterie SAM a lungo raggio MIM-23 Hawk

53 batterie SAM a lungo raggio S-125 Pechora-2M

10 batterie SAM a medio raggio 9K37 Buk

14 batterie SAM a medio raggio 2K12 Kub

16 unità SAM a medio raggio 9K330 Tor

16 batterie SAM a medio raggio Crotale NG

72 unità SAM a corto raggio MIM-72/M48 Chaparral

40 batterie antiaeree Skyguard-Amun, ognuna formata da 2/4 celle lanciamissili Aspide2000, 2 cannoni binati antiaerei Oerlikon GDF-005 da 35mm e un sistema di controllo del tiro Skyguard per ogni batteria.

75 batterie antiaeree AN/TWQ-1 Avenger, ognuna formata da 4/8 missili FIM-92 Stinger e una mitragliatrice da 12,7mm

Dal 2008, tutti i sistemi di controllo delle batterie, i radar, i posti di osservazione e  i centri comando sono collegati dalla rete nazionale informatizzata di primo allarme del sistema C3I (comando, controllo, comunicazione, intelligence) della Difesa Aerea, che comprende anche i velivoli AEW EC-130H Hercules, Grumman E-2C Hawkeye 2000 e Beechcraft 1900 ELINT, oltre a una rete in fibra ottica sotterranea.

 

Marina militare

La Marina egiziana è la più grande marina militare del Medio Oriente avendo ricevuto materiale  dall’Unione Sovietica, dalla Cina e da vari Paesi occidentali. La Marina egiziana raggruppa 18000 effettivi, più i 2000 componenti della Guardia Costiera, tutti posti al comando del Viceammiraglio Usama al-Qandi.

La flotta della marina militare egiziana è composta dai seguenti natanti:

4 sottomarini classe Romeo, armati con missili antinave Harpoon; è stato anche firmato un contratto per la costruzione di due sottomarini Tipo 209.

6 fregate lanciamissili: 4 classe Oliver Hazard Perry e 2 classe Knox

2 fregate antisom tipo Jianghu, classe Najm al-Zafir

2 corvette lanciamissili tipo Descubierta, classe Suez

24 motovedette lanciamissili: 4 classe Ambassador Mk.III; 9 tipo Osa I; 5 Type 148 classe Tiger;

6 classe Ramadan

8 motovedette antisom classe Hainan

10 motovedette: 6 classe Shershen; 4 classe Shanghai

20 navi d’assalto anfibio: 3 classe Polnocnij-A; 9 classe Vydra; 8 classe Seafox

28 cacciamine: 6 classe T-43, 4 classe Jurka; 2 classe Osprey; 4 classe Tuima; 3 tipo MHC; 6 tipo MSI; 3 UUV (droni sottomarini) Pluto+

15 navi ausiliarie, tra cui la nave rifornimento A230 Shalatain, classe Type 701 Lüneburg

2 navi salvataggio e 5 navi scuola

La Guardia Costiera allinea 30 motovedette e 69 tra motolance e motoscafi, mentre la Difesa Costiera è dotata dei seguenti missili antinave: FL-1, con una gittata di 150 km e una testata di 513 kg; KSR-2 con gittata di 200 km e testata di 1000 kg; Otomat Mk.II con gittata di 180 km e testata di 210 kg e MM-40 Mk.III Exocet con una gittata di 180 km e testata di 165 kg.

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L’ELEZIONE DI OBAMA E LA STRATEGIA GLOBALE DEGLI USA

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L’elezione di Obama ha comportato una grossa rivoluzione nel campo della comunicazione politica. La macchina da guerra della propaganda elettorale di Obama è stata praticamente perfetta. L’obiettivo era soprattutto quello di dare un messaggio di rottura radicale nei confronti della precedente amministrazione, la quale era stata segnata dal periodo d’oro dell’epopea neocon. Il presidente, di origini keniote, e la sua fabbrica mediatica hanno sfruttato alla perfezione le origini etniche non-europee per trasformare un bravo oratore dell’Illinois dalla biografia controversa in un novello M. Luther King laico. Così come nell’ascesa di Reagan, il senatore Obama ha avuto gioco facile nell’apparire come l’uomo vicino alla gente e ai ceti più bassi, dalle origini umili, piuttosto che il solito politico di professione espressione dei poteri forti. Mentre l’uso massiccio del web 2.0 gli ha consentito di incrementare i voti di giovani e studenti (già solitamente vicini al Democratic Party). È stato troppo facile per Obama dover sfidare da un lato un candidato che è apparso decisamente poco giovanile (McCain), dall’altro vincere il paragone con il presidente uscente (Bush jr.) oramai simbolo di un’America guerrafondaia e prepotente, con la sua caricatura di uomo texano.

Al di là di ogni discorso sulla efficacia mediatica dei soggetti principali, nella politica americana degli ultimi anni assistiamo ad un netto appiattimento verso alcune posizioni all’interno dei due maggiori partiti. La tendenza degli ultimi anni ci dice che da parte repubblicana abbiano oramai sposato in pieno il liberalconservatorismo di neocon e moderati, mettendo in minoranza libertarian e paleocon; per il partito dell’Asinello vale più o meno lo stesso discorso. Le primarie del 2008 per la presidenza hanno visto i due principali candidati del partito democratico appartenere a due principali fazioni. Se la Clinton così come il marito rappresenta le istanze più conservative del Democratic Party, Obama fuori dalla retorica della propaganda è nient’altro che un liberal, ma difficilmente verrà ricordato come l’erede di Roosevelt.

Ciò significa che attualmente a parte delle leggere differenze su temi di carattere sociale e poco altro vi è un appiattimento dei due partiti verso posizioni centriste e ciò ha dei risvolti soprattutto in politica estera. Se i neocon hanno una visione del mondo imperniata sulla dimensione religiosa (le missioni belliche americane nei paesi islamici come le nuove crociate) i democratici amano camuffare i loro interventi da aiuti umanitari pregna di retorica del diritto e dell’individuo. Pur restando su una prospettiva laica non mancano di associare una missione civilizzatrice all’esistenza degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti sono un paese fondato su una grande fiducia in quelli che sono i principi che ne hanno animato l’indipendenza e ciò non cambia spostandosi dai repubblicani ai democratici.

Bisogna dunque fare delle precisazioni riguardo al Democratic Party (DP), che a differenza degli omologhi partiti progressisti in Italia non ha uno psicologico tabù nei confronti di ogni patriottismo, né si ritrova a gestire l’eredità della sinistra socialista. Anzi, la storia del DP narra di un partito che nasce come espressione dei grandi latifondisti contrari all’abolizione della schiavitù, in particolar modo al Sud e di un generico liberismo, sino alla proclamazione del New Deal da parte di Roosevelt, che introdusse le moderne misure del welfare state, rendendo il partito democratico più vicino ad una forza politica socialdemocratica. Chi si aspettava da Obama e dai democratici una politica orientata al pacifismo dovrebbe ascoltare meno tg3.

Negli ultimi giorni, in cui l’attenzione della comunità internazionale si è focalizzata sulla Siria, Obama si è mostrato oltremodo indeciso. Tirato dalla giacchetta da più parti in seno alle forze democratiche, Obama si conferma più uomo di immagine che un uomo dedito alla leadership politica. John Kerry, capo del dipartimento di Stato, ed il vicepresidente Joe Biden hanno usato toni forti sulla vicenda siriana. Ma Obama, al contrario di quanto affermato nelle sue stesse dichiarazioni alla stampa internazionale, avrebbe tutto l’interesse di non intervenire in Siria. Obama è consigliato da uno dei maggiori esperti in politica, Zbigniew Brzezinski, già consigliere ai tempi del presidente Jimmy Carter.

Gli esponenti democratici del governo hanno tirato fuori in questi giorni tutta la loro verve guerrafondaia. Così come la Clinton in occasione della crisi libica, stavolta sono John Kerry ed il vicepresidente Biden a premere affinché Obama intervenga con un’operazione militare in Siria, continuando a parlare di prove riguardo all’utilizzo di armi chimiche da parte dell’esercito siriano.

I tentennamenti di Obama sono giustificati dal fatto che l’attuale presidente si era affacciato sullo scenario della candidatura presidenziale per uno scopo preciso. Non si può fare a meno di osservare che in un clima di scarso pluralismo di idee che attraversa gli USA le scelte elettive sono determinate precipuamente da altri fattori per lo più relativi alla persona candidata a dover svolgere il ruolo per il quale si concorre piuttosto che ai temi di confronto politico. Rispetto ai partiti di riferimento ai quali sono iscritti i politici, contano sempre di più quelle lobbies economiche i cui rappresentanti scelgono di consigliare e pubblicizzare questo o quel personaggio.

Mentre è oramai appurato il controllo da maggioritario da parte neocon del partito repubblicano, i contorni tra i democratici sono meno definiti. Forse della Clinton e o di Kerry, essendo personaggi conosciuti possiamo conoscere da chi sono sostenuti, ma di Obama prima della sua candidatura se ne sapeva bene poco. Il nostro sembrerebbe essere sostenuto dagli stessi personaggi che erano dietro le politiche di Jimmy Carter. In particolare Brzezinski ha sempre avuto un’idea molto chiara riguardo alle strategie che Washington dovrebbe adottare in politica estera. Il progetto di Brzezinski è arguto, perché da buon geopolitico costui capisce l’importanza di un’alleanza sempre più salda tra Russia e Cina nel bel mezzo del continente eurasiatico e comprende che il vero obiettivo strategico deve essere quello di minare le basi delle aree di dominio politico-territoriale russo-cinesi. L’ambizione della dottrina brzezinskiana,  che  potrebbe essere definita una nuova teoria del contenimento, sarebbe quella di operare affinché la Cina, affamata di risorse energetiche, perda le proprie collaborazioni economiche nel Mediterraneo nordafricano (Egitto, Libia, etc.) e in Asia centrale con Pakistan ed Iran. Un rivolgimento dei regimi politici in particolar modo delle due repubbliche islamiche innescherebbe, secondo lo studioso statunitense, una lotta per le risorse tra Russia e Cina in Asia Orientale. Ricordiamo brevemente che l’amministrazione Carter fu quella responsabile del finanziamento dei mujaheddin contro il regime filosovietico in Afghanistan nel ’79.

A tal proposito il compito di Obama nel 2008 era di dare un volto umanitario alle politiche di egemonia statunitensi. Dopo quasi un decennio vissuto in un clima da guerra santa, nessuno meglio di un  presidente afroamericano poteva rappresentare il tentativo di conciliazione con i popoli del Vicino Oriente. Il progetto era quello dei “cambiamenti di regime” (regime changes) già sperimentati nel 2005-2006 in Ucraina, Georgia e Kyrghizistan, rivolte finanziate dal miliardario George Soros, anch’egli sponsor dell’ex senatore dell’Illinois.

Ciononostante, qualunque osservatore può rilevare che a partire dal suo insediamento, non è possibile dire che Obama abbia ottenuto delle vittorie decisive sui temi più caldi della politica internazionale. Se la questione nucleare iraniana e le relative sanzioni non si può negare che abbiano messo in difficoltà l’economia della Repubblica Islamica, neanche è possibile affermare che con l’Iràn egli abbia ottenuto niente di concreto, tranne che inasprire ulteriormente le posizioni della Repubblica Islamica. Il tentativo compiuto nel 2009 a seguito delle elezioni del presidente iraniano, di ottenere un nuovo regime in Iràn più favorevole a Washington non ha scalfito né la leadership di Ahmadinejad né la struttura della repubblica.

Lo scoppio delle primavere arabe ha invece cambiato in maniera significativa il volto del Medio Oriente e dell’Africa mediterranea. Ma registriamo che ad oggi gli sforzi compiuti per sostenere i ribelli di Libia, Tunisia, Egitto, etc. non sono stati del tutto sufficienti per i piani americani. Dopo le primavere, o meglio le rivolte arabe, ritroviamo una Libia tribalizzata e trascinata nel baratro di una guerriglia civile continua tra lealisti e ribelli islamisti; un Egitto nel quale dopo un interregno dei Fratelli Musulmani guidati da Morsi, un colpo di mano dei militari di Al Sisi ha ridato le chiavi del paese ai dirigenti del vecchio regime. Per non parlare della Tunisia, dove ritroviamo gli islamisti di Ennahda. Più che di Primavera dovremmo parlare di Grande Inverno.

Anche sullo scacchiere siriano il rischio è di riscontrare le stesse difficoltà. Un vero e proprio attacco che venisse mosso al governo baathista farebbe correre diversi rischi alla Casa Bianca, che oltre a dover preoccuparsi dell’eventuale reazione di Russia ed Iran, finirebbe per trovarsi di fronte ad una situazione simile a quella verificatasi in Iraq, che dopo la caduta di Saddam Hussein è passato di fatto sotto l’influenza iraniana. Oppure nella prospettiva che si ritrovi uno stato islamista manovrato dai sauditi, che certo non è un’opzione così gradita da Washington.

Del resto appare difficile oramai che sulla Siria non spirino venti di guerra. Ed uno dei motivi è che Obama ha bisogno di un’operazione che aumenti il suo consenso interno, a causa degli scarsi risultati che ha ottenuto sia in politica estera (come dicevamo sopra), sia in politica interna. Con i conti pubblici sempre più al collasso e la deindustrializzazione continua ad essere una piaga dell’economia reale statunitense, l’unica vera riforma di Obama è stata quella discutibile sulla Sanità, che di fatto rende obbligatorio al cittadino l’opportunità di stipulare una polizza assicurativa privata che ne copra le spese sanitarie. Non ottenuto il consenso delle nazioni unite, gli USA non hanno nessuna voglia di impantanarsi in Siria come in Iraq, ma hanno bisogno di una legittimazione morale che coinvolga anche il resto della comunità internazionale.

La storia delle armi chimiche¹ tirata in ballo negli ultimi giorni ricorda, infatti, altri casus belli, come le famose armi di distruzioni di massa di Saddam o la discutibile tesi della pulizia etnica di Milosevic. Tuttavia Obama, come raccontavamo prima, non ha nessuna fretta di entrare in guerra, nonostante le dichiarazioni quotidiane fatte alla stampa internazionale, tant’è che un Presidente che chiede l’approvazione del Congresso difficilmente si è visto in passato. Bisogna a tal proposito ricordare che un cospicuo contingente americano è ancora impegnato in Afghanistan e che in una condizione di debito pubblico sempre più in aumento vi sono sempre maggiori difficoltà ad aprire nuovi fronti di guerra. Memori dell’impantanarsi dell’esercito nell’arido e montuoso territorio afghano gli americani non hanno alcuna voglia di ripetere l’esperienza, l’intervento in Siria sarà un’azione limitata da attacchi aerei che presumibilmente aiutino i ribelli a combattere Assad e che facciano nel frattempo pressione alla comunità internazionale, dopo che i ritiri di Gran Bretagna e Francia dalla scelta dell’intervento hanno lasciato gli USA a svolgere la parte del leone.

In realtà, lo stallo tra lealisti e ribelli in questo momento starebbe più che bene agli USA. Una Siria che uscisse vittoriosa dalla guerra, in stile Vietnam (magari grazie all’aiuto di Russia, Cina e Iran) darebbe grande forza all’asse sciita e i nemici degli USA ne uscirebbero rafforzati nel prestigio. Nel caso contrario c’è la reale possibilità che la Siria diventi un protettorato saudita. Quest’ultimo scenario inoltre vedrebbe anche rafforzata la posizione di Israele, che nei giorni scorsi ha invocato la lega araba invitandola a costituire un nuovo governo in Siria. I sionisti ormai sempre più vicini alle petromonarchie del golfo avrebbero lo scopo, in primis di conciare per le feste il nemico Assad (che è più un fastidio per loro che non per gli americani) e di poter agitare sempre di più lo spauracchio della minaccia arabo-musulmana nei confronti di Israele. Ed è noto quanto la fazione dei democratici e di Brzezinski in particolare veda le pretese di Israele nel Vicino Oriente come un pericolo per le strategie di Washington.

In conclusione “Mister Obama” aveva il compito di mostrare dell’America un volto nuovo, amica delle culture diverse da quella occidentale ed in particolare tollerante a livello religioso con un occhio fraterno nei confronti del mondo islamico. Tuttavia sino al momento in cui scriviamo, la rivoluzione politica promessa da Obama sta disattendendo le aspettative. Durante le primavere arabe, a parte qualche generica rivendicazione dei diritti civili non si è riscontrato un ruolo di primo piano di un movimento che seppur nel contesto islamico rispecchiasse la visione ideologica propugnata da Washington. Nella maggior parte dei casi alla guida dei nuovi giochi politici troviamo movimenti di matrice islamista, a parte l’eccezione di rilievo delle elezioni libiche dovuta alle condizioni di effettiva guerra in corso tra i lealisti della Tripolitania e i cirenaici ribelli che rivendicano mire secessioniste (e che sta causando la crisi del petrolio libico).

In nessuno modo, quindi, il contenimento nei confronti di Russia e Cina si è rivelato sinora efficace, e anzi questi ultimi continuano a consolidare la loro posizione sul fronte africano. Inoltre ritroviamo anzi un Vicino Oriente ed un Mediterraneo più tumultuoso di prima dove può accadere di tutto senza controllo alcuno. Va detto, però che non tutto dei disordini nel mondo arabo può essere attribuito alle operazioni di finanziamento politico delle fazioni antigovernative e delle ingerenze da parte americana. Le prime sommosse di piazza del 2010/2011 (dovute anche a problemi oggettivi di tipo economico come l’aumento dei prezzi di alcuni beni di genere primario) non erano piaciute agli amici sauditi, che avevano il timore di perdere la loro egemonia sulla penisola araba e presso i paesi del Golfo (vedi la rivolta sciita nel Bahrein, repressa nel sangue grazie anche al silenzio e alla complicità dei media occidentali), oltre che perdere preziosi alleati nella regione come Hosni Mubarak.

Probabilmente i disegni sulla regione da oltreoceano erano altri. Come abbiamo già accennato, la volontà della nuova amministrazione USA era di reiterare anche nel mondo arabo la tecnica del regime change pacifico già applicata in Europa dell’Est nel 2005-2006, che avrebbe dovuto generare governi democratici liberali al posto delle vecchie “dittature”. Ma sembra evidente come i progetti di egemonia da parte arabo-saudita abbiano sconvolto i piani americani, i quali non hanno potuto fare a meno di continuare a finanziare anche gli islamisti armati se non letteralmente armarli. Islamisti che hanno infiltrato ben presto le proteste di piazza scatenando delle vere e proprie guerre civili.

In definitiva gli Stati Uniti danno l’impressione di essere inadeguati al mondo contemporaneo di cui loro stessi vorrebbero continuare ad egemonizzare politicamente, se continueranno con questa impostazione. La fase storica successiva alla caduta dell’URSS ha visto per alcuni anni la superpotenza atlantica dominare incontrastata sulle altre entità politiche essendo oramai priva di rivali credibili. Oggi, al contrario, viviamo un’epoca segnata dal prepotente ritorno sul proscenio internazionale, di paesi che hanno finalmente raggiunto una crescita economica importante e comparabile con le economie dei paesi occidentali e riprendendosi il ruolo che ha sempre settato loro nella Storia (si pensi alle grandi e millenarie civiltà dell’India e della Cina). Se tra il ’99 e il 2000 la Russia di Elcin viveva l’incubo della svalutazione del rublo, dopo la ripresa putiniana, essa può essere annoverata tra le prime economie del mondo. Mentre la Cina ha da un paio d’anni superato il PIL del Giappone ed è la seconda economia mondiale. A ruota seguono paesi che cominciano ad alzare la voce e a pretendere un posto al sole sulla riva delle dinamiche politiche internazionali, come Turchia, India, Brasile, Sud Africa.

Tornando all’efficacia del fenomeno Obama, da un certo punto di vista la costruzione di questo personaggio poteva essere una tattica vincente per il consenso che ha avuto, durante e subito dopo le elezioni, a livello mondiale, grazie alla sua campagna mediatica, che ha attecchite e continua ad attecchire soprattutto tra le giovani generazioni. Tuttavia il problema principale dell’Occidente risiede piuttosto in una questione culturale. Gli USA, malgrado gli slogan umanitari e la mano tesa dell’attuale amministrazione verso l’Islam (vedi discorso del Cairo nel 2009), hanno un forte credo ideologico ispirato a quella cultura democratico-liberale che dall’Illuminismo in poi ha cambiato l’Europa e ha reso possibile la formazione della Federazione degli Stati Uniti. Soprattutto un certo stile di vita americano (American way of life) ha costituito tra gli anni ’80 e ’90 un modello culturale ed economico ambito nel globo. Se in passato la presenza del comunismo sovietico come unica alternativa ed il successo economico-militare permetteva agli USA di essere un punto di riferimento anche per i paesi meno sviluppati, oggi la situazione è in via di transizione in un’altra fase. Il mondo multipolare, cui ci stiamo affacciando, è un mondo nel quale i nuovi protagonisti dello scacchiere internazionale ambiscono ad un modello civiltà che abbia come riferimento la storia a volte secolare di un’intera area geopolitica e spesso non hanno niente a che fare con i processi storici peculiare dell’era moderna europea. Ed è questa la sfida che coloro che vogliono essere un punto di riferimento della politica internazionale dovranno cogliere.

Le velleità da parte americana insieme ai suoi alleati e vassalli europei di conservare un’egemonia incontrastata cozzano con l’incapacità di presentare il proprio modello come universale fuori dai confini dell’occidente liberale. Manca in particolar modo l’abilità di comprendere, almeno a livello politico, contesti culturali come quello islamico o di altre realtà dell’ecumene eurasiatico.

Ma al di là di questi limiti la superiorità morale e la legittimità dal punto di vista della sovranità popolare, che al giorno d’oggi pare avere il sistema democratico-liberale consente ancora agli  americani di specularvi come strumento di pressione politica. Del resto, dall’altro lato le due potenze più credibili che si ritrovano in qualche modo opposte alla sfera atlantica, pur essendo prive di un’ideologia in politica estera ed essendo due forze estremamente pragmatiche da questo punto di vista, Russia e Cina sono al momento prive di un modello di riferimento esportabile in politica estera, cosa che invece era riuscita ai sovietici con il loro modello di democrazie popolari. Cosa che a nostro avviso limita di molto l’azione politica di questi due soggetti, i quali si rivolgono soprattutto ad accrescere la loro influenza nel settore economico (accordi su materie prime, industrie know how etc.), ma spesso risultano deboli nel controllo più strettamente politico nelle loro sfere di influenza.

Quindi se non ci sono dubbi che gli USA rimangono ancora l’unica superpotenza mondiale, vi è da constatare che oggi viviamo una nuova Guerra Fredda. Il sostanziale equilibrio delle forze in campo rende la partita giocabile entro alcune faglie periferiche, che le costringe a condurre un gioco di posizione piuttosto che una battaglia su campo aperto. La storia degli ultimi dieci anni ci dice comunque di un’America che conduce un gioco più aggressivo, ma prende l’iniziativa senza rischi eccessivi, rispetto agli altri contendenti, i quali a loro volta non rischiano mai di ritrovarsi ad uno scontro frontale. Questo per due precisi motivi: in primo luogo perché nessuno ha la forza e la voglia di giungere ad un nuovo conflitto mondiale, che con le tecnologie moderne potrebbe essere disastroso per l’intero pianeta; poi perché lo sviluppo e gli investimenti americani in campo militare restano ancora superiori rispetto a quelli degli altri paesi.

Perciò è verosimile che anche il canovaccio dei prossimi anni continuerà a svolgersi sulla falsariga di quanto descritto. Anche se la questione siriana ci darà probabilmente degli altri elementi per un’ulteriore analisi della situazione. Resta il fatto che a lungo termine la tattica della superpotenza statunitense rischia di alienarsi ancora di più le simpatie dei paesi extraeuropei in maniera irreversibile ed è evidente che aver dato il premio Nobel a Mister Obama non è di certo bastato. In più ci sono da risolvere dei grossi problemi sul piano interno come il debito pubblico, eccessivo anche per gli USA, che potrebbero limitarne il raggio d’azione se vi fosse l’apertura di un nuovo fronte in Siria. Infatti lo stesso Obama aveva dichiarato di volersi dedicare soprattutto alle dispute territoriali del Pacifico, più strategico nella lotta al contenimento dell’influenza cinese rispetto alla Siria, dove Mister Obama andrà con riluttanza e conscio di avere una bella gatta da pelare.

 

 

 

Note:

1. In realtà membri della Commissione Indipendente dell’ONU sulla Siria, come la Del Ponte, nei mesi scorsi avanzarono l’ipotesi che i ribelli tessero usando loro le armi chimiche. Queste dichiarazioni furono poi smentite dopo le pressioni a livello mediatico che ne erano seguite. http://www.corriere.it/esteri/13_maggio_06/siria-del-ponte-armi-chimiche-usate-da-ribelli_3b5234e0-b636-11e2-9456-8f00d48981dc.shtml

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LA CRISI SIRIANA AD UN PUNTO DI SVOLTA

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La crisi siriana giunge ad un punto di svolta importante. Bashar al-Assad ha accettato la proposta avanzata dalla Russia di consentire l’ispezione dell’Onu all’interno dei depositi chimici militari. Il fatto che anche la Cina e l’Iran abbiano salutato favorevolmente questa iniziativa fortemente voluta dalla diplomazia di Mosca, dimostra che potrebbe esistere una strategia comune tra i tre Paesi attualmente più vicini al presidente siriano o comunque più fortemente contrari ad un intervento militare occidentale. Premesso che, almeno fino a quando non avrà inizio un conflitto armato, non esiste alcun fronte di guerra, ognuno di questi tre attori mantiene sulla crisi siriana un profilo differente in base alle esigenze strategiche, alla posizione geografica e, dunque, agli interessi nazionali specifici.

 

Gli interessi dell’Iran

L’Iran, unico vero e proprio alleato di Assad, è il Paese maggiormente coinvolto nella complessa crisi siriana. Dal punto di vista di Tehran, la Repubblica Araba di Siria rappresenta prima di tutto un cuscinetto multiconfessionale ed “ecumenico” che impedisce al fondamentalismo settario sunnita di espandersi. In secondo luogo, la Siria è per l’Iran un sicuro sbocco verso il Mediterraneo capace di costituire la valida alternativa ad uno scenario libanese che, sebbene saldamente controllato dalle forze sciite di Hezbollah, resta perennemente instabile sotto la continua minaccia di un conflitto interreligioso.  Inoltre, dopo la recentissima elezione di Mamnoon Hussain in Pakistan, gli equilibri sorti tra Tehran e Islamabad negli anni della presidenza socialdemocratica di Zardari tornano nuovamente in discussione. Hussain, esponente della Lega Musulmana Pakistan (N), è da sempre considerato un uomo di fiducia di Nawaz Sharif, da pochi mesi rieletto primo ministro a oltre tredici anni di distanza dal golpe che lo costrinse alla fuga in Arabia Saudita per evitare la condanna all’ergastolo che avrebbe dovuto scontare in patria.

L’Iran si è così mosso in anticipo e già dall’autunno scorso ha concluso diversi accordi di cooperazione economica e militare con l’Iraq di al-Maliki, cercando nuovamente di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sulla repressione delle rivolte popolari in Bahrein (a maggioranza sciita, ma governato da una monarchia sunnita filo-saudita). Tuttavia la possibile nuova deriva integralista del Pakistan e i recenti tentativi di accordo tra Washington e i talebani in Afghanistan sono fattori che potrebbero ridurre drasticamente la sfera d’influenza di Tehran sulla regione mediorientale, stringendola a sud nella morsa di un’Arabia Saudita conclamato sponsor dell’estremismo wahhabita ed attore egemone nell’area del Golfo, e a nord in quella di una Turchia prepotentemente penetrata in Turkmenistan (dove dovrà comunque fare i conti con la presenza cinese) e in Azerbaigian (dove la prevalenza della Shia non riesce a contrastare efficacemente il panturchismo etnico).

Il ruolo che la Siria gioca in questa partita per l’affermazione nel mondo islamico tra la strategia regionalista (neopersiana?) promossa da Rouhani, quella “neo ottomana” targata Erdoğan-Gül-Davutoğlu e quella neowahhabita dei regnanti sauditi, è dunque fondamentale. La capacità di resistenza di Assad è direttamente proporzionale all’indebolimento delle strategie di Ankara e Riyad e al rafforzamento di quella di Tehran.

 

Gli interessi della Russia

La Russia possiede una base navale in Siria, nei pressi del porto di Tartous. Più volte i ribelli hanno minacciato l’assalto contro questo avamposto militare senza tuttavia mai riuscire ad impensierirne seriamente il personale. In quanto potenza rivierasca del Mar Nero, i limiti imposti dalla Convenzione di Montreux del 1936 non impediscono alla Russia il transito negli Stretti ma vincolano la Marina Federale ad alcuni obblighi conoscitivi nei confronti del governo turco che non le consentono di avvalersi del fattore sorpresa e di una completa libertà di manovra, tanto più in una situazione dove la Turchia è apertamente schierata contro Damasco e si è detta pronta a partecipare a qualsiasi coalizione internazionale si formi per rovesciare il presidente Bashar al-Assad.

Forte della tradizionale alleanza tra Mosca e Damasco, Tartous costituisce perciò l’unico sbocco sicuro della Russia sul Mediterraneo in attesa della realizzazione di una stazione per il rifornimento navale a Limassol e dell’installazione del personale e dei mezzi militari russi nella base aerea di Paphos, progetti per i quali il ministro degli Esteri Sergej Lavrov ed il suo omologo cipriota Ioannis Kasoulidis hanno concluso un accordo lo scorso 27 giugno a San Pietroburgo. In quest’ottica, Cipro potrebbe rappresentare un laboratorio per sperimentare una serie di accordi economici, militari e culturali finalizzati alla costruzione di una nuova politica balcanica di Mosca che coinvolga anche la Serbia, la Grecia e la Bulgaria, dove le rispettive opinioni pubbliche stanno protestando per evitare il crollo definitivo provocato da processi di integrazione euro-atlantica completamente fallimentari. Inutile dire che la comunanza spirituale tra le chiese ortodosse (comprese quelle copte in Medio Oriente) giocherebbe un ruolo determinante, imponendo il governo di Mosca in un già affermato ruolo di difensore delle comunità cristiane nel continente eurasiatico, sovente minacciate e brutalizzate dall’intolleranza del settarismo sunnita che sta devastando la Siria da oltre due anni.

C’è infine un interesse di ordine pubblico che rientra nella sfera della sicurezza collettiva ed è chiaramente legato al terrorismo internazionale che recluta e addestra numerosi miliziani provenienti dalle regioni musulmane del Caucaso russo (Cecenia e Dagestan in primis), pronti a far entrare capitali sauditi in patria per organizzare attentati e disordini nel territorio federale. Nel 2012 la Russia ha condotto diverse operazioni antiterrorismo, tra Dagestan e Tatarstan, a fronte di almeno tre gravi attentati, nel più eclatante dei quali perse la vita Valjullah Jakupov, vicario del Gran Muftì di Russia, Ildus Faizov.

 

Gli interessi della Cina

La Repubblica Popolare Cinese è la potenza anti-interventista più lontana dallo scenario geopolitico mediorientale. Inoltre la sua linea di politica estera, fondata sui cinque principi della coesistenza pacifica, le impedisce di interferire negli affari interni altrui a tal punto da mettere in discussione la sovranità di un altro Stato e delle sue autorità istituzionali. Quella di Pechino è una strategia realista che, sebbene mantenga alcuni elementi dell’idealismo terzomondista ereditato dalla Conferenza di Bandung, poggia la sua condotta su un’abile regolazione tra i motivi dello sviluppo economico e i principi della Carta delle Nazioni Unite. Partendo dall’assunto storico che la globalizzazione economica favorisce i processi di multipolarizzazione del potere politico e tecnologico nel pianeta, lo stato maggiore cinese considera la stabilizzazione delle società come la base fondamentale per la costruzione dello sviluppo sociale, secondo la formula della società armoniosa (hexie shehui) in un mondo armonioso (hexie shijie). La Cina dunque non si pone il problema della legittimità democratico-rappresentativa di Bashar al-Assad, ma piuttosto della capacità del governo siriano di garantire la stabilità, lo sviluppo e il benessere generale all’interno del Paese. È chiaro che la sensibilità di una nazione storicamente e costituzionalmente multietnica e multiconfessionale come la Repubblica Popolare Cinese induca Pechino a preferire la permanenza di Assad come garante della coesistenza pacifica tra le diverse comunità che risiedono da secoli nel territorio siriano, rispetto al settarismo e allo sciovinismo confessionale o etnico delle forze ribelli (siano esse islamiste o curde).

Proprio la questione della coesistenza pacifica rimanda in Cina alla complessa regione autonoma dello Xinjiang, dove ben tredici gruppi etnici secolari convivono secondo la regola dei tre inseparabili legami (gli Han indispensabili per le etnie di minoranza, le etnie di minoranza indispensabili per gli Han e ognuna delle etnie di minoranza indispensabile per le altre). Tra questi gruppi, il più numeroso è quello degli Uiguri, comunità turcofona e musulmana al cui interno è tradizionalmente annidato un violento separatismo. Gli interessi turchi giungono fino a quelle latitudini e non fu un caso se durante le rivolte di Urumqi nel luglio 2009, fu la voce di Erdoğan a levarsi più in alto di tutti per difendere i diritti all’autodeterminazione del popolo uiguro. Come ampiamente dimostrato dai fallimenti collezionati dopo il crollo dell’Urss, smentendo tutte le profezie ideologiche dell’estremismo nazionalista panturco, Ankara non riuscirà mai a recuperare il terreno perduto in Asia Centrale e tanto meno a mettere le mani sullo Xinjiang. Tuttavia il continuo soffiare sul fuoco dell’integralismo e del separatismo ha provocato negli ultimi venti anni numerosi morti e feriti, non solo in Cina ma anche in Kirghizistan e in Tagikistan, destabilizzando una delle aree più complesse e più importanti del pianeta, nel cuore dell’antica Via della Seta.

 

Prospettive comuni

L’immagine internazionale dell’Iran, della Russia e della Cina esce senz’altro rafforzata da questo braccio di ferro con gli Stati Uniti e con la Francia sul campo di battaglia siriano. Gli occhi del mondo sono quasi del tutto puntati sulla Siria e all’opinione pubblica mondiale non può certo sfuggire la netta differenza tra l’enorme sforzo sino-russo per la risoluzione pacifica della crisi e l’incapacità della Casa Bianca di produrre prove chiare, in grado di dimostrare l’eventuale responsabilità del governo siriano nell’utilizzo di armi non-convenzionali. L’errore comunicativo che Obama e Hollande stanno pagando a caro prezzo è sicuramente quello di aver messo le mani avanti, annunciando un intervento militare senza attendere né la conclusione dell’inchiesta della commissione Onu né un consesso generale presso il Consiglio di Sicurezza. Messi all’angolo da questo aut-aut statunitense basato esclusivamente sulla parola del Dipartimento di Stato americano, molti governi occidentali hanno ovviamente abbandonato Washington e Parigi, temendo le conseguenze catastrofiche di un crescendo militare incontrollabile.

L’assenso all’ispezione dell’arsenale chimico militare siriano dà inoltre ad Assad la possibilità di fornire una prova in più che lo scagioni dalle accuse franco-americane, mostrando potenziali elementi tecnici e burocratici (sigilli, tracce, componenti ecc. …) in contrasto con la tesi che lo vorrebbe responsabile dell’utilizzo di gas sarin contro la popolazione civile. Se l’impianto accusatorio fosse smontato, per gli Stati Uniti le conseguenze in termini di consenso internazionale sarebbero devastanti a partire dai rapporti con gli alleati europei, già compromessi a seguito dello scandalo Datagate.

 

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CRISI SIRIANA: IL DILEMMA DELLA TURCHIA

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Il conflitto siriano rappresenta un banco di prova molto interessante per la strategia dello “zero-problemi-con-i-vicini” inaugurata dal Ministro degli Esteri turco Davutoglu. In linea con la nuova linea di politica estera del “neo ottomanesimo”, questo approccio fortemente ideologico prevede l’instaurazione di relazioni pacifiche con i vicini, in vista di un riconoscimento della Turchia come Stato modello e portavoce degli interessi della regione.

In questo senso, la normalizzazione dei rapporti con la Siria non era stata una conquista facile, né tanto meno scontata, sia a causa delle antiche questioni di demarcazione del confine quanto per la spinosa questione curda. Per questo il repentino cambio di dialettica marcato da aspri toni critici nei confronti di Assad a seguito degli scontri con i ribelli non è stato esente da critiche, in particolar modo da parte dei militari che vedono di cattivo occhio l’iperattivismo internazionale del governo Erdogan. Tale strategia è infatti in netto contrasto rispetto a quella strenuamente perseguita dal Governo conservatore, che non solo si dimostrava moderato e prudente nelle scelte di politica estera, quanto anche esclusivamente focalizzato sull’Occidente, per quanto riguarda le relazioni internazionali. Grazie a questa scelta, non sempre a costo zero, la Turchia era riuscita a guadagnarsi un posto e una “rispettabilità regionale” nei confronti dei suoi alleati della Nato, seppur mantenendo per così dire uno splendido isolamento rispetto ai suoi vicini.

È proprio sulle spalle di tale “prestigio” accumulato per oltre mezzo secolo che sta vivendo oggi la politica, autodefinita “idealista” e “moralista”, di Erdogan e Davutoglu. Sarebbe però prudente domandarsi fin quando questa linea potrà essere sostenuta e in particolar modo, quali potrebbero esserne gli esiti. In primo luogo, nonostante la Turchia disponga del secondo esercito della NATO, questo primato è essenzialmente limitato alle sue dimensioni, in quanto l’armamentario è al contrario piuttosto obsoleto. Inoltre la popolazione turca stessa, pur manifestando forte solidarietà ai vicini siriani, è al contempo per la maggior parte contraria all’intervento armato. Erdogan non potrà fare a meno di tenere conto di questo fattore, dato che le elezioni si avvicinano, ed egli non può rischiare di veder incrinato una volta di più il suo consenso.

In ogni caso il quesito più significativo è l’esito di un intervento a sostegno dei ribelli. In questo senso la questione curda è al centro delle preoccupazioni. La minoranza curda siriana si è infatti ben guardata dallo schierarsi apertamente a favore di una fazione o dell’altra visto che il suo unico obiettivo è il raggiungimento dell’indipendenza o per lo meno il riconoscimento di significative concessioni e autonomie come nel caso dei Curdi del Nord Iraq, con i quali sono in stretti contatti. Di altrettanto rilievo sono altresì i rapporti con i Curdi turchi di oltre confine, che seguono con interesse gli sviluppi della situazione dei loro connazionali, forse in attesa di alzare la posta dei negoziati di pace avviati con la Turchia tramite la mediazione di Ocalan.

A complicare ulteriormente il quadro sono i profughi siriani accampati nei disastrosi centri di accoglienza al confine sud turco. La maggior parte di loro appartiene all’etnia alawita, minoranza presente anche sul territorio turco. Frequenti sono infatti i casi di solidarietà, se non di veri e propri ricongiungimenti in territorio turco. Per questo motivo, il loro numero crescente potrebbe alterare gli equilibri dei difficili rapporti interetnici in Turchia e complicare ulteriormente il processo di integrazione che non è mai stato davvero perseguito con vera convinzione.

Qualunque sia la decisione della Turchia rispetto alla sua strategia verso la Siria, essa sarà destinata ad avere ripercussioni profonde, data la prossimità e i legami che vincolano i due paesi l’uno con l’altro. È evidente che la Turchia contemplata da Erdogan avrebbe tutto l’interesse alla scomparsa di un governo come quello rappresentato da Assad, in ottimi rapporti con il mondo sciita, a favore dell’affermazione di un governo sunnita. Questa ipotetica transizione di potere andrebbe considerata anche in relazione a un conseguente ridimensionamento della sfera di influenza iraniana a tutto vantaggio dell’affermazione turca nella regione. In questo caso però non è affatto chiaro quale corrente riuscirebbe ad imporsi in Siria. Al momento non si vedono filoni sunniti ortodossi, quanto piuttosto correnti integraliste legate ai regimi del Golfo e dunque non troppo ben disposte nei confronti della Turchia, la quale si ritroverebbe comunque estromessa.

Alla luce di tutti questi fattori, sebbene Erdogan si stia prodigando in appelli altisonanti, appare molto improbabile che si vada oltre la retorica. In questo senso l’intervento unilaterale appare quasi totalmente escludibile, come anche poco probabile sembrerebbe un’operazione congiunta con gli altri Stati della regione. In ultima analisi la questione torna ancora una volta all’avallo del Consiglio di Sicurezza o quanto meno a un’operazione coordinata dalle forze NATO. Al di là delle condanne senza appello, il Primo Ministro Erdogan sembra ancora e sempre in attesa dell’ombrello USA.

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INTERVISTA A XI JINPING ALLA VIGILIA DEL VERTICE SCO

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Intervista rilasciata a Pechino alla stampa estera dal Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping alla vigilia del vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai che si terrà a Bishkek.

Per gentile concessione dell’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese in Italia.

 

 

D: Si terrà il prossimo 13 settembre la tredicesima Sessione del Consiglio dell’ Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO ) a Bishkek . Quali sono le Sue aspettative e valutazioni sul vertice?

R: Sin dalla fondazione della SCO, l’Organizzazione ha compiuto dei passi solidi nella cooperazione in campo politico, negli affari di sicurezza, nonché nei settori economico e culturale, il SCO risulta essere un’organizzazione importante per mantenere la sicurezza e la stabilità della regione. E’ già stata raggiunta l’unanimità tra i paesi membri sul fatto di promuovere uno sviluppo più veloce e migliore della SCO per raggiungere gli obiettivi comuni.

Il vertice di Bishkek sarà convocato per due motivi importanti. Il primo, ci sono stati dei nuovi e importanti mutamenti nella regione e nel mondo. Lo scenario globale sta subendo una trasformazione profonda. La turbolenza nel Medio Oriente e nell’Africa magrebina non cessano neanche per un giorno e il problema afgano sta subendo delle complicazioni costanti, tutti questi problemi costituiscono nuove sfide ai membri della SCO. Nel frattempo, si stanno notando anche il dinamismo e le grandi potenzialità dei paesi dei mercati emergenti che costituiscono grandi opportunità allo sviluppo della SCO. Secondo, è molto importante che il Trattato di Amicizia tra Paesi Confinanti della SCO a Lungo Termine entrato in vigore abbia portato ad un salto di qualità delle collaborazioni tra i paesi membri della SCO e ciò rafforzerà la capacità della stessa Organizzazione di far fronte alle varie minacce e sfide. Perciò, ritengo che questo vertice sarà un passo importante per la SCO e sarà un’occasione per  pianificare e preparare la successiva fase di sviluppo della Organizzazione, rendendola idonea a rispondere ai cambiamenti sopraccitati.

Ritengo che sia indispensabile incarnare lo Spirito di Shanghai caratterizzato da fiducia e benefici comuni. E’ importante consolidare i risultati ottenuti in due sfere: uno, il perfezionamento del proprio sviluppo, il miglioramento nella costruzione delle capacità, la promozione dell’efficienza ed il livello collaborativo dell’Organizzazione; due, il rafforzamento del partenariato dei paesi membri e la cooperazione con gli osservatori e gli altri partner esterni tramite misure concrete. Quando si lancia la strategia di sviluppo regionale è molto importante avere la partecipazione di tutte le parti interessate.

Ritengo che ci sono tre compiti da assolvere come priorità cioè il mantenimento della sicurezza, un maggiore sviluppo dell’economia ed il miglioramento del tenore di vita dei popoli sanciti dalla Pianificazione Strategica dello Sviluppo della SCO a Medio Termine per dare un beneficio concreto e visivo ai cittadini dei paesi membri.

Durante il vertice, oltre ad illustrare le posizioni della parte cinese, desidero sentire soprattutto le opinioni dei colleghi. Sono convinto che, grazie agli sforzi congiunti di tutti i membri, il vertice sarà coronato da un pieno successo e inaugurerà un nuovo capitolo nel processo di sviluppo dell’Organizzazione.

 

D: Le collaborazioni nel settori della sicurezza e dell’      economia costituiscono due delle direzioni principali dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. Secondo Lei, in che modo la SCO potrà migliorare queste due funzioni nel futuro?

R: Nel corso dei 12 anni passati dalla fondazione della SCO, i paesi membri sono già diventati una comunità di reciproco interesse e i loro destini sono legati più che mai . Affrontandosi la complessa situazione regionale e internazionale, La SCO ha tenuto, sta tenendo e terrà sempre prioritarie la sicurezza, la stabilità regionale e la promozione di uno sviluppo coerente dei paesi membri.

Per quanto riguarda la sicurezza, i paesi membri sostengono gli impegni di ogni paese membro per salvaguardare la sicurezza nazionale, la stabilità sociale e combattere ulteriormente il terrorismo, il separatismo, l’estremismo ed il traffico delle droghe. Non si può trascurare che recentemente si sta intensificando l’interconnessione tra il terrorismo regionale ed il crimine nel trasporto degli stupefacenti. Gli impegni anti-terroristici e anti-narcotici ormai sono diventati un lavoro sistematico che va affrontato con grande serietà. La parte cinese ritiene che sia essenziale delegare alla SCO la funzione sia anti-terroristica che anti-narcotica regionale e rafforzare ulteriormente la sua capacità di rompere la connessione tra il terrorismo e la droga.

Nell’ambito economico, i paesi membri devono promuovere le collaborazioni con pragmatismo. L’obiettivo finale del nostro lavoro, quello di mantenere la sicurezza e la stabilità regionale, non potrà essere realizzato senza la prosperità comune. I membri devono accelerare le implementazioni dei progetti collaborativi nel settore dei trasporti, energia, comunicazione, agricoltura ecc. Si deve puntare alla creazione di una Banca di Sviluppo SCO per dare uno strumento finanziario ai paesi membri per affrontare la crisi internazionale. Nel contempo, per usufruire dei vantaggi altrui, la SCO deve consolidare le collaborazioni in modo pragmatico con altri meccanismi multilaterali che sono attivi nella regione.

La Cina sostiene da sempre lo sviluppo della SCO. Da anni la Cina scambia con gli altri paesi membri delle esperienze di assistenza giuridica e fornisce agli altri paesi membri  condizioni vantaggiose per la cooperazione economica, affinché essi possano formare i loro professionisti per lo sviluppo nazionale e per affrontare l’impatto della crisi congiunturale con sforzi congiunti. La Cina, insieme con gli altri paesi membri della SCO, determinerà un futuro promettente per l’Organizzazione di cooperazione di Shanghai.

 

D: Pochi giorni fa si è concluso il Vertice del G20 a San Pietroburgo, secondo Lei perché il G20 può giocare un ruolo importante nell’affrontare la crisi finanziaria internazionale? Nei confronti degli altri meccanismi di cooperazione internazionali della finanza, quali sono le caratteristiche del G20? Come valuta la Cina la funzione del G20 nel mondo attuale?

R: Il G20 viene composto sia dai paesi sviluppati che quelli emergenti. Il G20 riflette il cambiamento dell’economia mondiale e la tendenza dello sviluppo delle relazioni economiche globali.

Dopo la crisi finanziaria scoppiata nel 2008, il G20 è stato definito come forum principale della cooperazione internazionale dell’economia, il G20 promuove nella comunità internazionale il coordinamento delle politiche macroeconomiche. Grazie alle misure prese finora dal G20, l’economia mondiale è stata in grado di risollevarsi dall’ombra della crisi finanziaria passo dopo passo. Il G20 ha dato luce alla riforma sulla distribuzione delle quote del FMI e dei diritti di voto nella Banca Mondiale, la trasformazione del Financial Stability Board in modo più rappresentativo, nonché il ruolo centrale del WTO nel commercio internazionale. Il G20 ha dato un contributo rilevante per perfezionare la governance dell’economia mondiale.

Adesso, il G20 sta mutando da un meccanismo di gestione della crisi ad un organo di governance economica mondiale di lungo termine. Se i paesi membri continueranno a contare sullo spirito di solidarietà e sul partenariato pubblico-privato, per rafforzare ulteriormente il coordinamento di politiche macroeconomiche, migliorare la governance economica di ogni paese, riformare il meccanismo finanziario globale e promuovere la libertà commerciale, il futuro del nostra pianeta sarà nelle mani del G20.

 

D: Lei come vede l’attuale rallentamento economico della Cina? Quali sono le prospettive dell’economia cinese?

R: Credo che le fondamenta dell’economia cinese siano ancora buone. Nel primo semestre di quest’anno, il PIL cinese è cresciuto del 7.6%, che è stato relativamente elevato rispetto ad altri paesi. Infatti, il tasso di crescita avrebbe potuto essere maggiore se avessimo continuato il vecchio modello di sviluppo del passato. Invece  abbiamo voluto scegliere una politica diversa per proseguire l’aggiustamento della struttura economica nazionale e ottenere un futuro sviluppo economico sostenibile. Preferiamo sacrificare un pò il tasso di crescita, per risolvere dei problemi fondamentali che ostacolano lo sviluppo economico di lungo periodo. In questo senso, l’abbassamento del tasso di crescita è il risultato di una regolazione benigna.

In termini specifici, il nostro avanzo delle partite correnti è molto  ragionevole, così come riconosciuto a livello internazionale. Siamo concentrati in forze sul miglioramento delle politiche per la previdenza sociale, per stabilizzare e ampliare l’occupazione.  Nel primo semestre di quest’anno, abbiamo creato 7,25 milioni di posti di lavoro. Siamo infatti di fronte a delle difficoltà come il debito delle amministrazioni locali e l’eccesso di capacità produttive in alcuni settori ecc., ma questi problemi sono tutti sotto controllo e abbiamo la capacità di gestirli.

L’economia cinese, la seconda più grande al mondo, è integrata altamente con l’economia mondiale. Lo sviluppo economico della Cina ha dato un grande contributo alla ripresa dell’economia mondiale. Una Cina con l’economia più stabile e sana con alta qualità di crescita e una migliore prospettiva di crescita sostenibile fa presagire indubbiamente un miglioramento per l’economia mondiale. Abbiamo delle buone condizioni per realizzare uno sviluppo sano dell’economia cinese e, continueremo ad ampliare il nostro mercato, favorendo uno spazio di sviluppo più ampio per gli altri paesi del mondo e sono sicuro che questo genererà effetti positivi per l’economia globale.

 

 

Revisione a cura di Stefano Vernole, redattore di “Eurasia”.

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I RAPPORTI RUSSO-TEDESCHI NEL PERIODO UNIPOLARE

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Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, l’elezione alla presidenza di Boris Eltsin trascina la politica estera russa in una fase di stallo, se non di decadenza, che in breve tempo rimette in discussione completamente l’assetto geopolitico dello spazio imperiale divenuto nel frattempo ex-sovietico. Le relazioni con Washington, più che placarsi, sembrano divenire in quegli anni a dir poco accondiscendenti. Alle provocazioni geopolitiche degli Stati Uniti che, a seguito della ritirata sovietica, si portano ad accerchiare l’ex-superpotenza, Mosca non risponde.

Sono anni durissimi anche per l’economia che, una volta perso il monopolio statale e il principio della pianificazione, viene piegata al saccheggio e al profitto privato di pochi uomini, che in breve tempo arriveranno a mettere le mani sui gioielli pubblici a prezzi scontati, arricchendosi così di denaro e potere.

Sono anni dunque in cui la politica estera è pressoché inesistente, e i rapporti con la Germania non possono che risentirne. Nonostante ciò, il crollo del muro di Berlino e la riunificazione tedesca, con l’assorbimento della Repubblica Democratica nella Germania dell’Ovest, obbligano i due Stati a confrontarsi. Finalmente si può procedere alla costruzione di un’Unione Europea più efficiente, dal punto di vista euro-atlantico, che, oltre ad allargare i propri confini nello spazio ex-sovietico, può avvicinare la nuova Russia alla stessa struttura, a condizioni tuttavia a dir poco umilianti per una tradizione secolare come quella dello Stato russo. Il tentativo di occidentalizzare la Russia per introdurlo nell’architettura europea che va consolidandosi, portato avanti in particolare da Helmut Kohl (cancelliere tedesco dal 1982 al 1998), parve avere un discreto successo, almeno fino al crollo definitivo di Eltsin, e la scalata di Evjenij Primakov prima e Vladimir Putin poi, che cambiano le carte in tavola, rimettendo in sesto alcuni equilibri e tentando di riguadagnare le posizioni geopolitiche gettate al vento negli anni della disastrosa politica postsovietica. La Germania, tuttavia, si mostra sin da subito piuttosto cauta, esempio ne è il rifiuto di introdurre l’Ucraina nella NATO, considerato un affronto sin troppo pesante all’orso dormiente [1].

Con il crollo dell’Unione Sovietica, tuttavia, non si giunge all’ottimistica “fine della storia” fin troppo frettolosamente decantata da numerosi pensatori occidentali. In realtà si apre la fase dell’unipolarismo statunitense, che avrà il suo apice negli interventi militari unilaterali a cui nessuno oserà rispondere (salvo Cina e Russia in occasione dell’aggressione ai danni della Jugoslavia). L’era dell’unipolarismo, tuttavia, assume ben presto la sua fase calante, e il ritiro progressivo dell’imperialismo americano, in particolar modo dal mediterraneo, apre nuovi spazi di manovra, grazie alla frattura multipolare in via d’assestamento (i BRICS ne sono un esempio attualissimo). In tali spazi sembra muoversi anche Berlino (a differenza di Parigi e Roma), seppur con estrema cautela. In particolar modo la frattura geopolitica ha il vantaggio di offrire una limitata, ma senz’altro più grande rispetto al passato, libertà geoeconomica. Così, lentamente, comincia a ricostruirsi un partenariato strategico, anche se soprattutto economico, fra Berlino e Mosca. Ad oggi sono 6.000 le imprese tedesche in territorio russo. Esemplificativa di tale alleanza, è l’istituzione dell’Eurasia Rail Logistic, attraverso la quale i tedeschi iniziano una modernizzazione strategica delle linee ferroviarie russe (con la realizzazione di linee ad alta velocità e soprattutto la modernizzazione della transiberiana (una linea da sempre considerata strategica per l’alleanza eurasiatica) [2]. L’alleanza sembra insomma andare in via di definizione, e questa volta in senso strategico. Si tratta tuttavia di un percorso a tappe, che ha il suo apice negli anni della cancelleria di Gerhard Fritz Kurt Schröder (1998-2005).

 

 

Schröder – Putin: “Eine Strategische Partnerschaft”

Con Schröder vengono poste le basi per un’intesa strategica ed energetica fra le due potenze continentali. Appare sin da subito chiaro che il fulcro dell’alleanza che si va componendo è senz’altro l’amicizia personale fra i due capi di Stato, ed è su di loro che l’asse orizzontale si incentra, progredendo a vista d’occhio, sia sull’intesa energetica e su quella strettamente economica. Si può parlare, a tal proposito, di una verticalizzazione tra i due uomini. Tra questi si verificavano consultazioni annuali sin dal 1998 (data d’insediamento di Schröder alla cancelleria). La profonda amicizia tra i due appare incontestabile. Nel 2004, un giornalista televisivo chiede provocatoriamente al Cancelliere: “Putin è un democratico esemplare?”, domanda a cui il tedesco risponde con un altrettanto provocatorio “Esattamente così” [3]. L’appoggio all’amico russo non tarderà ad arrivare nemmeno nell’affare Khodorkovsky. Certo, l’amicizia personale non era fine a se stessa, ma muoveva da alcune condizioni che il cancelliere aveva correttamente valutato come necessariamente sfocianti in una partnership speciale con la Russia. Innanzitutto il mercato russo, con la stabilità politica portata da Putin, cominciava a diventare seriamente uno dei mercati più appetibili del mondo, proprio nel momento in cui la Germania, di contro, registrava un brusco aumento del deficit, a ciò si aggiungevano motivazioni geopolitiche: in quegli anni cominciavano a porsi le basi per una pur lieve frattura nei rapporti con gli Stati Uniti, dovuti alla necessità economica della Germania di espandere autonomamente la propria influenza politica ed economica, indipendentemente dal consenso di Washington; la Russia inoltre rappresentava un partner con cui era inevitabile confrontarsi nell’ottica di una stabilizzazione della situazione nella regione balcanica, che nel frattempo si era fatta a dir poco calda; infine, l’alleanza con la Russia poteva servire alla Germania anche per avere un fedele alleato nella battaglia che quest’ultima intendeva muovere all’interno dell’ONU, ritenendo ormai illogico e fuori dalla storia la mancanza di un seggio permanente in sede del consiglio di sicurezza per quella che era ed è una delle più grandi potenze economiche e politiche del mondo [4]. Nel 2000 l’integrazione economica, già avviata da qualche anno, trova il suo pieno rafforzamento nell’istituzione della Task Force for strategic issues of economic and financial cooperation [5]. Per quel periodo dunque, può avere un senso parlare di un appoggio incondizionato della Germania nei confronti del regime russo. Di contro, se fra i due governi l’intesa è totale, nella politica tedesca comincia a farsi strada un certo malcontento. Le critiche giungono soprattutto dall’opposizione guidata dalla CDU (la socialdemocrazia era al governo con i verdi). Il sostegno, che tuttavia non manca, viene grazie agli enormi interessi finanziari ed economici. Nel 2004 lo scambio fra i due paesi raggiunge la cifra record di 24 miliardi di dollari, avvicinando la Germania a Bielorussia e Ucraina, e distanziandola nettamente dagli altri paesi europei, a dimostrazione della relazione speciale intercorrente fra i due paesi all’interno del continente eurasiatico. A suggellare l’amicizia, nel 2006, vi è la cessione da parte tedesca alla Russia della presidenza del G8 [6].

Nel 2001 Vladimir Putin tiene un discorso al Reichstag davanti a tutti i parlamentari tedeschi. In quell’occasione viene suggerita da quest’ultimo l’ipotesi di una collaborazione con l’Unione europea per la gestione comune delle risorse energetiche siberiane. Una proposta che Schröder coglie, più degli altri parlamentari, nella sua portata rivoluzionaria, pur non riuscendo a sviluppare il progetto. Qualche anno dopo il cancelliere tedesco avanzerà a sua volta la proposta di uno spazio comune economico tra l’Unione Europea e la Russia, al fine di porre le basi per un’integrazione di lunga data, sul modello della CECA europea, che contribuì nel dopoguerra a sanare lo scontro storico fra Francia e Germania. Entrambe le proposte tuttavia, cadranno nel dimenticatoio, convertite in forme di collaborazione più blande o comunque più specifiche: è il caso ad esempio del North Stream, progetto che cominciò a farsi strada nel 2005.

Il fattore energetico, come già detto, sarà infatti il punto cardine su cui si costruirà l’asse Berlino-Mosca, che andrà di conseguenza ad indebolire l’amicizia tedesca con Washington (il cui picco negativo si verificherà nel 2003, in occasione della guerra statunitense in Iraq). Nel 2009 l’Europa dipendeva per ¼ dalla Russia, per quanto riguarda il fabbisogno di gas (oggi è ancora più dipendente dalla produzione russa)[7]. Questo, naturalmente, valeva soprattutto per la Germania, un’economia in forte espansione anche grazie al cinico districarsi nella struttura dell’eurozona. Per quanto riguarda la politica energetica dunque, Germania e Stati Uniti avevano, ed hanno, una visione totalmente diversa, quasi incompatibile. L’interesse statunitense infatti, che non coincide con quello europeo, è sempre stato quello di estromettere la Russia, per quanto più possibile, dal rifornimento di gas all’Europa. In tale ottica va letto anche il tentativo di avvicinare l’Ucraina, con un discreto successo iniziale, in modo da tagliare i ponti con l’Europa. A questo scopo nasce il progetto Nord Stream, a seguito di profonda collaborazione con il cancelliere tedesco. Un progetto che verrà contrastato dagli Stati Uniti attraverso la proposta del progetto Nabucco. Mentre infatti il progetto russo-tedesco (gasdotto oggi attivato e funzionante) mirava ad aggirare Ucraina e paesi baltici, evitando così eventuali terremoti geopolitici in quelle aree d’equilibrio precario, il Nabucco avrebbe completamente tagliato fuori la Russia, prelevando il gas dall’Azerbajan (per altro dotata di risorse molto più moderate nel campo). Un progetto che verrà rigettato, successivamente, anche dalla più fredda Angela Merkel. In quest’ottica vanno letti i numerosi appelli statunitensi per la “diversificazione” della domanda di risorse energetiche, appelli puntualmente caduti nel vuoto, dato l’interesse tedesco per l’offerta russa. Naturalmente la tiepida rottura con Washington in campo energetico non fa della Germania un partner strategico della Russia. L’alleanza con gli Stati Uniti e la piena adesione al patto atlantico rimangono fatti incontestabili. La politica estera tedesca è una politica timida, che tende a non tirare troppo la corda, usufruendo degli spazi geopolitici che si aprono, e di cui necessita per l’espansione economica. L’amicizia, tuttavia, continua con una certa costanza, e nel 2003 i due paesi trovano addirittura un accordo per il passaggio delle truppe tedesche attraverso il territorio russo, per raggiungere l’Afghanistan, ove il governo di Berlino si era nel frattempo andato ad impegnare[8]. Si tratta di un accordo senza precedenti, nell’ambito della cooperazione contro il terrorismo; tale concessione, per altro, ha il merito di mettere la Russia sotto un’altra luce nel contesto della questione cecena e della lotta al terrorismo [9].

La grande capacità di Schröder, oltre alla profonda amicizia, stava nell’aver compreso la necessità di fare affari con la Russia passando direttamente per lo Stato, senza cercare di bypassarlo. Un fatto, quest’ultimo, verso il quale l’intransigenza russa sarà dimostrata in occasione del tentativo inglese di fare affari direttamente con gli oligarchi anti-Putin. Un fatto che non verrà facilmente perdonato alla Gran Bretagna. Di contro, il cancelliere tedesco si mostrerà estremamente pragmatico. In occasione di una delle tante cene di lavoro, che egli volle tenere presso la cancelleria, furono invitati alcuni magnati russi (previo consenso del Cremlino), mentre non fu invitato Khodorovsky [10].

 

 

L’asse diplomatico contro l’intervento in Iraq

Per l’intervento statunitense in Iraq, Berlino e Mosca, affiancate da Parigi, costruiscono un asse contingente e con una funzionalità meramente tattica che lavora diplomaticamente per contrastare l’eventualità di una guerra. Un asse che, partito tardi e mai decollato in un fronte con visione strategica, registrerà un grande insuccesso, non riuscendo ad impedire l’intervento e, di conseguenza, a contrastare il proseguimento dell’unipolarismo statunitense. Le tre potenze eurasiatiche mostreranno dunque la loro scarsa maturità geopolitica, pur opponendosi strenuamente in seno al consiglio di sicurezza, tanto che gli Stati Uniti saranno costretti ad intervenire al di fuori del consenso delle Nazioni Unite.

L’evento ha comunque una portata storica, essendo la prima volta in cui la Repubblica Federale Tedesca si oppone strenuamente ad una decisione della casa bianca. Inizialmente, Russia e Germania apportano un’opposizione solitaria, senza cooperare fra di loro. L’1 gennaio del 2003, la Germania acquisisce di diritto un seggio non permanente al consiglio di sicurezza, secondo il metodo rotativo istituito dall’ONU. E’ qui che viene proposta la “soluzione pacifica” che comunque arriva in extremis, a poche settimane dall’intervento statunitense. In tale occasione, comunque, Putin ci terrà a precisare che, nonostante l’opposizione alla guerra, l’intenzione di rompere interamente con Washington non verrà presa in considerazione, né verranno fatti tentativi per romperne l’alleanza con la Germania. In coerenza con queste parole, infatti, il contrasto dell’asse anti-interventista sarà caratterizzato da una notevole timidezza, e l’opposizione sarà presentata come una diversa interpretazione della legalità internazionale, più che come un’opposizione dettata da contrastanti interessi geopolitici. In contrasto, invece, con le stesse parole, vi sarà il tentativo, questa volta più coraggioso, espresso a parole qualche giorno dopo. Oltre a ribadire l’intento di porre il veto in sede del consiglio di sicurezza, con il dichiarato appoggio francese, il presidente russo dichiarerà la propria speranza che l’asse possa dimostrarsi “il primo mattone della costruzione di un mondo multipolare”[11]. Nel marzo dello stesso anno i ministri degli esteri dei tre paesi del “fronte”, Joschka Fischer, Dominique de Villepin e Igor Ivanov, si incontrano a Parigi. Il cinque dello stesso mese elaborano una dichiarazione congiunta: i tre paesi annunciano l’intenzione di operarsi nel massimo delle proprie capacità diplomatiche al fine di bloccare l’iniziativa statunitense, ricorrendo anche, laddove possibile, all’utilizzo del veto. Il 15 marzo, a seguito della rapida escalation che va registrandosi, profilando la guerra quasi come inevitabile, i tre paesi chiedono una riunione d’emergenza del consiglio di sicurezza con l’amministrazione Bush, una proposta rapidamente e freddamente respinta. La decisione è infatti già stata presa. Il 17 marzo l’amministrazione statunitense lancia un ultimatum a Saddam Hussein, il 20 marzo ha ufficialmente inizio la guerra. Per quanto riguarda l’asse, esso non avrà alcun seguito, e si scioglierà successivamente, pur continuando Germania e Russia a collaborare fittamente nel campo economico ed energetico.

 

*Marco Zenoni è laureando in Relazioni Internazionali all’Università di Perugia





[1] “Germany and Russia: a special relationship” di Alexander Rahr (pdf: http://gees.org/documentos/Documen-02312.pdf)
[2] http://www.eurasia-rivista.org/germania-russia-lalleanza-eurasiatica/16549/
[3] “Russia and Germany: continuity and changes” di Andrei Zagorsky (pdf consultabile online)
[4] Ibidem
[5] Ibidem
[6] Vd. Limes 2011 – n° 4, “L’asse Berlino-Mosca è più solido che mai”
[7] Vd. Limes 2009 – n° 3, “La nuova Ostpolitik che allarga l’atlantico”
[8] “Russia and Germany: continuity and changes” di Andrei Zagorsky (pdf consultabile online)
[9] “The German-Russian relations: trading democracy for Security and Stability?” – Deutsche-aussenpolitik.de; your gateway to german foreign policy. (pdf consultabile online)
[10] Vd. Limes 2011 – n° 4, “L’asse Berlino-Mosca è più solido che mai”
[11] Cfr. “The German-Russian relations: trading democracy for Security and Stability?” – Deutsche-aussenpolitik.de; your gateway to german foreign policy. P. 18 (pdf consultabile online)

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IL TERRITORIO LIBERO DI TRIESTE, LA NUOVA UTOPIA

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Uno spettro si aggira per le strade di Trieste ed ha avuto anche l’attenzione di qualche testata nazionale che non sapeva come riempire le proprie pagine durante il periodo estivo: il TLT!

Tale acronimo indica il cosiddetto Territorio Libero di Trieste, previsto dal Trattato di Pace che l’Italia firmò il 10 febbraio 1947 a Parigi e che sancì cospicue perdite territoriali: le colonie, i valichi confinari con la Francia di Briga e Tenda, ma soprattutto al proprio confine orientale la neonata Repubblica italiana vide svanire quasi del tutto le conquiste maturate al termine della Grande Guerra. Dopo le tragiche vicende che coinvolsero anche i civili durante il conflitto e nell’immediato dopoguerra, Fiume, la Dalmazia e gran parte dell’Istria risultavano assegnate alla rinata Jugoslavia, ma restava ancora in sospeso una questione: il futuro di Trieste. Per l’Italia, era il simbolo della fase finale del Risorgimento, la città che, assieme alla “gemella” Trento, doveva essere annessa a tutti i costi per completare il percorso di unificazione nazionale. D’altro canto il capoluogo giuliano costituiva anche la struttura portuale maggiormente sviluppata del litorale adriatico orientale, la sua comunità slava autoctona si era ampliata nella fase finale dell’Impero austro-ungarico e quindi la Jugoslavia di Tito faceva pressioni su Stalin affinché l’URSS in sede diplomatica sostenesse anche questa rivendicazione territoriale che nella primavera 1945 si era fugacemente già concretizzata. Il 10 giugno 1945 un accordo fra angloamericani e jugoslavi aveva però posto fine all’occupazione jugoslava della città, durata quaranta giorni. In attesa delle decisioni della Conferenza di Pace, la Venezia Giulia venne spartita lungo la cosiddetta Linea Morgan (dal nome dell’ufficiale britannico che la propose) in una Zona A sotto Amministrazione Militare anglo-americana, comprendente Trieste, Gorizia e l’enclave di Pola ed in una Zona B sotto Amministrazione Militare jugoslava, comprendente l’entroterra triestino e goriziano e tutta l’Istria, laddove l’assegnazione di Fiume e di Zara alla nuova compagine statale jugoslava era già fuori discussione.

In sede di Conferenza di Pace, all’Italia venne restituita la sovranità su Gorizia, benché mutilata del suo entroterra, si ratificavano le annessioni jugoslave in Istria e Dalmazia, ma la città di Trieste rimaneva in sospeso. Cominciavano le prime frizioni nel fronte antifascista internazionale, il blocco occidentale si stava irrigidendo al cospetto dell’URSS, in Cina era ricominciata la guerra civile tra nazionalisti e comunisti ed in Europa stava per calare quella che Winston Churchill avrebbe definito la “cortina di ferro”. La Jugoslavia appariva agli occhi delle potenze occidentali saldamente ancorata a Mosca, quindi le sue rivendicazioni non potevano essere esaudite del tutto e l’Italia nata dalla resistenza non poteva essere punita troppo pesantemente in termini di cessioni territoriali. Si decise di congelare la situazione prevedendo la costituzione del Territorio Libero di Trieste, suddiviso nuovamente in una Zona A sotto Governo Militare Angloamericano ed una Zona B sotto Amministrazione Militare Jugoslava, comprendenti rispettivamente la città di Trieste (tra il fiume Lisert e la località di Muggia) ed uno spicchio di costa istriana che giungeva sino al fiume Quieto. Garante dell’unità di queste due amministrazioni doveva essere un Governatore nominato dall’ONU, cosa che mai avvenne per l’impossibilità delle grandi potenze che sedevano in Consiglio di Sicurezza di trovare un accordo. Fu così che nella Zona B proseguì un’opera di assimilazione alle strutture statuali della nuova Jugoslavia (contravvenendo così a quanto previsto dalle leggi di guerra in merito alle Amministrazioni Militari), vanamente contrasta dai timidi tentativi di ricostituire un Comitato di Liberazione Nazionale, che in definitiva si risolse in un’organizzazione che coordinò l’esodo delle migliaia di italiani che non accettavano l’opzione jugoslava.

Nella Zona A, invece, vennero al pettine vari nodi della diplomazia internazionale. L’amministrazione angloamericana si trovò a disposizione un porto che, pur vantando illustri trascorsi, già nel periodo fra le due guerre mondiali aveva vissuto una crisi profonda, sia per la concorrenza di Venezia sia per l’incapacità di mantenere i contatti commerciali ed economici con quello che era stato il suo retroterra mitteleuropeo in epoca asburgica. Nella primavera 1945 gli angloamericani avevano tentato dapprima di vincere quella che gli storici chiamarono “la corsa per Trieste” e poi respinsero Tito, il quale aveva pur vinto quella “corsa” giungendo nella città contesa il primo maggio con quasi ventiquattr’ore di anticipo sulle avanguardie neozelandesi, non tanto per fare un favore alla cobelligerante Italia, quanto per avere un porto da cui rifornire le proprie truppe che sarebbero andate a presidiare Austria e Germania meridionale, regioni con cui i collegamenti erano ben tracciati fin dai tempi della dominazione austriaca. Una volta entrato in vigore il Trattato di Pace (15 settembre 1947) la città di San Giusto risultava un’enclave sospesa tra i due blocchi che andavano contrapponendosi e quindi senza alcuna possibilità di sviluppo, per cui il GMA ben pensò di inondare di dollari e di sovvenzioni una città privata del suo entroterra, con un tessuto industriale quasi del tutto azzerato e che si stava riempiendo di profughi in fuga dall’Istria. D’altro canto erano presenti anche agenti che, sovvenzionati da Belgrado, portavano avanti una propaganda che faceva leva sulle prospettive di sviluppo economico e commerciale che l’appartenenza alla Jugoslavia avrebbe assicurato. Pochi mesi dopo si sarebbe consumato lo strappo tra Tito e Stalin, per cui nel fronte comunista giuliano a tali iniziative filojugoslave si contrapposero gli esponenti del PCI che, per coerenza con la linea cominformista, riscoprirono il proprio patriottismo e si avvicinarono alle posizioni degli altri partiti italiani presenti in città: in un momento di particolare tensione internazionale, il segretario provinciale comunista Vittorio Vidali assicurò al sindaco democristiano Gianni Bartoli che, in caso di un colpo di mano titoista su Trieste, avrebbe messo a disposizione propri gruppi armati per respingere le truppe jugoslave. Timidamente, ma neanche troppo, operava anche il governo di Roma: le recenti indagini storiche negli archivi dell’Ufficio Zone di Confine costituito all’epoca presso la Presidenza del Consiglio e presieduto dal giovane Sottosegretario Giulio Andreotti, hanno ben dimostrato come gruppi patriottici, ma anche di ex fascisti, ricevessero sostegni economici per sviluppare azioni di propaganda, pubblicazioni, attività associative e quant’altro potesse controbattere la propaganda filojugoslava: a solo titolo di esempio, nel rione popolare di Ponziana venne mantenuta in vita una squadra di calcio (il Ponziana, appunto) quasi omonima al sodalizio (l’Amatori Ponziana) che era stato affiliato con l’inganno al campionato federale jugoslavo. Insomma a Trieste arrivavano soldi da tutte le parti ma le fabbriche non lavoravano, il porto era fermo ma ognuno riceveva sussidi per portare avanti battaglie propagandistiche dall’una o dall’altra parte e per giunta arrivano cospicue e tutt’altro che disinteressate elargizioni nell’ambito del Piano Marshall: il benessere economico, tanto decantata dagli attuali indipendentisti, era di fatto frutto di artificiosità. Nel corso dei lavori della Conferenza di Pace il Senatore statunitense Connally aveva auspicato che “il TLT non [fosse] uno Stato di carta. Deve essere uno Stato reale. Con la sua indipendenza e dignità”. Indipendenza che mai vi fu poiché nella Zona A le autorità angloamericane agivano a loro discrezione, parteggiando sicuramente per le rivendicazioni italiane, ma non ponendosi problemi a sparare sulla folla cagionando morti e feriti allorché le manifestazioni per l’italianità si alzavano eccessivamente di tono, come avvenne nel novembre 1953; la Zona B di fatto era già annessa alla Jugoslavia ed un ipotetico Governatore che avesse voluto far valere le proprie prerogative avrebbe potuto anche rischiare il linciaggio da parte delle folle aizzate dalle autorità locali, come era accaduto al Vescovo di Trieste e Capodistria Antonio Santin quando si recò ad impartire Cresime nel capodistriano. Sembra fuori luogo parlare di dignità per uno staterello per giunta diviso in due parti non comunicanti e che era evidentemente destinato ad un’esistenza breve ancorché travagliata, come era successo ad altre città contese alla fine della Grande Guerra (la limitrofa Fiume, Danzica e Memel) e su cui la Società delle Nazioni, antenata dell’ONU, avrebbe dovuto fare da garante. Si trattava di soluzioni provvisorie, in attesa che la diplomazia o nella peggiore delle ipotesi le armi stabilissero un confine netto, sovente anche infischiandosene dei tanto decantati diritti di autodeterminazione dei popoli, introdotti capziosamente nel linguaggio delle relazioni internazionali da Woodrow Wilson e ripresi pure nella Carta Atlantica.

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La situazione rimase in sospeso fino al 1954 appunto, poiché nel frattempo Tito, pur dichiarandosi Non Allineato, si era di fatto avvicinato con una serie di accordi regionali alla NATO, nella quale l’Italia era entrata invece a pieno titolo, quindi gli angloamericani non potevano scontentare né Roma né Belgrado. Dopo complesse trattative diplomatiche, il Memorandum di Londra dette l’amministrazione civile della Zona A all’Italia e della Zona B alla Jugoslavia, laddove le rispettive sovranità sarebbero state istituite bilateralmente solamente in seguito al Trattato italo-jugoslavo di Osimo del 1975.

Si trattò in definitiva di uno scenario molto complesso, in cui questo TLT a essere generosi fece la parte del convitato di pietra, poiché di fatto, non essendone mai stato nominato il Governatore, mai nacque, come sostenuto dall’insigne giurista Angelo Ermanno Cammarata, rettore dell’Università di Trieste, già nel 1949. Eppure la condizione di relativo benessere che allora si viveva in maniera artificiosa ed indotta solamente dagli opposti interessi che qui venivano a confliggere, viene da alcuni mesi a questa parte evocata da un movimento indipendentista, che ritiene un sopruso la sovranità italiana. A questo punto fanno più bella figura coloro i quali rimpiangono i tempi dello sviluppo portuale ed imprenditoriale cittadino ai tempi dell’Austria, allorché lo scalo giuliano prosperava con una serie di traffici e collegamenti con l’Europa centro-orientale che in effetti l’Italia non fu mai in grado di ripristinare. Va anche detto che il “Fondo Trieste” che dal 1955 in poi fece affluire miliardi sulla città si rivelò una forma di assistenzialismo che andò a surrogare le precedenti cospicue entrate finanziarie che giungevano, come abbiamo visto, dalle più disparate provenienze. Nessuna forza imprenditoriale locale, nessuna capacità d’iniziativa cittadina ha saputo usare tali contributi, ormai da tempo estinti, per avviare qualcosa di concreto ed in grado di ripristinare gli antichi fasti locali.

D’altro canto se guardiamo all’epoca di maggior splendore economico locale, scopriamo che un piccolo porto di pescatori, geloso della sua autonomia, nel 1382 aveva scelto la “dedizione” all’Austria, vista come un potere abbastanza lontano da lasciare in vigore usi e consuetudini autoctoni, ma abbastanza potente da tenere alla larga le mire dell’allora imperante Repubblica di Venezia. Questa oziosa beatitudine s’interruppe con l’istituzione del Porto Franco nel 1717, un evento che trasformò l’assetto urbanistico cittadino ed avviò un vorticoso sviluppo economico, i cui principali protagonisti erano tuttavia imprenditori giunti dal resto dell’Impero, dalla Serbia, dalla Grecia, dall’Armenia o ebrei che avevano colto le potenzialità di sviluppo della città, i cui abitanti si accontentavano di farsi assumere e di migliorare il proprio livello economico, ma senza prendersi il rischio d’impresa. Eppure gli indipendentisti odierni sono sicuri che, una volta costituito il TLT, una classe dirigente locale saprà sviluppare le potenzialità di Trieste sotto l’egida del Governatore finalmente nominato dall’ONU, il cui Consiglio di Sicurezza, incapace di deliberare in maniera efficace sugli scenari di crisi internazionale, troverà un momento di olimpica pace e di concordia per rispolverare il Trattato di Pace del 1947 ed attuarlo del tutto in un mondo che nel frattempo, en passant, è completamente cambiato. Certo, il TLT negli auspici del succitato delegato statunitense alla conferenza di pace doveva diventare uno Stato a tutti gli effetti, ma nella misura in cui si voleva costituire uno Stato fantoccio dotato di un interessante porto con possibile base militare annessa incuneato alle porte dei Balcani e dell’Europa centrale, un punto avanzato per impiantarvi le frequenze di Radio Free Europe. Si intendeva eventualmente fare di una provincia contesa un punto avanzato per le proprie mire egemoniche, come è avvenuto più tardi con il Kosovo, cui, oltre l’indipendenza è stata regalata pure la munitissima base militare di Camp Bondstell. Non che l’Italia repubblicana abbia disatteso parte di queste aspettative, poiché nella vicina Aviano aerei ed armamenti nucleari a stelle e strisce spadroneggiano e nel corso degli anni Novanta Trieste è stata punto d’appoggio privilegiato per le portaerei della US Navy impegnate nelle guerre della ex Jugoslavia: in effetti lo scalo giuliano rientra fra quelle strutture portuali, aeroportuali e militari cui le forze USA hanno già libero accesso e che punteggiano l’italico stivale.

Questi improvvisati esperti del diritto internazionale non hanno colto il senso di astrattezza e di illusorietà che permea tale materia, la quale è storicamente dimostrato che soggiace alla legge delle armi ed alla volontà del più forte. L’ONU cui questi separatisti fanno appello è d’altro canto lo stesso organismo che ha emesso una caterva di risoluzioni rimaste inattuate perché configgenti con gli interessi delle grandi potenze (basti pensare a tutte quelle indirizzate a Tel Aviv al fine di abbandonare i “Territori occupati”). Non è nemmeno ben chiaro come dovrebbe avverarsi questo fantomatico “passaggio di poteri” dalla sovranità italiana al mandato ONU: Se l’Italia si rifiutasse di lasciare “strada libera” all’indipendente territorio? Se l’Italia decidesse di porre un blocco commerciale ed economico su Trieste? Se l’Italia si rifiutasse di consegnare quando dovuto (fondi pensionistici, tasse, conti correnti) alla città “ribelle”? Se ci fosse un vero movimento popolare contrario all’indipendenza? Al momento il Movimento indipendentista (Movimento Trieste Libera),  si trincera dietro una risposta che sembra troppo ingenua per essere presa sul serio e che possiamo riassumere nell’assioma “se l’ONU ordina, l’Italia deve rispettare la decisione, altrimenti verranno inviati i Caschi blu a supporto della Guardia civica (dovrebbe trattarsi della polizia del TLT)”. A costoro non è neppure chiaro il concetto di “Stati successori” e pertanto limitano le loro rivendicazioni alla vecchia Zona A del TLT, attualmente sotto sovranità italiana, poiché la Zona B che passò alla Jugoslavia oggi risulta spartita tra Slovenia e Croazia. Può darsi che tale ignoranza affondi le proprie radici nel fatto che parlar male dell’Italia è sport nazionale radicato e di facile applicazione, laddove fa molta più paura il nazionalismo sloveno e croato, corroborato a suo tempo dalle guerre per distaccarsi dalla Jugoslavia ed oggi rinfocolato dall’ondata di euroscetticismo che ha accompagnato l’ingresso di Lubiana e Zagabria nelle strutture comunitarie europee. In effetti costoro il prossimo 15 settembre scenderanno in piazza a Trieste per ricordare che quel giorno nel 1947 entrò effettivamente in vigore il Trattato di Pace che avrebbe dovuto costituire il TLT, laddove dall’altra parte del confine avranno luogo manifestazioni dal forte carattere nazionalista in memoria del 15 settembre 1943, giorno in cui, nel caos conseguente all’8 Settembre, le forze partigiane slovene proclamarono l’annessione del litorale alla Slovenia, futura repubblica della Jugoslavia federale, laddove i loro compagni croati già alcuni giorni prima avevano decretato unilateralmente l’annessione della restante parte dell’Istria alla nuova futura Croazia.

I vessilliferi dell’indipendentismo locale vedono, pertanto, nel governo nazionale la causa di tutti i mali locali e portano ad esempio di sviluppo altre città-stato come Montecarlo o microstati che sono parimenti noti come paradisi fiscali e luoghi di riciclaggio di denaro sporco: Roma sarà anche ladrona, ma allora qua non si fa appello all’onestà fiscale e contributiva, ma alla gara a chi è più lestofante e bravo a fare giuochini finanziari. Viene anche sovente portata ad esempio Hong Kong: non è chiaro a tutti che questa città, che comunque a differenza di Trieste conta 7 milioni di abitanti, dapprima era una delle perle del Commonwealth britannico e oggi gode di un regime fiscale ed amministrativo straordinario, il quale, però, e perfettamente integrato nell’economia di una delle principali potenze economiche attuali che è la Cina. Ci troviamo, infatti, nell’epoca dei grandi spazi continentali, in cui entità con poco più di 200.000 abitanti come questo fantomatico TLT sarebbero ridicole se non supportate da qualche superpotenza. Per inciso, questo concetto non è estraneo nemmeno ad alcuni dei militanti del MTL, tanto che sul loro profilo Facebook non è difficile trovare esternazioni di gioia ogni qual volta una nave militare americana attracca nel porto di Trieste: arrivano, di nuovo, i “liberatori”?

Che l’Italia non abbia saputo finora valorizzare le potenzialità economiche e strategiche di Trieste è fuori di discussione, così come le classi dirigenti indigene poco hanno fatto, al di là di triti e ritriti proclami, per usufruire delle opportunità che gli sconvolgimenti geopolitici dell’Europa centro-orientale hanno creato vent’anni fa. Tuttalpiù è stato propagandato un nazionalismo sterile, acritico, fortemente anti-slavo, che ha castrato quelle che possono essere le direttive di sviluppo economiche e commerciali nel contesto geopolitico mitteleuropeo, che nessuno nega. Ma è altresì d’obbligo ribadire l’appartenenza culturale e nazionale della città al nord-est d’Italia. Dall’autonomismo dalmata ottocentesco fino a pensatori giuliani novecenteschi, non sono mancati stimoli autonomisti e progetti di creare entità statuali che facessero da cerniera tra i tre mondi che qui si intersecavano (latino, slavo e tedesco), ma si parlava di progetti di ampio respiro, che riguardavano un territorio che partiva dalla Dalmazia meridionale e giungeva sino alle Alpi Giulie, rispettoso dei diversi caratteri nazionali che qui insistevano. L’attuale movimento indipendentista presenta, invece, un carattere di anti-italianità esasperata, cui si accompagnano generosi messaggi slavofili, accompagnati dalla mancata rivendicazione della Zona B, al quale si sommano poco chiare fonti di finanziamento, che permettono, tra le altre cose, di organizzare manifestazioni di piazza, vasti volantinaggi, pubblicazione di un settimanale ad ampia diffusione e mantenimento di un’ampia sede in pieno centro città. All’ingresso del Parlamento di Lubiana campeggia un affresco che fra l’altro commemora pure l’ingresso delle truppe di Tito a Trieste, il vecchio motto “Tršt je naš” viene rispolverato da frange ultranazionaliste cui fanno eco bizzarri personaggi triestini non solo appartenenti alla comunità slovena (e in alcuni passaggi fiancheggiatori del movimento indipendentista) e le tragedie che coinvolsero le popolazioni di queste terre prima, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale vengono brandite (invero dall’una e dall’altra parte del confine) come clave nell’agone politico rendendo ardua una serena riconciliazione politica. In un contesto in cui l’Italia viene spesso presentata come invasore, fascista e sterminatore, ecco che l’indipendentismo del TLT approfitta di questo humus e dell’attuale crisi economica. Le statistiche dimostrano che il porto di Trieste, così come il dirimpettaio scalo di Capodistria, gode di buona salute e migliora costantemente le sue prestazioni, altresì nel capoluogo del Friuli Venezia Giulia la crisi si fa sentire e quindi chi promette la cacciata di Equitalia, un regime fiscale più equo ed autogestito nonché la nascita di un paradiso fiscale può trovare facilmente seguito. Condividendo un approccio alla Alain De Benoist, è ovvio che lo Stato nazionale di retaggio giacobino in questa fase storica è in crisi ed hanno maggior ragion d’essere le autonomie locali; tuttavia nei grandi spazi della geopolitica contemporanea lo Stato, integrato in alleanze dignitose e trattati internazionali stipulati nei reciproci interessi fra le parti, ha ancora una sua precisa funzione negli ambiti di coordinamento, difesa e politica estera. L’autonomia locale basata su principi di sussidiarietà e con le adeguate leve economiche ed amministrative a disposizione può rilanciare l’economia triestina così come quella di altre aree in difficoltà; l’opzione indipendentista che viene proposta significa negare l’italianità di Trieste, dopo che già le sue province limitrofe hanno visto cancellare tragicamente una presenza latina radicata da secoli, nonché creare una scatola vuota priva di vita propria che dovrebbe appena capire da che parte cominciare il suo percorso di sviluppo economico mentre i limitrofi porti di Capodistria e di Fiume vedrebbero indebolirsi di nuovo un concorrente recentemente rafforzatosi.

Nel suo libro Il mondo fatto a pezzi (Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2008) François Thual ravvisa una precisa intenzione geopolitica di matrice atlantista nel recente revival di indipendentismi e localismi più o meno fondati, finalizzati a creare instabilità o Stati fantoccio a disposizione delle talassocrazie occidentali. Riproporre il Territorio Libero di Trieste, per giunta nella sola componente della Zona A, non solo appare un generoso omaggio a certi progetti sloveni e croati, ma può anche rientrare nell’ottica di creare entità che per la loro sopravvivenza debbono ricorrere al patronato statunitense. Per far quadrare il cerchio, varie fughe di notizie così come la cronaca politica hanno dimostrato la sudditanza delle classi dirigenti di Lubiana e Zagabria nei confronti di Washington, cui devono ancora riconoscenza per l’appoggio alla loro lotta indipendentista contro la Jugoslavia di Milosević. Interrogarsi sul cui prodest non vuol dire esercitare la dietrologia, bensì analizzare le forze in campo e contestualizzare un fenomeno che avanza proponendo con faciloneria slogan demagogici che si rifanno ad un utopico passato che non è neppure esistito.

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IL CASO “RUSSIA TODAY”, LA VERA FACCIA DELLA LIBERTÀ DI STAMPA

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Negli ultimi giorni di agosto, il governo USA ha bloccato la diffusione del canale Russia Today sul territorio nordamericano. L’emittente, che si è sempre contraddistinta dai media controllati dalle corporation per la sua indipendenza da grandi finanziatori americani, ha sempre trattato con obiettività i problemi di politica internazionale dando libertà di espressione a economisti e geopolitologi “fuori dal coro”. In seguito agli sviluppi geopolitici di quest’ultimo periodo, gli USA hanno dichiarato apertamente guerra all’emittente internazionale.

 

 

 

 

Cos’è Russia Today (RT)?

Secondo un’indagine del Centro di Ricerca PEW, Russia Today è il più grande fornitore di notizie su YouTube[1]. Russia Today è un canale televisivo internazionale, registrato come organizzazione autonoma non a scopo di lucro[2], con sede a Mosca presso Borovaya ulitsa, che vanta un elevato numero di contatti raggiunti in tutto il mondo. La sua diffusione è dovuta anche al fatto che venga trasmesso in più lingue: russo, inglese, spagnolo ed arabo. Russia Today è molto di più di un semplice canale di notizie 24 ore, trasmette documentari, programmi di approfondimento su geopolitica, economia, politica, tecnologia, interviste, talk-show, dibattiti, sport e molto altro. Russia Today è visibile sia su internet, per mezzo della pagina ufficiale, come anche sul satellite sulle piattaforme: EUTELSAT HOT BIRD 13B (HD), Astra 1L (HD), EUTELSAT 28A (HD), EUTELSAT HOT BIRD 13C (SD), Astra 1M (SD), EUTELSAT 28A (SD), Hispasat 1C (SD) oltre che sui supporti DTH (Direct-broadcast satellite) sulle piattaforme SKY e TivuSat[3]. Il canale viene trasmesso in totale da 30 satelliti, 500 tv via cavo a 550 milioni di persone in più di 100 stati. Nel 2011 è stato il canale straniero più seguito negli Stati Uniti dopo la BBC World News[4], nel 2012 è giunta al primo posto tra le emittenti straniere più seguite in 5 aree urbane degli Stati Uniti[5], nel 2013 è stata il primo canale televisivo della storia a raggiungere un miliardo di visualizzazione si YouTube[6]. Nel Regno Unito, nella seconda parte dell’anno 2012, secondo il Broadcasters’ Audience Research Board, tra i 2,25 e i 2,5 milioni di inglesi, si sono sintonizzati su RT. Russia Today, in Gran Bretagna, è a tutti gli effetti il più popolare canale di notizie dopo la BBC e SKY[7]. Esiste, oltre al canale di YouTube, un sito ufficiale aggiornato costantemente con tutte le notizie dal mondo, più pagine Facebook in diverse lingue, con aggiornamenti immediati, pagine Twitter, Google+ e Instagram.  Nonostante sia stata lanciata in tempi recenti, il 10 dicembre del 2005, RT si è imposta, a tutti gli effetti, a livello planetario, come informazione alternativa a quella dei grandi marchi storici del giornalismo televisivo americano ed estero. Ad un simile successo, è inevitabile che si accompagnino le inimicizie, le critiche e, purtroppo, le opere di censura.

 

 

Il caso della censura USA

Sul finire del mese di agosto 2013, le tensioni internazionali tra USA e Siria andavano acuendosi. Il Governo nordamericano aveva già predisposto una campagna diffamatoria contro la Siria, sostenendo che il legittimo governo siriano di Bashar Al-Assad stesse usando armi chimiche contro la propria popolazione, giustificando così di fatto un intervento militare statunitense nella regione. Se da una parte i media mainstreamer, come in tutte le altre guerre condotte dagli USA, si stavano adoperando a supportare la versione ufficiale del governo americano, Russia Today e le reti associate, di contro, avevano già individuato delle prove schiaccianti contro quanto sostenuto dal governo americano. Il 22 agosto, durante un’operazione militare dell’Esercito Arabo Siriano contro i terroristi dell’Esercito Libero Siriano nell’area di Jobar, vengono filmate all’interno di un nascondiglio dei terroristi, sostanze chimiche tossiche. Nel video mostrato da una delle reti sorelle di RT, di nome Al Youm, si vede questo magazzino usato dai ribelli per la preparazione di razzi da riempire con sostanze chimiche, e si nota chiaramente il frame qui ingrandito:

 

Senza titolo1

 

Sacchi bianchi di una sostanza corrosiva, fabbricata nel Regno dell’Arabia Saudita, alleati storici degli USA all’interno della regione[8]. Come se non bastasse la stessa RT trasmette il 24 di agosto un video dell’Esercito Arabo Siriano, in un altro magazzino abusivo usato dalla guerriglia, oltre ad armi e maschere antigas, si trovano scatoloni come questo:

 

Senza titolo2

 

Sulle cui etichette che denotano la provenienza del materiale si legge chiaramente la scritta: “Made in USA”. Le notizie delle armi chimiche stoccate dai ribelli in diversi depositi vengono addirittura confermate dall’agenzia Reuters lo stesso 24 agosto[9]. Dopo la diffusione di queste notizie su scala internazionale, i media occidentali avevano già iniziato la loro guerra contro il canale di Mosca: prima tacciando il canale di omofobia nei confronti di un giornalista James Kirchik, che in una diretta aveva criticato le misure adottate dal governo russo in materia di diritti per gli omosessuali[10], in realtà il collegamento era stato interrotto in quanto il giornalista si era messo ad inveire contro i suoi colleghi gridando all’omofobia, invece di rispondere alle domande su cui verteva la trasmissione. Il 30 agosto viene bloccato l’account Reddit del canale russo senza alcuna spiegazione, come denunciato da Margarita Simonyan redattrice capo di RT[11]. Sul sito Reddit, RT contava almeno un milione di iscritti[12]. Il 31 di agosto, sempre la Simonyan dal suo profilo Twitter denuncia il blocco di RT nel territorio USA. Il commento della capo redattrice cita:“Ero in attesa del momento in cui il nostro canale sarà bloccato negli USA. Hanno iniziato. Sono bravi nei confronti delle libertà della parola”[13]. In una precedente intervista della Simonyan alla testata Spiegel Online la giornalista denunciava che l’atteggiamento dei media occidentali nei confronti della Russia non è cambiato dalla guerra fredda. Come darle torto? Da oggi potremo affermare con certezza che neppure l’atteggiamento del governo USA è mutato in questo senso. Restiamo in attesa di nuovi sviluppi, ma il futuro per l’emittente nel territorio nordamericano, non sembra promettere nulla di buono.

 

 

 




[1] http://www.youtube.com/user/RussiaToday

[2] http://rt.com/about-us/contact-info/

[3] http://rt.com/where-to-watch/

[4] http://www.ipsnews.net/redir.php?idnews=50157

[5] http://russia-briefing.com/news/russia-today-to-double-its-u-s-audience.html/

[6] http://www.youtube.com/user/RussiaToday

[7] http://www.newstatesman.com/world-affairs/world-affairs/2013/05/inside-russia-today-counterweight-mainstream-media-or-putins-mou

[8] http://www.davidicke.com/headlines/tag/france/

[9] http://www.reuters.com/article/2013/08/24/us-syria-crisis-jobar-idUSBRE97N04T20130824

[10] http://www.internazionale.it/news/russia/2013/08/22/giornalista-usa-critica-su-russia-today-la-legge-anti-gay/

[11] http://voiceofrussia.com/news/2013_08_30/Russia-Today-editor-in-chief-reports-problems-with-broadcasting-to-US-2017/

[12] http://news.you-ng.it/2013/08/31/il-governo-americano-blocca-la-diffusione-del-canale-russia-today/

[13] http://italian.ruvr.ru/2013_08_30/Gli-USA-bloccano-la-telediffusione-del-canale-Russia-Today/



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LA DIPLOMAZIA RUSSA HA VINTO IN DUE MOSSE

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Il commento pubblicato da Vladimir Putin sull’edizione del “New York Times” dello scorso 13 settembre ha aperto un enorme dibattito negli Stati Uniti. Dando un’occhiata alle migliaia di commenti apparsi nel sito del celebre quotidiano e ai principali rotocalchi televisivi statunitensi, sembra possibile affermare che il grosso del pubblico nordamericano si sia spaccato in due fazioni. L’una, già in gran parte critica con Obama ma non necessariamente di fede repubblicana, ha accolto con sostanziale favore le considerazioni del presidente russo; l’altra, lo “zoccolo duro” dell’elettorato di Obama ma anche alcuni repubblicani di orientamento marcatamente nazionalista, al di là della verità che emergerà dalla questione siriana ha criticato l’operato del “New York Times”, sottolineando che in Russia i cosiddetti deficit di democrazia non avrebbero consentito un analogo trattamento ai politici statunitensi.

Tuttavia il risultato più importante, Putin lo ha comunque già ottenuto. Nell’incipit del suo articolo egli sostiene di rivolgersi «direttamente agli americani e ai loro dirigenti politici» e tutto ciò è senz’altro evidente, non fosse altro che per la “tribuna” scelta. Eppure le riflessioni di Putin contengono un ulteriore significato, meno visibile ma ben più profondo il cui principale destinatario sembra essere il resto del mondo.

Il presidente russo prosegue infatti rimarcando l’importanza del ruolo delle Nazioni Unite e in particolare del Consiglio di Sicurezza che «ha favorito la stabilità dei rapporti internazionali per decenni» e ha impedito che una catastrofe come quella della Seconda Guerra Mondiale potessi ripetersi. Elenca inoltre tutta una serie di questioni internazionali irrisolte (il nucleare iraniano, il conflitto israelo-palestinese, l’instabilità del Medio Oriente e del Nord Africa) legandole in qualche modo alla crisi in Siria, dove si assiste ad «un conflitto tra governo e opposizione in un paese multiconfessionale» nel quale lo Stato è impegnato contro «jihadisti di al-Qaeda ed estremisti di ogni genere».

Trovando conforto nei rapporti dell’intelligence di Washington, Putin sostiene che «il Fronte al-Nusra e il Movimento per lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante combattono a fianco dell’opposizione» in uno scontro «alimentato dalle armi straniere» che mette in pericolo il mondo intero. Citando espressamente il pericolo del terrorismo islamista, il presidente russo cerca chiaramente di toccare le corde dei repubblicani e dei settori della società statunitense più sensibili al tragico ricordo dell’Undici Settembre, per altro fresco di commemorazione al momento di andare in stampa. Richiamandosi invece a quel diritto internazionale in base al quale «l’uso della forza è consentito solo per autodifesa o su decisione del Consiglio di Sicurezza», Putin ricerca presumibilmente un consenso presso quei settori dell’opinione pubblica democratica maggiormente orientati al multilateralismo e al rispetto della legalità internazionale. Un colpo al cerchio e uno alla botte, insomma: da un lato un aperto richiamo ai drammatici conflitti aperti da George W. Bush in Afghanistan e in Iraq che hanno trasmesso l’immagine di un’America nel mondo «sempre più considerata da milioni di persone non un modello di democrazia, ma un paese che si affida alla sola forza bruta»; dall’altro le contraddizioni dell’amministrazione Obama dinnanzi al terrorismo e al diritto internazionale.

Eppure il nodo strategico del messaggio di Putin è quello successivo. Ben prima che il rapporto della Commissione ONU fosse pubblicato, egli afferma di non dubitare affatto «che in Siria sia stato usato gas venefico», aggiungendo che «è lecito credere che non sia stato usato dall’esercito siriano, bensì dall’opposizione per provocare l’intervento dei suoi potenti alleati stranieri». La diplomazia russa era evidentemente già a conoscenza dell’uso di armi non convenzionali nella zona di Ghouta e si aspettava , come anche Obama e Kerry, che il rapporto recentemente pubblicato da Ban Ki Moon confermasse l’utilizzo del gas sarin oltre – come poi effettivamente è stato – ad una generica condanna delle violenze da ambo i fronti.

Nel dettaglio del rapporto, i commissari fanno riferimento ad alcuni razzi sui quali sarebbero state installate cariche contenenti prodotti chimici asfissianti. In primo luogo il razzo è un mezzo tra i più comunemente utilizzati nel mondo, è facilmente procurabile in situazioni di guerra civile o addirittura in tempo di pace nei mercati clandestini delle armi (quello libico è diventato dal 2011 uno dei più tristemente floridi) ed il fatto che siano state individuate alcune scritte in alfabeto cirillico su quelli utilizzati a Ghouta non è dunque un elemento in grado di provarne con certezza la provenienza; in secondo luogo, il carattere rudimentale e scarsamente tecnico dell’ordigno rimanda a modalità di guerriglia pertinenti a forze irregolari costrette ad agire nella clandestinità e nell’improvvisazione.

Il rapporto ONU, dunque, non aggiunge nulla di nuovo sul piano delle prove concrete ma, ad un’attenta lettura, contribuisce ad alimentare i dubbi sulla tesi anglo-franco-americana, così ciecamente presentata alla fine di agosto. Se per i governi occidentali è necessaria una chiara dimostrazione di responsabilità che inchiodi le autorità siriane in base alla celebre “linea rossa”, per Mosca un rapporto del genere costituisce una conferma di livello internazionale alle proprie tesi. Secondo l’ONU, così come per Mosca e Washington, è stato compiuto un «crimine di guerra» ma, come per Mosca e diversamente da Washington, non esistono dati incontrovertibili che legittimino un intervento militare contro Assad, anzi compaiono elementi che inducono a ritenere possibile la responsabilità dei ribelli.

La breccia aperta da Putin con l’aspra critica alla tesi dell’“eccezionalismo nordamericano”, si allarga così ulteriormente mettendo in crisi l’amministrazione Obama e i suoi alleati Hollande e Cameron che, da Parigi, non hanno potuto che arretrare le proprie posizioni di appena due settimane fa. A pochi minuti dalla pubblicazione del rapporto, lo stesso ministro degli Esteri francese Laurent Fabius ha nuovamente puntato il dito contro il presidente siriano Assad ma ha poi affermato che in Siria «la soluzione è politica, non militare».

 

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“DESTINAZIONE ITALIA”: WALL STREET E PAESI DEL GOLFO

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Il nuovo piano economico e finanziario italiano preannunciato ieri dal Presidente del Consiglio conferma l’opzione occidentale e la rinuncia alla sovranità nel segno della “globalizzazione”

 

Il primo giro promozionale (“il road show nelle principali piazze finanziarie ed economiche”) sarà, come facilmente prevedibile, “New York, dove incontreremo gli operatori finanziari di Wall Street”; il secondo, previsto nella prima decade di ottobre, “nei Paesi del Golfo”; il Presidente del Consiglio  ha delineato il percorso preferenziale di “Destinazione Italia”, il piano destinato ad attrarre investimenti esteri  (“l’Italia ha un drammatico bisogno di investimenti esteri”), o, più esattamente, a procedere alla liquidazione di beni e risorse pubbliche.

“L’Italia non ha paura della globalizzazione, anzi, vogliamo stare in questo sistema” ha precisato Letta, annunciando “un percorso di privatizzazioni” riguardante “cose che è giusto privatizzare” (quali esse siano si può forse immaginare ma ancora non conoscere con certezza:  nemmeno il Parlamento al momento lo sa).

Le decisioni italiane sono sempre meno italiane e soprattutto sono sempre meno conformi agli interessi reali dell’Italia: il sottosegretario all’Economia Baretta ha sottolineato che “le misure di cessione e di privatizzazione di beni pubblici” sono finalizzate a “ridurre il debito”, che Bankitalia ha certificato essere cresciuto di 84,2 miliardi dall’inizio del 2013. Il meccanismo di autoriproduzione del debito – originato dalla rinuncia alla sovranità monetaria da parte dello Stato, con conseguente circolazione di moneta a debito gestita e spacciata dalla finanza privata – determina non soltanto lo spropositato peso fiscale che tramortisce imprese e famiglie italiane ma anche la progressiva cessione e privatizzazione di beni pubblici e i tagli ai servizi sociali, entrambi giustificati con l’asserita esigenza di  frenare l’indebitamento. Mentre le aziende italiane frontaliere cercano rifugio in Svizzera (cfr. http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/13_settembre_18/chiasso-aziende-italiane-chiedono-trasferimento-ticino-svizzera-sindaco-2223177703090.shtml), il governo italiano mira a rafforzare la dipendenza nazionale dalle centrali finanziarie occidentali, “Paesi del Golfo” inclusi.

 

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GOOGLE STA DIVORANDO IL MONDO

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Il gigante tecnologico della Silicon Valley sta ridisegnando la geografia di San Francisco. E non solo.

 

Finalmente, i giornalisti hanno iniziato a fare una critica seria dei giganti della Silicon Valley. In particolare hanno aperto gli occhi su Google, al momento la terza compagnia più grande al mondo per valore di mercato. La nuova fase di discussione è iniziata ancora prima delle rivelazioni sulla regolare condivisione da parte dei giganti tecnologici dei nostri dati personali con la National Security Agency – NSA, o la loro probabile fusione con quest’ultima. Allo stesso tempo, un altro gruppo di giornalisti, apparentemente ignari che il tempo sia cambiato, si sta ancora facendo beffe di San Francisco, mia città di origine, per non sottostare passivamente all’incombente presenza della Silicon Valley.

La critica della Silicon Valley è ormai trita e ritrita e alcuni giudizi oscillano fra la ferocia e il buon senso.  Il New Yorker, per esempio, ha analizzato come le start-up stiano danneggiando l’obiettivo primario dell’istruzione alla Stanford University. Nel suo approfondimento si è concentrato sulle illusioni messianiche e l’ingerenza politica della Valley, tenendo bene in considerazione l’ingente elusione fiscale della Apple.

Il “New York Times” recentemente ha pubblicato un articolo d’opinione che mi ha colto di sorpresa, soprattutto quando ho letto il nome dell’autore. Il fondatore di WikiLeaks Julian Assange, che ha trovato rifugio presso l’Ambasciata ecuadoriana a Londra, ha recensito La Nuova Era Digitale, un libro scritto da due tra gli uomini più in vista di Google, Eric Schmidt e Jared Cohen, i quali hanno cercato di spiegare la tendenza della società tecnologica a mescolarsi con lo Stato.

Si tratta, ha dichiarato, di un progetto ben definito e al contempo allarmante per l’Imperialismo tecnocratico, pensato da due dei nostri massimi “sciamani che hanno costruito un nuovo idioma per il potere globale degli Stati Uniti nel Ventunesimo secolo”. Ha aggiunto: “Questo idioma evidenzia il legame ancora più stretto tra il Dipartimento di Stato e la Silicon Valley.”

Che cos’hanno in comune il governo statunitense e la Silicon Valley? Più di tutto, loro intendono rimanere nell’ombra, mentre il loro scopo principale è quello di mettere a nudo ogni singolo utente attraverso la raccolta dei dati personali. Ciò che si sta verificando è semplicemente l’affermazione di una nuova forma di governo che coinvolge vaste entità, basato sulla dicotomia che va da un ampio potere alla responsabilità limitata nei confronti di chiunque. Il tutto ovviamente a favore del governo.

Google, la compagnia con il motto “Don’t be Evil”, sta rapidamente diventando un impero. Non un impero territoriale, come lo sono state Roma o l’Unione Sovietica, ma un impero che controlla il nostro accesso ai dati e i nostri dati stessi. Le cause antitrust che proliferano ai danni della società dimostrano la sua ricerca del monopolio del controllo dei dati nell’era dell’informazione.

Il suo motore di ricerca è diventato indispensabile per molti di noi, e come il critico di Google e docente di Media studies Siva Vaidhyanathan ha scritto nel suo libro del 2012, The Googlization of Everything, “attualmente permettiamo a Google di stabilire ciò che è importante, rilevante e vero sul Web e nel mondo. Riponiamo speranza e crediamo che Google agisca per il nostro miglior interesse. Ma in realtà noi ci siamo arresi a un controllo sui valori, sui metodi e sui processi che danno un senso al nostro ecosistema dell’informazione”. E questo è solo il motore di ricerca.

Circa 750 milioni di persone usano Gmail, che opportunamente offre a Google l’accesso al contenuto delle proprie comunicazioni (esaminate in modo tale che l’utente finale possa essere bersagliato con inserzioni pubblicitarie). Google ha cercato, ma ha fallito, di rivendicare il controllo della proprietà delle versioni digitali di tutti i libri pubblicati; bibliotecari ed editori hanno reagito prontamente. Come il New York Times ha riportato lo scorso autunno, Paul Aiken, direttore esecutivo dell’Authors Guild, ha riassunto la situazione con queste parole: “Google continua a guadagnare dal suo uso di milioni di libri protetti da copyright senza alcun riguardo per i diritti d’autore, e la nostra class-action per conto degli autori statunitensi andrà avanti”.

L’organizzazione no-profit Consumer Watchdog ha scritto al Procuratore Generale il 12 giugno sollecitandolo a “bloccare l’imminente acquisizione per un miliardo di dollari da parte di Google di Waze, un’applicazione gps per il cellulare, facendo riferimento all’antitrust… Google domina già il settore della mappatura online  con Google Maps. Il gigante di internet è stato capace di aprirsi un varco con la sua tendenza a primeggiare, favorendo in modo scorretto il proprio servizio in anticipo su competitori come MapQuest nei risultati delle sue ricerche online. Ora con l’acquisizione proposta di Waze, il gigante di internet vorrebbe eliminare il competitor più vitale nell’ambito del mobile. Inoltre questa acquisizione permetterà a Google l’accesso ad un numero maggiore di dati riguardanti l’attività online, e ciò aumenterà la sua posizione dominante su internet”.

La compagnia sembra non solo avere il pieno controllo del business della mappatura online, ma anche il monopolio di mercato di così tanti aspetti che, alla fine, potrebbe mettere all’angolo addirittura noi.

In Europa c’è una causa dell’antitrust per le applicazioni di Google per i cellulari con sistema Android. Per molti versi, si può mappare l‘ascesa di Google attraverso i cumuli di cause dell’antitrust che “accumula sul proprio cammino”. Tra parentesi, Google ha comprato Motorola. Inoltre, che possieda Youtube è ormai cosa risaputa. Ciò fa di Google il possessore del secondo e terzo sito più visitato al mondo (Facebook è il primo, e anche altri dei primi sei siti si trovano nella Silicon Valley).

Immaginiamo che sia il 1913 e l’ufficio postale, la compagnia telefonica, la biblioteca pubblica, le stamperie, le operazioni di mappatura della US Geological Survey, i cinema e tutti gli atlanti siano ampiamente controllati da una società riservata, inaccessibile al pubblico. Saltiamo di un secolo e vediamolo nel mondo online, questo è più o meno il punto dove siamo arrivati. Un capitalista di impresa di New York ha scritto che Google sta cercando di prendere il posto “dell’intero maledetto internet” e si è posto la domanda del giorno “Chi fermerà Google?”

 

Il punto

Noi a San Francisco ci facciamo spesso questa domanda, perché qui Google non solo è sui nostri computer, ma è anche nelle nostre strade. In precedenza nel corso dell’anno ho scritto riguardo al “Google bus” – la flotta di pullman privati di lusso, forniti di wi-fi, che gira per le nostre strade e usa le nostre fermate pubbliche, spesso bloccando i pullman cittadini e i passeggeri del trasporto pubblico, mentre loro caricano o scaricano i dipendenti che percorrono in lungo e in largo la penisola verso la società in cui lavorano.

Google, Apple, Facebook e Genentech gestiscono alcune delle più grandi flotte, e questi pullman bianchi, per lo più privi di marchio, sono diventati un simbolo della trasformazione della città.

Carl Nolte, che scrive una rubrica sul (moribondo) “San Francisco Chronicle”, questo mese ha parlato dei futuri abitanti dei 22.000 costosi appartamenti in costruzione: “I locatari dei nuovi appartamenti saranno tutti i nuovi abitanti di San Francisco. In un paio di anni penseremo ai politici progressisti, del 2012 circa, come antichità d’altri tempi, è accaduto con i Commies per i nostri nonni. San Francisco è già una città high-tech, una città cara, dove le famiglie appartenenti alla classe media non possono permettersi di vivere. È una città dove la popolazione afroamericana è stata fatta crollare in poco tempo, dove il quartiere latinoamericano Mission District si sta imborghesendo ogni giorno di più. Pensate che vivere qui ora sia dispendioso? Aspettate solo un po’. Questi che stiamo vivendo sono ciò che rimane dei bei vecchi giorni, ma non saranno gli ultimi. Siamo giunti ad un punto critico”.

Si può dire che Mr. Nolte non gradisce particolarmente questa situazione. Un ragazzo di nome Ilan Greenberg è sbucato dal New Republic per dirci ciò che deve piacerci – o ammetterne la ridicolezza. Scrive, “ironicamente proprio quelli che sono contro l’imborghesimento danneggiano l’etica liberale di San Francisco. Oppositori dei nuovi arrivati? Sospettosi nei confronti di persone i cui valori sono incomprensibili? Critica dei giovani per non essere all’altezza degli ideali della generazione più vecchia? Tutto ciò suona molto reazionario e bigotto”: Il problema è che noi comprendiamo i valori della Silicon Valley fin troppo bene e a molti di noi questi valori non piacciono.

Accogliere nuovi arrivati non dovrebbe essere poi così male, se non significasse sottrarre spazi a molti di noi che siamo già qui. Con noi intendo chiunque non lavori in una grande azienda tecnologica o in una delle più piccole compagnie, che di diventare un monolito globale. Greenberg (che, per inciso, sta scrivendo per una pubblicazione comprata in blocco da un miliardario di Facebook) si prende gioco di noi per proteggere la classe media, ma la “classe media” è solo una parola per quelli di noi che vengono adeguatamente pagati per il proprio lavoro.

Le persone a vari livelli di reddito nei più disparati ambiti qui a San Francisco stanno per essere rimpiazzate da coloro che lavorano in un unico ambito e vengono pagate estremamente bene. Istituzioni piccole, anticonformiste e non-profit stanno facendo fatica e stanno via via diminuendo. È come guardare un prato arato per coltivare fagioli di soia Monsanto geneticamente modificati.

Parlando di terreni, uno dei miliardari della Silicon Valley, fondatore di Napster e di Spotify, Sean Parker, ha appena investito in un matrimonio da 10 milioni di dollari americani in una terra sensibile dal punto di vista ambientale nel Big Sur. Con la costruzione di un’enorme ambientazione medievaleggiante per l’evento “che includeva un livellamento, un cambio nell’uso da campeggio a uso privato, la costruzione di strutture multiple dotate di un cancello ad arco, un laghetto, un ponte di pietra, piattaforme per eventi con pavimenti rialzati, muri di roccia, rovine di casette e mura di castelli creati artificialmente”, stando a quanto si dice, Parker ha causato un danno ambientale ingente e ha violato numerosissime norme ambientali.

A quanto pare, pagare 2,5 milioni di dollari in multe dopo l’evento non lo ha messo in difficoltà. Napster e Spotify sono, tra l’altro, tecnologie online che hanno ridotto a quasi zero i profitti dei musicisti provenienti dai dischi. Ci sono musicisti ricchi in maniera spropositata, sicuramente, ma molti di loro, al massimo, appartengono alla classe media. Grazie a Parker, forse anche a qualche gradino sociale di meno.

Insegnanti, impiegati statali, autisti di autobus, bibliotecari, vigili del fuoco – considerateli una rappresentanza della classe media sotto assedio, a al contempo persone che rendono una città vitale e funzionante. Alcuni miei amici – un pittore, un poeta, un regista, un fotografo, tutti coloro che hanno contribuito alla cultura di San Francisco – sono stati sfrattati, così gente ben più influente potrà rimpiazzarli. C’è una tendenza diffusa nel pensare che difendere la cultura significhi difendere le persone bianche privilegiate, ma questo suppone che le persone di colore e povere non siano artisti. Qui lo sono.

Ognuno qui comprende che se un musicista – hip-hop o sinfonico – non può permettersi una casa, nemmeno una famiglia è in grado di farlo. E la competizione per questi appartamenti è accanita: così accanita che in questi giorni nessuno che conosco riesce ad affittare sul mercato libero. Non ho potuto io, quando mi sono trasferita nel 2011, così come non ci è riuscito un mio amico medico all’inizio di quest’anno. I giovani tecnologici arrivano e offrono un anno di caparra in denaro liquido in anticipo o rilanciano la richiesta del prezzo iniziale, o entrambi, e l’offerta delle abitazioni continua a indebolirsi, mentre gli affitti vanno alle stelle. Così, mentre Greenberg potrebbe convincervi a pensare che non stiamo egoisticamente offrendo posto anche agli altri, in realtà è che le persone anziane e le famiglie che lavorano e le persone le cui carriere erano plasmate dall’idealismo si stanno opponendo alla possibilità di essere travolti, a ben dire, dal pullman.

 

Come Gandhi, solo con le armi

Numerosi leccapiedi delle potenti società della Silicon Valley hanno potuto creare una monocultura. In alcune parti della città, questa è già la cultura dominante. Un ragazzo che ha fatto fortuna durante il boom del dot.com e si è trasferito nel Mission District (in parte latinoamericano, già occhio del ciclone della classe lavoratrice nell’uragano delle case) ha attirato recentemente l’attenzione dei locali con un post sul suo blog intitolato “Individui spregevoli come voi stanno distruggendo San Francisco”. Al suo interno ha descritto il comportamento volgare e talvolta violento dei più giovani e più ricchi nei confronti dei più anziani, dei poveri e dei non bianchi.

Ha scritto “Sei sul MUNI [il sistema di pullman cittadino] e vedi un giovane ventenne che con riluttanza cede il suo posto a una signora anziana e dopo dice al suo amico “Io non capisco perché le persone anziane prendano il MUNI. Se fossi vecchio, io prenderei solo Uber””. Ho cercato notizie a riguardo: Uber.com, un servizio taxi di limousine al quale puoi accedere attraverso un’applicazione per smartphone. Un mio amico ha sentito per caso un altro giovane patito di tecnologia, in coda per comprare il caffè, dire a qualcuno al telefono che stava lavorando ad un’app che sarebbe stata “come Food not Bombs, per distribuire cibo, solo per profitto”. Dire che si ha intenzione di essere come un gruppo che si adopera per la distribuzione del cibo gratuito, solo per profitto, è più o meno come dire che si ha intenzione di essere come Gandhi, solo con le armi.

“Un flusso di appassionati di tecnologia significherà più sostenitori per le arti”, tuonava un articolo sul sito di notizie della Silicon Valley Pando, ma questi illustri sostenitori ancora non si sono fatti vivi. Come un settimanale locale anticonformista ha affermato, “il mondo tecnologico in generale è notoriamente poco caritatevole. Secondo il Chronicle of Philantrophy, solo quattro dei cinquanta più generosi donatori statunitensi del 2011 lavorano nel settore tecnologico, nonostante il fatto che 13 dei 50 Americani più ricchi secondo Forbes nel 2012, debbano tutta la loro fortuna al settore”.

Medicei nei loro complotti, non sono però mecenati come la nota famiglia del Rinascimento. Non ci sono ricadute favorevoli nella Bay Area, neanche magnanimità significative nei confronti dei bisogni o delle buone cause o della cultura derivate dai nuovi capitali tecnologici.

Invece, abbiamo il nuovo arrivato a San Francisco, il CEO di Facebook e miliardario Mark Zuckerberg, che persegue il proprio interesse con disprezzo spietato per la vita sulla terra. Quest’anno Zuckerberg ha fondato un’organizzazione no-profit attiva politicamente FWD.us, che cerca di influenzare il dibattito sull’immigrazione per rendere più semplice per le società della Silicon Valley l’importazione di lavoratori nel settore tecnologico. Non è coinvolta alcuna ideologia, solo interessi personali su come FWD.us persegua i propri scopi. Ha deciso di investire la propria enorme influenza finanziaria per lavorare dando ai politici qualunque cosa loro vogliano, nella speranza che ciò possa condurre ad un vantaggioso compromesso.

Al fine di raggiungere questo obiettivo, il gruppo ha iniziato a far girare annunci pubblicitari in favore dell’oleodotto Keyston XL (che porta soprattutto sabbia di catrame sporca di carbonio dal Canada alla costa statunitense sul Golfo) per sostenere un senatore repubblicano e altri annunci in favore delle trivellazioni nell’intatto Artic National Wildlife Refuge in Alaska per sostenere un democratico dell’Alaska.

Il messaggio sembra essere che niente è proibito nel perseguire i propri interessi, e che il vero significato e le conseguenze di questi progetti che hanno un impatto sull’ambiente non interesserebbero almeno al ventinovenne che è anche la 25° persona più ricca degli Stati Uniti. (Per dovere di cronaca: il miliardario della Silicon Valley Elon Musk, cofondatore di Paypal e magnate delle auto elettriche, ha abbandonato FWD.us). Zuckerberg e i suoi associati della Valley stanno spingendo per cose per le quali non hanno un vero interesse, eccetto per ciò che permette alla loro società di funzionare e ai loro profitti di crescere. Qui, dove è stato fondato il Sierra Club nel 1892 e molte altre ideologie dal forte impatto ambientale, questo non è stato accolto bene. Le proteste sono seguite alla sede centrale di Facebook e sullo stesso Facebook.

L’ostilità crescente nei confronti dell’impennata tecnologica a San Francisco si scontrata con la rabbia e il disorientamento dimostrati da molti impiegati della Silicon Valley. Loro danno un po’ l’idea degli strateghi dell’era di Bush, esterrefatti che gli Iracheni non abbiano accolto la loro invasione con tappeti di fiori.

C’è ancora qualcosa che dovreste conoscere riguardo alla Silicon Valley: secondo il Mother Jones, l’89% dei gruppi di fondazione di queste società sono tutti uomini; l’82% sono bianchi (l’altro 18% asiatici o delle Isole del Pacifico); e le donne guadagnano solo 49 centesimi per ogni dollaro guadagnato dai colleghi maschi. Le donne più intraprendenti della Silicon Valley, come il CEO di Facebook Sheril Sandberg, attirano molta attenzione perché sono rare, vere mosche bianche.

Come Catherine Bracy, sulle cui ricerche Mother Jones ha basato le proprie classifiche, ha stimato, “ l’attuale ricerca di cui mi sono occupata dimostra che la creazione di benessere prodotta dall’industria tecnologica è distribuita in maniera estremamente disomogenea, e che l’attuale capitale di impresa sta convergendo verso un ristretto gruppo omogeneo in modo preponderante”. Ecco cosa sta invadendo San Francisco.

L’articolo su Pando lancia un vero e proprio monito: “San Francisco può diventare una capitale mondiale. Prima di tutto ha bisogno di riprendersi”. Ma forse noi non vogliamo essere una capitale mondiale più o meno come New York e Tokyo. La logica del più è meglio sembra indiscutibile ai detrattori di San Francisco, ma dentro di loro più equivale a molto di meno: meno diversità, meno convenienza, meno cultura, meno continuità, meno comunità, meno distribuzione equa di ricchezza. Ciò che è chiamato benessere in questi calcoli è riservato a pochi; per i più si tratta di impoverimento.

 

La flotta del .0001%

Se Google rappresenta la minaccia globale della Silicon Valley, e Zuckerberg rappresenta la sua amoralità, allora il CEO di Oracle Larry Ellison deve rappresentare al meglio la sua grossolanità. Il quinto uomo più ricco al mondo ha speso centinaia di milioni di dollari per vincere la regata dell’America’s Cup un paio di anni fa. Partendo dal presupposto che il vincitore ha la possibilità di scegliere la prossima sede per la regata e il tipo di imbarcazione da usare, per queste regate estive Ellison ha scelto la Baia di San Francisco  e un catamarano gigante che sembra estremamente instabile. Lo scorso mese, un marinaio che ha vinto la medaglia olimpica è annegato quando un’imbarcazione, sulla quale si stava allenando, si è ribaltata nella Baia di San Francisco, bloccandolo sotto la vela.

Parte della strategia di Ellison per vincere di nuovo implica rendere le imbarcazioni così care da far sì che nessuno possa competere. Una regata che prima aveva dai 7 ai 15 concorrenti, ora ne ha 4 e uno di essi potrebbe ritirarsi. Business Insider ha pubblicato in prima pagina un pezzo dal titolo, “Larry Ellison ha completamente mandato a scatafascio l’America’s Cup”. È andato avanti affermando “ogni squadra, con l’eccezione della Nuova Zelanda, è sostenuta da un miliardario, e ognuna ha speso tra i 65 e i 100 milioni di dollari fino ad adesso”. Secondo la tipica moda della Silicon Valley, Ellison ha anche capito come far rimanere San Francisco fedele a una parte del suo progetto, causando lo sfratto di alcune dozzine di piccole aziende, anche se alla fine la città non gli ha concesso un rilevante allungamento di lungomare come era nelle sue iniziali intenzioni.

Questo è ciò che San Francisco è ora: un posto a sedere davanti alle più potenti società della Terra e le persone che le mandano avanti. Quindi noi sappiamo cose che voi non potete ancora conoscere: loro non sono vostri amici e la loro visione non è la vostra, ma i vostri dati sono i loro dati, le vostre comunicazioni sono nelle loro mani e loro sembra che stiano crescendo per diventare un braccio o un comproprietario del Governo, o per fare una legge in direzione dei propri interessi, e nessuno ha capito cosa possiamo fare per contrastare ciò.

 

 

Fonte:

http://www.atimes.com/atimes/Global_Economy/GECON-01-260613.html

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I RAPPORTI RUSSO-TEDESCHI OGGI

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Alla fine del mandato del proprio governo, Gerhard Schröder esprime il proprio timore per un eventuale ricaduta in negativo delle relazioni proficue avviate con il vicino orientale. Timori senz’altro fondati se si pensa che Angela Merkel, alla guida dell’Unione Cristiano-Democratica, era stata a suo tempo tra i più strenui oppositori alle relazioni con la Russia. Di contro, appena finito il suo mandato politico, Schröder accetta la nomina da parte di Gazprom a capo del consorzio di North Stream AG, quella che si occuperà della costruzione del gasdotto che attraversa oggi il mar Baltico, facendo della Germania il principale distributore di gas russo nella regione europea.

Una volta insediatasi alla cancelleria, tuttavia, Angela Merkel dimostrerà la consapevolezza della svolta politica impressa alla relazione fra i due paesi negli ultimi cinque anni. Cambieranno i toni, cambierà lo stile del rapporto, non più incentrato sull’amicizia diretta dei due capi di Stato, bensì dalla consapevolezza dell’esistenza di alcuni obiettivi a breve termine compatibili, ma non cambierà la sostanza. Il progetto North Stream va avanti senza interruzioni, e così l’interrelazione economica e commerciale fra le due potenze. A testimoniare l’intento di continuità vi è l’affidamento del ministero degli esteri a Frank Walter Steinmeiner, membro del partito socialdemocratico (SPD) e già segretario di Stato durante la presidenza di Schröder. Durante il governo di quest’ultimo, Steinmeiner si era mostrato sin da subito comprensivo nei confronti della politica voluta dal cancelliere, appoggiando anch’egli l’intensa amicizia con il governo di Vladimir Putin.

 

 

Il riequilibrio del governo Merkel

Messi in secondo piano, sacrificati sull’altare del pragmatismo politico, i diritti civili e individuali, secondo alcune ONG calpestati in Russia, tornano alla ribalta con l’insediamento della nuova cancelleria. Il 16 giugno 2006 vi è il primo viaggio a Mosca del nuovo capo di Stato tedesco, solo successivamente tuttavia alla visita a Washington. Un messaggio, questo, che scopre subito le carte, lasciando intendere l’intenzione del governo di ricostruire anche un rapporto equilibrato con l’altra sponda dell’oceano, rapporto che con il governo precedente si era andato deteriorando, soprattutto dopo l’opposizione tedesca all’attacco statunitense all’Iraq. All’incontro di Mosca si parla di Cecenia e di Organizzazioni Non Governative. Su quest’ultimo tema tra l’altro Putin si mostra piuttosto seccato, a seguito dell’incontro, dichiarando sarcasticamente che “è sempre un piacere quando i nostri partner si preoccupano per i nostri affari interni”[1]. A differenza di Schröder, Angela Merkel s’incontra più volte anche con l’opposizione, istituzionale e non, il che naturalmente avrà l’effetto di inacidire l’amministrazione russa ma, di contro, alleggerire quella statunitense. Un abile doppiogioco che mostra l’intenzione tedesca di districarsi all’interno di spazi geopolitici prestabiliti, fra l’alleanza militare della NATO, il rapporto politico con gli Stati Uniti, e quello economico ed energetico con la Russia. Il 9 ottobre i rappresentanti dei due paesi si rincontrano, questa volta a Dresda. Qui i toni si fanno più pacati, ed entrambi i capi di Stato si diranno successivamente soddisfatti. Viene ritrovata la vicinanza delle proprie posizioni su varie tematiche allora in auge, tra cui la questione nucleare dell’Iran, su cui entrambi i paesi dichiarano di voler lavorare diplomaticamente e sulla Corea del Nord, il cui allora recente test nucleare viene fermamente condannato da entrambe le nazioni. A migliorare in quegli anni, tuttavia, è soprattutto l’interrelazione economica. Nel 2011 la major tedesca Wintershall ottiene l’ingresso diretto alla produzione di gas in Russia. Al contempo la E. ON acquisisce, per 1,2 miliardi di dollari, il 25% del nuovo consorzio gasifero Juzno-Russkoe, da poco istituito nella Siberia occidentale. Oltre a ciò, E. ON acquista anche il 70% della compagnia OGK-4, nata dalla divisione del gigante elettrico RaoEes, per 6 miliardi, divenendo così il secondo investitore estero nel settore energetico, secondo solo alla BP britannica[2].

Per quanto riguarda strettamente la geopolitica, invece, il governo Merkel si mantiene equidistante fra le posizioni di Stati Uniti e Russia, anche approfittando della presidenza del più morbido Dimitrij Medvedev. Nel 2011 tuttavia, con lo scoppio della crisi siriana e l’intensificarsi dell’attività diplomatica mediatrice della Russia, nel tentativo di evitare un aggressione ai danni della repubblica araba, la Germania assume posizioni non troppo accondiscendenti nei confronti di Barack Obama. Il governo tedesco infatti esprime la sua contrarietà per un intervento militare, dichiarandosi invece favorevole a quella che viene considerata l’unica soluzione possibile, una soluzione politica[3]. A dimostrazione dell’incertezza e della timidezza della politica estera del governo Merkel vi è comunque la nuova, recente, presa di posizione. Al G20 di San Pietroburgo di qualche giorno fa infatti, la Germania è stata tra i firmatari dell’appello di Obama per un eventuale attacco alla Siria[4]. Questo a seguito del presunto utilizzo di armi chimiche, della cui responsabilità, pur privi di prove inconfutabili, gli Stati Uniti accusano immediatamente il governo di Bashar Al-Assad. Si tratta tuttavia di un documento, quello firmato anche dall’Italia, che esprime solamente un’astratta volontà di non lasciare impunito l’utilizzo delle armi chimiche. Non vi è nessuna dichiarazione in direzione dell’uso della forza ai danni della nazione siriana, sin dall’inizio avversato dalla Germania e, con più decisione, dalla Russia. La recente proposta russa, quella di porre sotto controllo internazionale l’arsenale chimico del governo siriano, è stata accolta a Berlino con la stessa tiepidezza con cui l’ha accolta Washington. La Germania, insomma, non si è esposta eccessivamente nemmeno nella situazione siriana, non arrischiandosi in dichiarazioni fin troppo unilaterali. Questo, nonostante la preoccupazione espressa proprio dai servizi segreti tedeschi di un ritorno di fiamma del terrorismo, attualmente operante in Siria, in Europa.

Qualche principio di rottura si è notato nella questione dello scandalo dello spionaggio da parte statunitense dei propri alleati. Secondo quanto espresso dal “Guardian”, la Germania è il paese più spiato in Europa[5], questo probabilmente è dovuto soprattutto alla profonda interrelazione economica che il paese sta costruendo non solo con la Russia, ma anche con la Cina e con l’Est in generale, in cerca di mercati su cui espandere la propria offerta produttiva. In tale contesto, tra l’altro, l’opposizione tedesca si è mossa sin da subito per richiedere approfondimenti al riguardo. I toni si sono tuttavia momentaneamente smorzati, anche se appare certo che ad alcuni settori politici del paese lo scandalo non sia assolutamente andato giù.

 

 

Conclusioni

In conclusione, sin dalla guerra fredda, appare evidente come l’epicentro su cui ruota la politica estera europea, in primis quella tedesca, rimanga senza dubbio oltreoceano. Certo è che l’espansione economica della Germania richiederà ben presto un ripensamento in senso geopolitico. Le alleanze tattiche saranno sufficienti finché si tratterà di scambi commerciali o di interdipendenze energetiche, ma, per continuare a guardare ai mercati dell’Est, alla Germania non sarà più sufficiente districarsi in maniera equidistante fra i due poli, al momento in duro contrasto, soprattutto per quanto riguarda la regione mediterranea. La Germania, già potenza geoeconomica indiscutibile, continua a rimandare sine die la sua strutturazione come polo geopolitico di riferimento, in particolare per l’Europa[6]. Il tempo stringe e la decisione della cancelleria tedesca non può più essere rimandata a lungo. Di contro, la Russia sembra sulla via di recuperare una decisa identità geopolitica, pur limitata ad un contesto regionale e meramente difensivo, di contrasto all’unipolarismo declinante degli Stati Uniti. Per ora insomma, il vero partner strategico della Germania rimane Washington, nonostante gli alti e bassi registrati negli ultimi anni e, senz’altro, il paese continua a guardare a Bruxelles come punto focale della propria politica, dettata in primis dalle esigenze economiche. Tuttavia, non è sicuro che la posizione tedesca rimanga a lungo questa. Innanzitutto poiché un sistema economico del genere, con l’arricchimento centrale a spese di un impoverimento eccessivo della periferia europea, non è a lungo sostenibile. Porta certamente benefici a breve termine, ma si ripercuote nella crescita e nell’equilibrio futuri. In secondo luogo, perché gli interessi geopolitici delle tue potenze telluriche sono senz’altro concomitanti in numerosi punti ed ad impedirne la convergenza è più che altro la contingenza storica e politica. Essendo entrambe potenze continentali ed eurasiatiche, è inevitabile d’altronde che geograficamente i due paesi siano destinati ad un riavvicinamento. Il prezzo di un mancato riequilibrio in tale direzione è sicuramente alto, per entrambi. Concretamente, inoltre, i punti di contrasto finora oscurati in maniera egregia tra Stati Uniti e Germania sono numerosi. A dimostrarlo vi è l’opposizione da parte tedesca, a suo tempo, dell’ingresso di Georgia e Ucraina nel patto militare della NATO. A conferma dell’intenzione tedesca di non provocare eccessivamente l’eventuale reazione russa, vi è la tiepida reazione all’indomani della rivoluzione arancione che portò al mutamento di regime ucraino in senso anti-russo, una reazione in profondo contrasto con l’entusiasmo euro-atlantico. Persino il governo Merkel, come già notato molto più tiepido nei confronti della Russia, si è mostrato freddo in occasione della guerra dei cinque giorni, che ha opposto la Russia alle truppe georgiane che avevano aggredito l’Ossezia del Sud. Un altro esempio chiarificatore è il tentativo della Germania di includere la Russia nel progetto Nabucco, un inclusione che avrebbe intaccato il senso stesso del progetto, costituito proprio per contrastare l’influenza energetica russa. Va ricordato inoltre che, a suo tempo, la Germania si era messa da parte in occasione dell’intervento occidentale contro la Libia[7].

Sono tutti piccoli segnali positivi che, messi insieme, danno l’idea delle anime contrastanti che condizionano la politica tedesca. Certo la storia, la geografia e in particolare l’economia sembrano spingere il paese verso la Russia, ma l’ancoraggio al sistema di sicurezza occidentale, che dura sin dal 1952, e alla struttura europea, risalente sempre al dopoguerra (la dichiarazione Schuman, cui seguirà l’istituzione della CECA, è del 1950). Sistemi in cui la Germania è stata volutamente inserita sin dal dopoguerra, al fine di eliminarne l’iniziativa politica ed inserirla con sicurezza nel sistema euroatlantico. L’unico modo che ha la Germania di uscirne è la piena collaborazione con la Russia e con i BRICS per costruire i “mattoni per un mondo multipolare”, parafrasando le parole di Putin. Un multipolarismo che lascerebbe lo spazio sufficiente alle potenze regionali e ridarebbe respiro alla politica estera tedesca ed europea in generale. Ma per far questo occorrono la consapevolezza e la volontà.

 

 

*Marco Zenoni è laureando in Relazioni Internazionali all’Università di Perugia

 

[1] “Limes”, 6, 2006, Non solo saune. Mosca e Berlino sono partner veri
[2] “Limes”, 4 , 2011, L’asse Berlino-Mosca è più solido che mai
[3] http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/08/24/siria-obama-convoca-consiglieri-sul-tavolo-anche-azione-militare-come-in-kosovo/691144/
[4]  http://www.blitzquotidiano.it/politica-mondiale/siria-germania-firma-appello-usa-12-paesi-con-obama-se-attacchera-1659226/
[5] http://www.linkiesta.it/nsa-obama-berlino
[6] http://www.eurasia-rivista.org/i-mercati-e-la-questione-tedesca/18214/
[7] http://www.balkanstudies.org/blog/beyond-strategic-partnership-neo-bismarckian-paradigm-german-russian-relations

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